
Quale rilevanza assume la prospettiva ‘economica’ nei grandi testi di carattere ‘familiare’ di Leon Battista Alberti?
Leon Battista Alberti è quasi l’emblema di quella varietà di cui parlava Erasmo e non è un caso se a lui lo avvicinano anche altri elementi. Fino a qualche decennio fa, Alberti era noto quasi solo come architetto e autore del trattato di architettura, con qualche ragione visto che l’opera venne edita a Firenze, fin dal Quattrocento, con il concorso politico-culturale dell’entourage mediceo. In realtà, Alberti ha toccato quasi ogni ambito del sapere e la sua opera, che oggi conta su eccellenti studiosi in tutto il mondo, su una rivista internazionale di grande livello fatta a Parigi e su una edizione nazionale nata nell’ambito dell’Istituto di Studi sul classicismo che ha ospitato fondamentali studi e edizioni critiche esemplari, comincia a essere conosciuta anche dal grande pubblico. Alberti è stato poeta, moralista, commediografo, trattatista d’arte e d’architettura, di matematica, etc.; e perfino autore di un De cifriis, che è il primo trattato italiano di criptografia. Ma ci ha lasciato anche uno straordinario trattato in volgare sul tema della famiglia. Qui il mio interesse per quel testo e la tradizione che lo giustifica passa attraverso la prospettiva ‘economica’ in senso antico, cioè relativa all’organizzazione dello spazio domestico (oikos per i greci). Una riflessione che non era stata finora invocata, perché si è sempre fatto di quel testo, dallo stile così concreto e realistico, poco più che una ricordanza familiare come ce ne sono in Toscana dal Duecento innanzi. Invece il De familia dialoga con la grande tradizione economica, che ha i suoi archetipi in Senofonte e nello pseudo-Aristotele degli Economici e continua poi con la letteratura agronomica e in epoca medievale con gli enciclopedisti. Tra i due archetipi, Alberti sceglie Senofonte che in quegli anni a Firenze è oltretutto testo assai più raro che non Aristotele, ma quella scelta non ha avuto interpreti negli studi ed è rimasta inerte, una fonte tra le altre. Invece quel nome avverte della tradizione a cui Alberti guarda e, come al solito, rilegge in funzione della situazione fiorentina. È l’attualizzazione di un pensiero antico, al quale nell’Italia dei lignaggi e delle consorterie Alberti dà, per la prima volta in volgare, compiuta e laica dignità letteraria. Quello relativo all’oikos, allo spazio domestico (l’Ottocento inventerà poi l’«economia domestica), è un vero sapere che nel Medioevo trova collocazione nel sistema della «divisio scientiarum». Così la scientia oeconomica, come i medievali la chiamano, riceve un suo statuto collocandosi tra l’ethica da una parte (o «cura sui») e la politica dall’altra (o arte del governo della polis). Letto in questa prospettiva, il dialogo De familia appare avere chiare ambizioni di pensiero. Si muove senza apparire su una linea socratica molto consona a Alberti (e Senofonte fu allievo di Socrate). Riflette su fatti assolutamente concreti connessi a questa prima cellula della società civile: l’educazione dei figli, la scelta della moglie, i modi in cui una famiglia si mantiene e, infine, le relazioni sociali (Alberti dice l’ «amicizia»), necessarie perché la famiglia semplicemente sopravviva. È un testo ‘socratico’ nel senso in cui Cicerone riconosceva in Socrate il filosofo che «per la prima volta aveva fatto scendere la filosofia dal cielo, trasferendola nelle città e nelle case, portandola a interessarsi della vita e dei costumi» (Tusculanae). E contemporaneamente, in quella visione utilitaristica della amicizia, lontana invece da quanto diceva Cicerone nel Laelius, si riflette invece la nuova situazione fiorentina, con una famiglia (i Medici) che, negli stessi anni in cui Alberti scrive, costruisce il proprio potere su una rete clientelare senza precedenti dimostrando l’importanza dei legami sociali.
Che forme assunse la componente umanistica e neolatina nella poesia lombarda, emiliano-ferrarese, fiorentina e napoletana del Quattro e Cinquecento?
Anche in poesia conta il rapporto con gli autori antichi, specie in una epoca che non solo ne ricupera i testi ma proprio fonda il comporre (in ogni ambito) sul principio di imitatio. Oggi, che l’originalità sembra ‘de mise’ in tutti gli ambiti, bisogna forse precisare che l’imitatio non era riproduzione servile del modello, ma la via invece per affermare la propria originalità. Ci si misurava con i modelli per superarli e fare altro, coscienti che «nulla si trova che non sia già stato detto», come ricorda Alberti citando Terenzio. Gli autori, Petrarca, Boccaccio e via dicendo, fino e oltre allo straordinario Vida, hanno poi discusso molto questo aspetto del loro mestiere e naturalmente anche i moderni. C’è un testo forse non così noto di André Gide, che esprime l’idea che l’influence in letteratura contribuisce a rivelare all’artista la sua personalità. Comunque sia, questo rapporto con l’Antico comporta nei poeti, e non in loro soltanto, un apprendistato, delle genealogie costruite lentamente, quasi ‘a bottega’ (Dante nel De vulgari parla di ergasterium, qualcosa come un’ ‘officina’), delle prospettive e ne orienta la lettura del mondo. È quello che chiamiamo stile. E questa lettura è poi influenzata da (stavo per dire «è funzione di») molti altri fatti, che appartengono a una mente attrezzata.
Quali aperture intellettuali Pietro Bembo condivise con altri grandi umanisti d’Europa?
Non credo che Bembo riscuota oggi il massimo di popolarità presso i lettori anche colti, per la maggioranza dei quali rimane un grammatico un po’ troppo inamidato e conservatore. Erasmo che lo stimava molto, sorrideva del suo ciceronianismo, come prima di lui Poliziano. Tutti ricordano poi il «laissons là Bembo et Equicola» che viene da uno spirito libero come Montaigne (che in quel passo degli Essais continuava: «Quand j’écris, je me passe bien de la compagnie et souvenance des livres, de peur qu’ils m’interrompent ma forme»). Naturalmente non era tutto vero e in questo anche Montaigne è umanista. Ma è vero che siamo abituati a pensare a Bembo come al maestro del ciceronianismo e al difensore di un scelta linguistica arcaizzante perché tutta costruita sulla tradizione scritta in un momento in cui la cultura italiana è chiamata, ai suoi più alti livelli, a supplire a una crisi politico-istituzionale forse senza precedenti. Pensiamo al sacco di Roma, alle guerre d’Italia e all’asservimento del paese che lamenta Machiavelli. È una visione esatta, ancorché – come è ovvio – parziale e principalmente ancorata all’eminenza del suo indiscutibile ruolo letterario. Sullo sfondo di un’Italia che va disegnando le sue ambizioni unitarie, la cultura, le relazioni, l’operato di Bembo sul fronte cattolico più progressista e disposto al dialogo con i ‘protestanti’ ci dicono anche altro. La sua difesa di Aonio Palerario, accusato di eresia e messo a morte, gli interventi in favore del Pomponazzi all’orlo di una condanna per aver negato l’immortalità dell’anima, i rapporti con un erasmiano cosmopolita finito nelle maglie dell’Inquisizione come il portoghese Damião de Goís, grande attivista nella difesa di minoranze maltrattate (i cristiani monofisiti in Etiopia o le popolazioni della Lapponia), il tentativo condiviso col cardinal inglese Reginald Pole nell’aprile del 1540 di sottrarre il Vermigli, denunciato dai Teatini e allontanato dal pulpito, alle morse dell’inquisizione o ancora il ruolo avuto nella stampa del Testamentum novum in lingua gheez della comunità etiopica romana, sono altrettanti segnali di un ecumenismo oggi troppo sacrificato nella considerazione dell’unica (e pur certo decisiva) facies grammaticale e linguistica.
In questo quadro, si colloca anche la scoperta, nella sua biblioteca, di una sezione di cinquanta testi ebraici: sono lessici, grammatiche, testi biblici e concordanze, commenti rabbinici e testi cabalistici. Non sono libri che uno si tiene a casa per distrarsi, sono strumenti per avvicinarsi alla «lingua sancta». E per numero di testi, la sua biblioteca è seconda in Italia solo a quella di Pico della Mirandola e poi del cardinale Domenico Grimani, che i libri di Pico aveva in parte ereditato. Tutto ciò parla di un aspetto della sua cultura che non conoscevamo e che, sia detto en passant, non sembra essere entrato come merita nel panorama degli studi orientalistici del nostro Rinascimento.
In che modo la biblioteca di Bembo testimonia il suo interesse per la cultura ebraica e orientalistica?
La sezione ebraica della biblioteca apre dunque prospettive inedite nella cultura di Bembo, che a questo punto si rivela trilingue al pari di quella di grandi umanisti d’Europa: Erasmo, Reuchlin, Egidio da Viterbo, Federico Fregoso etc. Non sappiamo che conoscenza Bembo ebbe dell’ebraico, ma molti testi della biblioteca sono provvisti del sistema di puntazione con cui quella lingua indica la vocalizzazione e altri sono accompagnati da traduzione latina. Per Bembo, che scrive in greco e ha una cultura antichistica e ecclesiastica quei testi erano dunque leggibili. Meno leggibili saranno stati, per lui, i commenti rabbinici. In questa cultura, che i collegi trilingui d’Europa mettono in auge a inizio secolo, un segretario papale destinato a diventare cardinale, sta tutto sommato a suo agio. La sua Venezia è la città di Manuzio e di Bomberg, il massimo stampatore in laguna di testi ebraici; Roma, la città della corte pontificia e di molti maestri di ebraico. In epoca di incipiente riforma, accedere agli originali ebraici dei testi la cui interpretazione divideva l’Europa era un’esigenza.
La cultura di un orientalista comportava accanto all’ebraico l’arabo e altre lingue orientali, come accade per es. in Egidio da Viterbo o fuori d’Italia in Guillaume Postel o in Bibliander, successore di Zwingli a Zurigo. Non è naturalmente il caso di Bembo, che ha però una precoce curiosità per la cultura materiale d’Egitto come dimostra il possesso di antichi papiri e soprattutto la Mensa isiaca, oggi al Museo egizio di Torino, che è il pezzo più noto della sua collezione e per avere il quale si era mosso inutilmente anche Paolo III.
Che ruolo svolsero gli umanisti svizzeri prima, e tedeschi poi, nel promuovere una cultura scientifica delle acque?
L’ultima parte del volume è dedicata a quella letteratura che accompagna la pratica delle aquae medicatae tra Medioevo e Rinascimento. La frequentazione delle terme o delle acque curative è un fatto antico, ma l’esistenza di una letteratura che l’accompagna è più recente. Appartiene a quella cultura romanza, che nel meridione d’Italia si coniuga con l’apporto arabo e naturalmente greco. È nella Napoli fredericiana che Pietro da Eboli compone, a inizio del Duecento, il De balneis puteolanis dando origine a un vero e proprio genere testuale, che prosegue, in Italia, con testi di carattere più medico sulle acque: trattatelli, consilia medici, testi de balneis, etc.. Tra Due e Quattrocento, dalla Campania al Veneto passando per la Toscana, abbiamo decine e decine di testi afferenti a quella che si chiamava medicina pratica (con quella teorica, i due poli dell’insegnamento universitario). I suoi autori ambiscono al riconoscimento delle virtù delle acque. Si rifanno, per un verso, alla tradizione ippocratico-galenica (relativamente povera tuttavia al riguardo) ma si scontrano spesso con il mondo dei medici, che considerano quel sapere robetta da ‘empirici’. È significativo al riguardo il silenzio sulle acque della scuola salernitana, ma anche la prudenza di Galeno sul termalismo, denunciata da molti autori alla ricerca di quarti di nobiltà per la loro trattazione. Una tale delusione evidenza però che ormai, in Europa, sulle acque scrivono anche dotti umanisti e professori universitari, alcuni dei quali, come Leonhard Fuchs, Conrad Gessner o John Caius, sono contemporaneamente attivi a anche sui cantieri della filologia galenica. Comunque, a fine Quattrocento, questa letteratura si diffonde in Europa: prima nei cantoni svizzeri o nelle terre che lo saranno a breve (del 1452 è il primo trattato dello zurighese Felix Hemmerli), poi nei territori dell’impero e in quella che oggi chiamiamo la Mitteleuropa. Solo dopo la metà del Cinquecento arrivano anche la Francia e l’Inghilterra. E non arriva invece, incredibilmente, la Spagna che nonostante le relazioni privilegiate con la cultura araba, nonostante una tradizione di grandi medici (si pensi al catalano Arnau de Vilanova) e la presenza di importanti strutture termali sul suo territorio, non annovera un solo testo termale.
Gli umanisti svizzeri, e poi tedeschi, stanno all’inizio di questa progressione, che si rivela abbastanza lineare. Molti di loro vengono a studiare in Italia e riportano poi in patria quel sapere, appreso direttamente nei luoghi termali o sui testi che ne trattano. Ciò vale per Hemmerli che è giurista e va a Bologna o per il grande Gessner, naturalista, filologo, grecista che sceglie la Padova di Vesalio. Ma anche per molti tedeschi e inglesi: basti il nome di John Caius, che sceglie anche lui Padova, etc. o del naturalista William Turner, autore del primo testo inglese nel 1562. A scrivere sulle acque sono ormai figure che vengono da discipline diverse: giuristi appunto, naturalisti, teologi, medici, umanisti, etc.
Molti di loro si trovano riuniti nella grossa edizione (più di mille pagine in folio) che i Giunti pubblicano a Venezia nel 1553 col titolo di De balneis omnia quae extant apud Graecos, Latinos et Arabas. Sono una settantina di testi dall’antichità al Cinquecento, che nel numero ricordano il corpus ippocratico da tempo a stampa sia in greco che in latino. Con i trattati termali di medici come Andrea Bacci e Gabriele Falloppio, la Giuntina dei Balnea – vera summa di quel sapere millenario – chiude il periodo ‘eroico’ di questa letteratura intesa al riconoscimento delle virtù terapeutiche delle acque. È una lenta promozione, che vede il passaggio dell’«ars medica» esercitata dagli empirici a «scientia» invece monopolizzata dai medici e ha sullo sfondo l’antico dibattito sullo statuto della medicina. Ma porta con sé anche il riconoscimento delle basi empiriche dell’arte e in tal modo sancisce anche la fine della superiorità della medicina teorica su quella pratica.
Massimo Danzi è Professore associato di Letteratura italiana all’Università di Ginevra