“Inferni medievali. Dipingere il mondo dei morti per orientare la società dei vivi” di Andrea Gamberini

Prof. Andrea Gamberini, Lei è autore del libro Inferni medievali. Dipingere il mondo dei morti per orientare la società dei vivi, edito da Viella: quali caratteri assume, fra Tre e Quattrocento, la rappresentazione dell’Inferno?
Inferni medievali. Dipingere il mondo dei morti per orientare la società dei vivi, Andrea GamberiniSe noi guardiamo le raffigurazioni monumentali – cioè quelle di grandi dimensioni, destinate ad una visione pubblica e in genere collocate in spazi a tutti accessibili, come ad esempio nelle chiese o nei palazzi comunali – la caratteristica più vistosa, che chiunque può cogliere, è sicuramente la grandissima varietà di peccatori e di pene, che non ha confronto né con l’età precedente, né con quella successiva.

L’impressione è che l’esplosione del tema iconografico dell’Inferno, sempre più ricco di dettagli raccapriccianti e di profili sociali riconoscibili (l’oste, il carpentiere, il traditore del comune, il bestemmiatore, i giudici corrotti, i membri delle fazioni, ecc.) si leghi all’esigenza, dalla Chiesa avvertita nettamente dal pieno Duecento, di rinfocolare nei fedeli la paura della condanna eterna, in parte venuta meno con la diffusione della dottrina del Purgatorio. In fondo, non è forse quest’ultimo un ascensore che viaggia solo verso i piani alti, cioè verso la salvezza? Di qui allora un rilassamento dei costumi dei fedeli, agli occhi dei quali un soggiorno, anche lungo, nel regno intermedio appariva come un prezzo neanche troppo alto pur di continuare a godere dei piaceri di questo mondo. Si trattava, naturalmente, di una visione che la Chiesa non poteva che scoraggiare e alla quale rispose con una vera e propria “pastorale del terrore”, come è stata definita, in cui un ruolo centrale ebbero proprio le descrizioni dell’Inferno: a cominciare da quelle visuali.

Questa stagione di libertà compositiva durò all’incirca due secoli, durante i quali un contributo non piccolo alla ridefinizione dell’immaginario infernale venne da alcuni attori sociali – nobili, comuni, confraternite, ordini religiosi – interessati a sfruttare quello straordinario medium comunicativo per veicolare specifici messaggi e talora orientare in direzioni molto precise il comportamento dei fedeli.

Poi, però, improvvisa e repentina la fine. Sullo scorcio del Quattrocento – dunque ben prima della Riforma e della Controriforma – le immagini dell’Inferno, perlomeno quelle più dettagliate e ricche di particolari, tendono a farsi più rare, fino poi a scomparire. Centrale, per contro, diventa ora la raffigurazione di un altro tema iconografico, quello della Cacciata dei dannati, in genere raffigurati alla sinistra del Giudice: un modo per ricordare al fedele un’eventualità possibile, senza però mostrarne le conseguenze (ovvero le pene dell’Inferno). È l’effetto di una nuova spiritualità, che guarda con rinnovata fiducia al Giudizio: lungi dall’essere ancora il Dies Irae della tradizione medievale, esso venne invece sempre più inteso come un momento di speranza, da attendere senza eccessiva angoscia.

Quali scelte iconografiche compiono gli artisti?
Il punto da cui partire per comprendere le scelte degli artisti è la laconicità delle Scrittura: contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, la Bibbia è piuttosto reticente sull’Inferno. Anche se più luoghi del Nuovo e del Vecchio Testamento affermano con assoluta certezza il principio della condanna dell’empio, la descrizione del luogo di espiazione e delle pene subite è espressa in termini assai vaghi. L’Inferno è genericamente indicato come un luogo sotterraneo, dominato dalle tenebre e rischiarato solo dal fuoco che divora i dannati, insieme al verme imperituro. Null’altro. Proprio per andare incontro alla curiosità dei fedeli si sviluppò allora fin dall’età tardo antica una fiorente letteratura religiosa in cui, attraverso l’artificio del racconto di un sogno o di una visione, cominciarono ad essere fornite indicazioni sempre più precise su chi popola l’Inferno e su quali siano i tormenti colà diffusi. Questa ricca testualità fu ripresa e sviluppata nel medioevo, finendo col costituire una fonte primaria per artisti e frescanti del Tre-Quattrocento. E tuttavia, sarebbe un errore pensare che quei materiali letterari siano stati usati unicamente come dei serbatoi di immagini o di situazioni. A partire dall’età carolingia la letteratura visionaria si fece, infatti, sempre più attenta al contesto di fruizione, caricando così il messaggio di un significato non solo religioso, ma anche sociale e politico. La scelta dei peccatori raffigurati (che includeva celebri personaggi del tempo: regnanti, principi, grandi ecclesiastici, ecc.) assolveva proprio questa funzione, in un evidente sforzo di saldare il trascendente con il contingente. Quando perciò fra Tre e Quattrocento pittori e committenti si rifecero alla letteratura visionaria per cercare ispirazione, essi vi trovarono non solo dei modelli da tradurre in immagini, ma anche una tecnica di comunicazione molto sofisticata, che poteva essere reimpiegata proficuamente nelle arti visuali. Naturalmente non tutte le immagini dell’Aldilà che si sono preservate – e che, per inciso, sono una piccolissima parte di quelle prodotte – racchiudono anche un messaggio meta-religioso. Alcune si limitano a trasporre quanto la dottrina (costituita da Scrittura, Tradizione e Magistero) ha tramandato, senza ulteriori integrazioni. Ma in un numero non piccolo di casi si scorge distintamente la volontà di veicolare attraverso l’Inferno contenuti particolari. Questo vale sia per alcuni celeberrimi affreschi, magari realizzati da maestri di grido (come Giotto nella Cappella degli Scrovegni), sia per altri assai meno noti, su cui il libro indugia, portandoli anzi per la prima volta all’attenzione del grande pubblico.

Quale funzione svolgevano gli exempla negativi?
Il grande teatro dei reprobi era il perno di una strategia comunicativa molto lucida, che mirava a indirizzare i fedeli verso comportamenti speculari e opposti a quelli puniti. Così come a noi è chiaro che il “meno” esiste solo in funzione del “più”, analogamente agli uomini e alle donne del tempo non sfuggiva che gli exempla negativi (perché tali erano in fondo i dannati) avevano ragione di esistere solo in funzione di quelli positivi. La critica si faceva insomma implicitamente proposta. Ci si potrebbe chiedere a questo punto perché pittori e committenti non abbiano investito iconograficamente in modo più diretto ed esplicito sulle rappresentazioni del Paradiso, ad esempio collocandovi i responsabili di azioni ritenute particolarmente meritorie, da portare all’imitazione dei fedeli. E la risposta è che tra le due grandi leve del comportamento umano – la paura della punizione e la speranza del premio – era decisamente la prima ad avere la maggiore presa sulla società. A ricordarcelo è un predicatore domenicano d’inizio Trecento, Giordano da Pisa, che in un suo quaresimale afferma esplicitamente la necessità per gli uomini di avere sempre davanti agli occhi le immagini del Giudizio Universale, perché essi non si astengono dal male, se non per paura! Ben comprendiamo, allora, come mai il ricco imprenditore Bartolomeo Bolognini, nel disporre un lascito testamentario per la decorazione della cappella di famiglia in San Petronio a Bologna, usò termini piuttosto vaghi per il Paradiso (“si faccia la gloria della vita eterna”) e molto più incisivi per l’Inferno, dove volle rappresentate “punizioni orribili quanto più possibile”. Il risultato è lo splendido ciclo di affreschi realizzato da Giovanni da Modena, che ancora oggi possiamo ammirare.

In che modo, attraverso il tema dell’Inferno, i committenti esprimevano i propri ideali di convivenza civile?
Per tarare i contenuti della comunicazione visuale erano sufficienti alcuni semplici espedienti, che gli artisti mutuarono in gran parte, come dicevo, dagli autori delle visiones letterarie dei secoli precedenti. Il primo consisteva nel selezionare accuratamente i peccati da raffigurare, così da portare il messaggio su uno specifico terreno. È ad esempio quello che fa Giotto, il quale articola sì i peccatori dell’Inferno intorno al ternario delle concupiscenze (lussuria, superbia e avarizia, cfr.1 Giov 2, 16), ma nel declinare quei tre vizi si guarda bene dal rappresentare l’usura, che qualcuno avrebbe potuto associare al committente, Enrico Scrovegni. Il secondo espediente implicava la scomposizione del peccato in alcune delle sue manifestazioni concrete, secondo un procedimento dall’astratto al concreto: ad esempio, non vengono raffigurati genericamente gli avari, ma gli usurai, i frodatori, i falsificatori di moneta, i simoniaci, ecc. In campo letterario il maestro di questa tecnica, in realtà molto antica, è sicuramente Dante, ma in ambito figurativo gli esempi sono moltissimi. Cito ad esempio gli affreschi nelle chiese degli Osservanti francescani, dove – in linea con la predicazione di Bernardino da Siena – il gruppo dei superbi ricomprende in genere gli eretici, i maghi e le fattucchiere, i membri delle fazioni, secondo una categorizzazione attualizzante dal chiaro significato parenetico, di monito.

L’ultimo stratagemma comunicativo consisteva infine nel fornire del peccatore non solo un’identità sociale (il mugnaio, il frate, la prostituta, ecc.), ma anche il profilo individuale: è il caso dell’imperatore Ludovico il Bavaro, che compare negli affreschi di Buffalmacco nel Camposanto pisano, o di Urbano VI, dipinto nell’Inferno della chiesa dell’Annunziata a Sant’Agata dei Goti.

Il potenziale espressivo di queste raffigurazioni visuali era enorme e non stupisce che di esse si siano serviti soggetti molto diversi, a partire da nobili e aristocratici. È il caso del ricco Enrico Scrovegni, preoccupato di raffigurare un Inferno in cui non ci sia spazio per chi pratica le attività feneratizie; ma è il caso anche della famiglia fiorentina dei Visdomini, che in un estremo tentativo di prendere le distanze dal cessato regime di Gualtieri di Brienne, fece dipingere il proprio congiunto Cerrettieri (che di Gualtieri era stato il braccio destro) tra i dannati per l’eternità. Ancora diversa la vicenda del miles Stefano Porro, che nell’Inferno di Santo Stefano a Lentate sul Seveso volle contemplata solo la società rurale a lui sottoposta.

Di questo straordinario medium comunicativo non si servirono però solo singoli e famiglie, ma anche attori collettivi. Citavo il caso di alcuni ordini religiosi, come gli Osservanti francescani, che attraverso la predicazione, anche quella “picta” (cioè dipinta), cercarono di imporre un modello di società regolato da severe leggi morali, ma potrei aggiungere anche le confraternite e, soprattutto, i comuni. L’immagine del Giudizio era, infatti, diffusa nei palazzi civici del Duecento, dove veniva raffigurata alle spalle dei magistrati, con un intento duplice: creare un gioco di specchi legittimante tra il giudice e il Giudice, ma anche ammonire gli astanti sulle conseguenze anche ultraterrene delle loro dichiarazioni (per chi mente sotto giuramento non c’è solo la pena terrena…). Tuttavia è soprattutto nelle chiese di patronato comunale che il tema iconografico dell’Inferno venne declinato in modo da sviluppare gli ideali solidaristici ed economici della comunità. L’etica delle relazioni sociali, l’importanza della fiducia sono ripetuti in maniera quasi ossessiva, attraverso la dannazione di chi vi attenta: siano essi gli usurai, che tesaurizzano anziché rimettere in circolo le risorse, siano invece i professionisti che esercitano falsità la propria attività, mentendo su quantità e qualità del venduto. Da notare che in questo quadro un posto centrale ha la tutela della famiglia, cellula costitutiva della società comunale. Nella condanna che le comunità esprimono verso gli adulteri o i “sodomiti” non c’è tanto un afflato religioso, quanto una preoccupazione tutta sociale: se gli adulteri rischiano di minare la legittima successione e la corretta divisione ereditaria del patrimonio, gli omosessuali, al contrario, ritardando l’età del matrimonio o sottraendovisi, vengono meno al loro dovere di perpetuazione del corpo sociale: per le comunità l’assenza di figli era, infatti, un problema non minore di quello dei figli illegittimi. Splendidi esempi di chiese di patronato comunitario, in cui queste tematiche vengono sviluppate in dettaglio, sono quelle della SS. Annunziata a Cori, in provincia di Latina, o quella della SS. Annunziata a Sant’Agata dei Goti, in provincia di Benevento, anche se testimonianze esplicite rimangono pure per il Nord, come nella chiesa di Sant’Ambrogio a Cademario, oggi Canton Ticino, ma un tempo ducato di Milano.

Per concludere, vorrei menzionare anche le raffigurazioni presenti nelle chiese delle confraternite, che pur condividendo contenuti simili a quelle delle chiese comunitarie (le confraternite erano in effetti un segmento della comunità), presentano le loro particolarità. Un tema in esse ricorrente – che osserviamo nel Battistero di Antrodoco, a Santa Maria dei Ghirli a Campione d’Italia e Santa Croce a Leonessa – è senz’altro il riferimento alla madre infanticida: collocarla all’Inferno non era solo un monito contro una pratica assai diffusa, ma anche un invito a prendere in considerazione un’alternativa resa possibile proprio dalle confraternite, titolari di ospedali in cui si praticava anche l’assistenza ai fanciulli abbandonati.

Andrea Gamberini è professore ordinario di Storia medievale all’Università degli Studi di Milano. È autore di diversi volumi, tra cui La legittimità contesa. Costruzione statale e culture politiche (Lombardia, XII-XV secolo), Roma, Viella, 2016 (tradotto in inglese per Oxford University Press nel 2018).

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