“Infanzia e santità. Un difficile incontro alle origini del cristianesimo” di Elena Zocca

Prof.ssa Elena Zocca, Lei è autrice del libro Infanzia e santità. Un difficile incontro alle origini del cristianesimo edito da Viella: quale opinione dell’infanzia avevano gli antichi?
Infanzia e santità. Un difficile incontro alle origini del cristianesimo, Elena ZoccaPotremmo dire che l’opinione degli antichi sull’argomento fosse ambivalente. Da un lato, attribuivano straordinaria importanza alla “prole”, dall’altro si dimostravano piuttosto ingenerosi con i bambini in quanto tali. Mi spiego meglio. Mettere al mondo dei figli veniva considerato pressoché da tutti un dovere sociale. I ricchi vi vedevano una garanzia per la continuazione del nome e la trasmissione del patrimonio, i poveri una promessa di futuro e nuove braccia da lavoro. Gli uni e gli altri speravano poi di trovarvi un’assicurazione per la vecchiaia, in un mondo che non conosceva forme di welfare al di là di quelle intrafamiliari. Quel che era vero a livello individuale, non lo era di meno a livello collettivo, tanto che la politica demografica sarebbe stata preoccupazione costante dei governanti, basti pensare ad Augusto, che non solo promulgò lo ius trium liberorum, una normativa volta ad incrementare il numero dei nati, ma si spinse sino a tassare il celibato. Nel mondo giudaico, a queste ragioni di ordine socio-politico se ne aggiungeva un’altra di carattere religioso e, per ciò stesso, cogente: era infatti comune la credenza che il Messia sarebbe nato da una famiglia di ebrei.

Tutto dunque contribuiva a rendere preziosi i bambini, tanto più che questi, per quanto numerosi alla nascita, giungevano all’età adulta solo in numero limitato, essendo allora drammatici i tassi di mortalità neonatale e infantile. Ciononostante, la valutazione del bambino in sé non era positiva. Proprio per la sua caratteristica di essere in divenire, veniva infatti giudicato fisicamente e mentalmente deficitario, sciocco, capriccioso, debole, vulnerabile, facile alla paura come all’ira, privo di raziocinio ed incapace di autodominio. In una parola, un essere incompleto, non ancora pienamente umano e, per questo, bisognoso d’una disciplina rigorosa, talvolta anche molto dura. Il processo educativo non mirava infatti al libero sviluppo di una personalità, ma alla veloce trasformazione del bambino o della bambina in un “utile” adulto, cioè un cittadino o una cittadina pronti ad assolvere i compiti e doveri imposti dalla società.

Quali novità introdusse il cristianesimo?
I cristiani, come tutti, nascevano in un luogo e tempo determinati. Nei primi secoli poi, come diceva Tertulliano, «non si nasceva, ma si diveniva cristiani» (Apol. 18,5). Ciò significa che ci si formava nella cultura dell’ambiente e solo ad un certo punto arrivava la svolta della conversione. Di conseguenza, nati e cresciuti in un determinato contesto, fatalmente i neoconvertiti non potevano che condividerne usi, costumi, mentalità. Il fenomeno risulta perfettamente evidente sin dagli scritti confluiti nel Nuovo Testamento, nonostante questi riflettano indubbiamente l’entusiasmo e, direi, il senso di novità dei primi “credenti in Gesù”. Nel linguaggio metaforico di Paolo, ad esempio, i bambini e le loro caratteristiche peculiari vengono spesso richiamati come sinonimo di incompiutezza, d’uno sviluppo intellettuale, comportamentale, etico ancora in fieri, chiamato ad evolversi verso il necessario perfezionamento dell’età adulta (in tal senso indirizza l’immagine del passaggio dal latte al cibo solido, cf. 1 Cor 3, 1-2). Ciononostante, anche in questi testi, e soprattutto nelle cosiddette epistole pastorali, si colgono le spie d’un cambiamento. Emerge infatti inequivocabilmente come i bambini facessero parte delle comunità, fossero presenti alle riunioni e, soprattutto, come l’istruzione si rivolgesse a loro non meno che agli adulti. L’influsso più rilevante deve però ricercarsi altrove e ruota intorno alla persona e all’insegnamento di Gesù, nonché alla interpretazione che fu data dell’una e dell’altro.

Quale ruolo svolse l’esempio di Gesù?
I vangeli mostrano spesso Gesù in rapporto con i bambini ed il suo atteggiamento nei loro confronti appare cordiale e positivo. Due episodi richiamati dai sinottici – cioè Marco, Matteo e Luca – rivestono in tal senso un rilievo tutto particolare. Nel primo (Mc 9,33-37; Mt 18,1-5; Lc 9,46-48) Gesù coglie i suoi discepoli intenti a discutere su chi fra di loro fosse il più grande. Egli allora prende un bambino, lo pone nel mezzo, lo abbraccia e invita tutti ad accogliere i piccoli, quasi identificandosi con loro: «Chi accoglie questo fanciullo nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato. Poiché chi è il più piccolo tra tutti voi, questi è grande» (Lc 9,48).

Nel secondo (Mc 10, 13-16; Mt, 19,13-14; Lc 18,15-17) la scena si ripresenta simile, ma con una intensificazione. Gesù ora rimprovera seccamente i discepoli che vorrebbero allontanare i bambini portati a lui dai genitori – «sinite parvulos venire ad me lasciate che i bambini vengano a me» –, quindi li prende fra le braccia, li benedice e precisa: «Chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso» (Mc 10,15). L’atteggiamento controculturale di Gesù (Carrol) o, per dirla in parole più semplici, il suo anticonformismo viene sottolineato dallo stupore dei discepoli, i quali sembrano non capire né cosa fa né cosa dice. Non possiamo liquidare questa reazione come un semplice espediente narrativo, perché ricompare quasi immutata nell’esegesi successiva, quando i Padri dei primi secoli si affanneranno su questi episodi, spesso non riuscendo a trovarne la chiave di lettura. Ancora verso la fine del IV secolo, Ambrogio, il grande vescovo di Milano, confrontandosi con essi, spingerà sull’allegoria, giungendo ad affermare che Cristo non poteva qui riferirsi ai bambini in senso proprio (incapaci di vera virtù, poiché questa non consisteva nel “non potere” ma nel “non volere” peccare) bensì alla chiesa, “infante” rispetto ai più anziani giudei (Ambr. in Lc. VIII,57-59).

Eppure, quegli episodi avrebbero continuato a scavare nelle coscienze di predicatori ed ascoltatori, orientandole – molto lentamente – verso una valutazione positiva dell’infanzia. Fu però, a mio avviso, determinante anche un altro fattore. Sollecitati dal dibattito teologico in corso e dalle dispute sulla natura umano-divina di Cristo, i vescovi non si sarebbero stancati di ripetere ai loro fedeli che il “Salvatore” aveva “scelto” di manifestarsi come un bambino, per assumere su di sé intera la debolezza umana e, attraversando tutte le età, tutte santificarle. Questa riflessione, che torna quasi martellante nella predicazione del IV-V secolo, produsse come effetto collaterale un concentrarsi dell’attenzione su questa fase della vita di Cristo, spesso richiamata nei singoli dettagli: la nascita poverissima, l’essere stretto nelle fasce, la totale dipendenza dai genitori, lo stato di persecuzione e pericolo. Tutto ciò, probabilmente, diede l’avvio ad una forma di pietà articolata intorno alla infantia Christi, un sentimento che trovò rapidamente eco nei pellegrinaggi ad loca sancta (basti pensare ad Egeria o alle nobildonne del circolo di Girolamo) e, soprattutto, in una iconografia che potremmo definire “del Natale”. In concomitanza con l’affermarsi di questa festa (citata per la prima volta nel Cronografo del 354), scene relative alla natività e all’epifania cominciano ad emergere sui sarcofagi e nella pittura catacombale, contribuendo ulteriormente a focalizzare l’interesse su questo particolare momento della “biografia” di Gesù, ma anche della vita di ciascun uomo.

Come si sviluppò l’incontro fra infanzia e santità?
Probabilmente furono proprio i fattori appena accennati a spingere in tal senso, ma a ciò si aggiunsero anche altri elementi. Non possiamo dimenticare, ad esempio, che nel ciclo liturgico del Natale rientrava anche il ricordo della cosiddetta strage degli Innocenti. Le molte omelie dedicate a questo soggetto con lode specifica degli “infanti” betlemiti (seppero confessare Cristo prima ancora di ricevere l’uso della parola, “infans” significa letteralmente “non parlante”) può aver indotto un lento cambiamento di mentalità. La chiesa antica celebrò, del resto, anche altri piccoli martiri, basti pensare alla romana Agnese, la cui fama si diffuse rapidamente in tutto l’Occidente, ai sette fratelli Maccabei, noti da Levante a Ponente, o all’omologo caso romano di Felicita con ugual numero di figli. Ci sono poi i diversi martiri bambini ricordati da Prudenzio (Barula, Eulalia ecc.), e altri ancora celebrati in una letteratura agiografica, soprattutto tarda, che sempre più assumeva i tratti del romanzo, inclinando ai toni del patetico. In questi testi, bisogna però ammettere che l’elogio della santità infantile passava, come è stato osservato (Giannarelli), per una trasformazione nell’opposto, espressa attraverso l’antico topos del puer senex, il bambino che rinnegava in sé l’infanzia per uniformarsi alla saggezza della vecchiaia. Ciononostante, faticosamente riesce a farsi strada anche un apprezzamento specifico per la prima età, e ciò avviene significativamente laddove gli autori si trovavano più impegnati nella riflessione cristologica. In tal senso un punto di svolta può riconoscersi in Leone Magno, che in un sermone sul Natale, non a caso, collega molti degli elementi sin qui richiamati e giunge a lodare l’infanzia non più “nonostante” se stessa, ma proprio per le sue peculiarità: il veloce passaggio dei turbamenti, il rapido recupero della serenità, lo smemoramento delle offese, il disinteresse per gli onori, l’amore per la socialità, l’istintivo egalitarismo (tract. 37, 2-4). Così, una considerazione “da vicino” del bambino, materiata d’un raro acume psicologico, irrompe nell’immaginario collettivo. Ora il predicatore ribalta l’antico topos del puer senex ed invita persino i vecchi “a farsi come bambini”, esortandoli al recupero d’una semplicità di cuore, certo più adulta e consapevole. Qui, per la prima volta si parla di infanzia come magistra sanctitatis, maestra di santità, e si addita un percorso di maturazione in qualche modo inverso rispetto a quello che era ritenuto essere il tradizionale processo di formazione non solo sotto il profilo culturale, ma anche, e non meno, sotto quello etico.

Il mondo antico conoscerà ancora gli orrori della vendita dei bambini, del loro sfruttamento nel mercato del lavoro e del sesso, dell’abbandono e dell’infanticidio, ma forse, se oggi ci appare esecrabile ciò che allora era considerato normale, è merito anche di quella lontana riflessione.

Elena Zocca è Professore Associato di Storia del cristianesimo presso Sapienza, Università di Roma, e Professore invitato presso l’Istituto Patristico Augustinianum. Fra le sue pubblicazioni: Dai “santi” al “Santo” (Studium 2003); Possidio. Vita di Agostino (Paoline 2009); Infanzia e santità (Viella 2020). Ha curato con A.M.G. Capomacchia, Il corpo del bambino (Morcelliana 2017), Liminalità infantili (ibid. 2019); Antiche infanzie (ibid. 2020), e con T. Caliò, Francesco Scorza Barcellona La passione dell’agiografia. Magi, martiri e infanti nella letteratura cristiana antica (Viella 2020).

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