
Che relazione esiste tra digitalizzazione, crescita economica e occupazione?
La digitalizzazione ha un effetto diverso nei singoli comparti dell’economia. Vi sono innanzi tutto i cosiddetti settori digitali, quelli cioè che hanno per oggetto proprio la raccolta e l’analisi dei dati o lo sviluppo di prodotti e servizi funzionali rispetto a tali obiettivi. La rilevanza di questi settori è facilmente comprensibile se pensiamo che ne fanno parte 7 delle principali imprese al Mondo per capitalizzazione di Borsa (Apple, Amazon, Microsoft, Alphabet-Google, Facebook, Alibaba e Tencent); il peso che i dati rivestono in tutti i comparti dell’economia sta avendo per queste imprese un duplice effetto: di crescita del volume di affari e di allargamento del proprio campo di attività: si pensi al caso di Alibaba e Tencent che hanno costituito insieme la prima impresa di assicurazioni interamente digitale. Vi sono poi i settori “immateriali”: parliamo di musica, media, banche, assicurazioni, dove il valore di ciò che si produce è rappresentato sostanzialmente dal relativo contenuto informativo, interamente digitalizzabile. Questi settori sono destinati a una indubbia rivoluzione; emblematico è il caso dell’industria musicale americana, dove oggi lo streaming copre il 75% del mercato, rendendo marginali i supporti tradizionali. Per comprendere la velocità di questo cambiamento basti pensare che il valore dello streaming è più che triplicato in tre soli anni. Nei settori immateriali ci dobbiamo aspettare effetti rilevanti anche dal punto di vista occupazionale: nelle banche e nelle assicurazioni diventeranno meno utili sportellisti e agenti, ma aumenterà la necessità di analisti dei dati, in grado di individuare le opportunità di investimento o il profilo di rischio corretto per il singolo cliente, creando quindi un’offerta competitiva. Infine, vi sono i settori “materiali”, come il meccanico, il chimico o l’edilizia, dove il digitale rappresenta uno dei modi per rendere i prodotti più efficaci ed efficienti; qui l’impatto sarà probabilmente più limitato, ma comunque certo non irrilevante ed è fondamentale non farsi trovare impreparati.
In che modo i dati possono supportare le politiche e i servizi pubblici?
La nostra società sta diventando sempre più eterogenea, dal punto di vista economico, etnico e anagrafico. È una società in cui cresce la richiesta di interventi pubblici (si pensi a come il fenomeno dell’aumento della speranza di vita generi nuovi bisogni, che sempre meno possono essere soddisfatti dalle reti famigliari) e contemporaneamente la varietà delle esigenze: in ospedale o all’università ci aspettiamo di non essere trattati come “numeri”, ma che si pensi a noi come individui, con esigenze proprie. Di fronte a queste aspettative, l’approccio tradizionale alle politiche pubbliche – fornire servizi omogenei e indifferenziati a tutti i cittadini – genera due problemi importanti. Da un lato, non si ottimizza l’uso delle risorse, in quanto il livello “medio” è probabilmente insufficiente per alcune persone mentre è sicuramente ridondante per altre. In secondo luogo, si crea una disparità crescente tra chi ha accesso ai servizi e chi non vi accede. Il programma QUBi di Fondazione Cariplo, ad esempio, ha scoperto che alcune famiglie in condizione di disagio sono destinatarie di 7 diverse misure di sostegno pubblico, mentre altre, nella stessa situazione, non ne hanno alcuna. I dati ci possono consentire di comprendere il reale fabbisogno di ciascuno e, di conseguenza, di adattare l’intervento pubblico ai bisogni individuali, personalizzandolo. Riuscire a farlo richiede però un cambiamento significativo dell’approccio alle politiche pubbliche sia da parte della classe politica sia da parte del management pubblico.
Quali sono le priorità per uno sviluppo positivo, sostenibile e inclusivo?
In estrema sintesi, la priorità è quella di assicurare che il valore che viene estratto da un insieme di dati sia restituito, almeno in parte, a chi è il vero titolare di questi dati, ovvero la persona. Questo significa, ad esempio, fare in modo che la “cessione” dei nostri dati a un soggetto privato sia compensata dal valore del servizio che riceviamo, o che abbiamo una chiara consapevolezza di come le informazioni che diamo alla pubblica amministrazione creino valore, ad esempio migliorando le terapie disponibili o riducendo i consumi energetici. È interessante in questo senso la proposta canadese di creare un Civic Data Trust, ovvero trattare i dati di un insieme di persone come un vero e proprio asset, che deve essere sotto la responsabilità di un soggetto (trustee), il quale ha il compito di “custodire” i dati e garantire che i benefici vadano a vantaggio di tutti i fornitori dei dati.
Quali soluzioni potrebbero dar vita a un’«Italia digitale» e favorire un vero rilancio del nostro Paese?
A nostro avviso, siamo davvero a un bivio; dalle decisioni che il nostro Paese prenderà (o non prenderà) dipende il nostro futuro. Creare attraverso i dati sviluppo, occupazione e miglioramento della qualità della vita o muoversi verso un “incubo”, in cui le nostre imprese sono spiazzate dai giganti digitali, si perdono posti di lavoro e i nostri spostamenti e le nostre scelte sono pilotate da un Grande Fratello? Nel libro abbiamo indicato 10 proposte di intervento, che possono essere realizzate senza bisogno di risorse finanziarie aggiuntive e che toccano i diversi aspetti del problema. Ne cito solo due. La prima è rendere gli uffici postali un luogo di “accesso digitale assistito”, in cui chi non ha una propria connessione a Internet possa trovare il supporto per leggere un giornale elettronico o fare home banking: oggi il servizio universale – che alle Poste è affidato – non consiste più nella possibilità di ricevere una raccomandata, ma nel poter continuare a fruire di servizi ormai quasi solo digitalizzati. La seconda è la creazione di una facility nazionale per l’accesso ai dati della pubblica amministrazione, che garantisca la possibilità di valorizzare il giacimento di dati e informazioni disponibili negli archivi pubblici, salvaguardando il corretto livello di privacy individuale. Sono due esempi di come la politica – nel senso più alto di questo termine – possa fare in modo che il nostro Paese colga le opportunità del digitale limitandone gli effetti distorsivi.
Giovanni Azzone è Professore ordinario di Impresa e Decisioni Strategiche al Politecnico di Milano, di cui è stato Rettore nel periodo 2010-2016 e presidente di Arexpo SpA. Ha ricoperto numerosi incarichi istituzionali nelle amministrazioni dello Stato. In particolare, è stato Responsabile della struttura di missione Casa Italia, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri; Consulente dell’Organismo Indipendente di Valutazione del Ministero dell’Economia e delle Finanze; Membro del Comitato tecnico scientifico per il coordinamento in materia di valutazione e controllo strategico nelle amministrazioni dello Stato, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. È autore di oltre 70 articoli su riviste internazionali e di 12 libri.