
Figlio di due genitori ex terroristi poi convertitisi ai Testimoni di Geova, con un nonno comunista e uno professore, una nonna scienziata e l’altra in corso di beatificazione, Marco confessa di non riuscire a trovare il proprio posto del mondo. E questa riflessione accomuna una generazione, quella dei trentenni appunto, che a detta della scrittrice è praticamente invisibile: alla politica, in primo luogo, ma in generale alla società.
Avere trent’anni è un momento decisivo. È il periodo in cui si tira una linea e si fanno le somme – che obiettivi ti eri prefissato, quali hai raggiunto, chi sei diventato e chi vuoi diventare –, e i conti spesso non tornano, almeno se si usano i parametri tradizionali: “Sai quando ti dicono: ma come, hai trent’anni e non hai ancora… Un lavoro, una ragazza, una casa, un figlio.” È questa l’insoddisfazione che la De Gregorio ha sentito emergere dalle lettere ricevute per la sua rubrica, “Invece Concita”, che cura ormai da diversi anni su “La Repubblica”. Un’onda di lettere di chi raccontava il suo senso di impotenza, di inutilità, di depressione. Erano quasi tutti, appunto, ragazzi intorno ai trent’anni.
L’insoddisfazione nasce dal non avere un lavoro sicuro, certo, ma non è soltanto questo. “È che ci avete lasciato senza niente – nient’altro – da fare” scrive Marco a nonno Adelmo, “Senza qualcosa in cui credere. Un posto a cui appartenere. Non c’è ora, non c’è noi: parole sparite. Avete consumato tutte le speranze, come se fosse un banchetto solo vostro. Ve le siete mangiate, e poi siete tornati a casa a scrivere i vostri libri, a presiedere le vostre fondazioni, a coltivare viti pregiate e fare vini”.
Il libro si sviluppa come un dialogo. Da un lato i pensieri di Marco, ma anche gli estratti della sua vita, le pagine del diario che teneva da bambino, le lettere che ha scambiato con il nonno, le e-mail scritte e ricevute dalla sorella Anna. Dall’altra le risposte della De Gregorio, che risposte poi non sono, (e che infatti lei chiama “le risposte che non ho”), ma spunti, frammenti: gli scrittori che ha amato, le musiche che l’hanno accompagnata, le storie e i ricordi personali. E da tale epistolario immaginario emerge il ritratto di una generazione, delle sue difficoltà, della sua guerra forse invisibile ma non per questo meno concreta.
“Che poi anche tutto questo parlare, non sarà sopravvalutato? Tutti parlano, dicono cosa si deve fare, e come, e quando. Tutti che ti spiegano in modo definitivo come stanno le cose. E ora bisogna combattere questo, e adesso condannare quello. E poi bisogna denunciare quest’altro, e mobilitarsi e vergogna, e partecipa, e firma, e alza la voce anche tu. Ma io non sono mica tanto sicuro, sai, di questi giudizi netti e inesorabili. Io a volte non lo so, come stanno le cose. Preferisco aspettare, capire meglio, studiare. Magari partire e andare a vedere. Metterci del mio, fare senza dire. Quante volte siamo partiti. Però mica abbiamo fatto gli hashtag su Instagram. Siamo partiti.”
In questo la scrittrice è molto attenta. Non dà lezioni né tantomeno fornisce verità preconfezionate. Le meditazioni di Concita e Marco si incrociano e si accavallano, e li si immagina come zia e nipote seduti a raccontarsi al tavolo della cucina dopo un pranzo di Natale.
E forse, per provare a confutare l’assioma per cui il trentenne in Italia non è un adulto con piena consapevolezza di sé, ma l’eterno adolescente che per dire la sua deve sempre chiedere permesso, io lo scambio epistolare l’avrei assemblato al contrario – prima la De Gregorio e poi Marco – così a dire che lei (lei in quanto rappresentante dei 50-60enni, di quelli che ce l’hanno fatta, di quelli che hanno trovato un posto nel mondo) propone la sua visione del mondo, i suoi libri, le sue citazioni e Marco (il trentenne, il futuro) dà le risposte.
Perché i trentenni di In tempo di guerra non sono affatto “sdraiati” come gli adolescenti dell’omonimo libro di Michele Serra. Sono Megan Rapinoe, la capitana della squadra di calcio americana che ha scosso la politica parlando delle responsabilità a cui nessuno può sfuggire; Carola Rackete, la capitana della Sea Watch che ha sfidato il blocco del governo italiano per portare in salvo una nave di migranti, Omezzine Khelifa, la tunisina che ha lasciato la sua comoda vita parigina per diventare un’attivista nella Rivoluzione araba. Sono uomini e donne trattati spesso come ragazzini, dimenticando che a trent’anni si è adulti (“Napoleone ha conquistato l’Italia a ventisei, Gagarin era nello spazio a ventisette. […] Kurt Cobain ha inciso Nevermind a ventiquattro. Andreotti all’età che ho io era sottosegretario alla presidenza del Consiglio”). E che dunque sarebbe giusto non soltanto ascoltarli, i trentenni, ma anche lasciare loro lo spazio che meritano. Nella politica, di sicuro, e poi anche nelle aziende, nelle università, e pure sui giornali, non solo a scrivere lettere, ma editoriali, magari. Questa sì sarebbe una bella rivoluzione.
Silvia Maina