In extremis. Il tema funebre nella narrativa italiana del Novecento” di Mario Barenghi

Prof. Mario Barenghi, Lei è autore del libro In extremis. Il tema funebre nella narrativa italiana del Novecento edito da Carocci: che rilevanza assume, nella narrativa italiana del Novecento, il tema della morte?
In extremis. Il tema funebre nella narrativa italiana del Novecento, Mario BarenghiIl volume che ho appena pubblicato non ha l’ambizione di confrontare le immagini della morte nella letteratura di epoche diverse. Del resto, la morte è un tema molto frequentato dalla lettura di ogni tempo, e un approccio di tipo comparativo richiederebbe un lavoro enorme. Semplicemente, raccogliendo una serie di saggi su alcuni grandi autori, mi sono reso conto che tutti chiamavano in causa la tematica funebre, ma ciascuno a proprio modo, e secondo prospettive notevolmente diverse. Allora mi è parso opportuno sottolinearlo. Ad esempio, sia nel Giardino dei Finzi-Contini di Giorgio Bassani sia nella Cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda l’evocazione della morte è un aspetto centrale nell’economia dell’opera. Ma nel romanzo di Bassani – che è introdotto da una visita a una necropoli e si apre con la descrizione del cimitero di Ferrara – assistiamo a un’accurata, meticolosa elaborazione del lutto; accade perfino che l’infelice sorte di Micòl e della sua famiglia finisca per dissimulare la vera ragione per cui l’amore fra il protagonista e Micòl non è mai sbocciato. Nel romanzo di Gadda, invece, la morte in guerra del fratello aviatore è una ferita ancora viva e sanguinante, un evento letteralmente indicibile, impossibile da verbalizzare, e tuttavia presentissimo nella tormentata relazione fra Gonzalo e la madre. Un indizio interessante è l’uso dei nomi propri. Uno dei procedimenti fondamentali dell’elegia funebre è la ripetizione del nome del defunto, quasi a invocare una sua residua presenza; ebbene, nella Cognizione il nome del defunto non è dichiarato mai. In termini emotivi, è come se il fratello di Gonzalo fosse stato sepolto il giorno prima – o meglio, come se il giorno prima fosse arrivata la ferale notizia della sua morte, visto che non si sa dove sia morto.

Nel Gattopardo, invece, la morte è un traguardo verso cui ci si dirige con un misto di fatalismo, rassegnazione e desiderio. Parlo della prospettiva del protagonista, il principe di Salina, introverso, riflessivo, incline alla speculazione. Nel romanzo ci sono anche un paio di morti violente: il soldato di cui viene trovato il corpo nel giardino del palazzo e il coniglio ucciso durante la battuta di caccia (Lampedusa non amava la caccia). Ma l’immagine della morte che predomina è quella della inevitabile fine che attende ogni vivente. Non ne viene intralciato, peraltro, un solido edonismo di fondo: proprio perché dalla morte non si scappa la vita dev’essere goduta, e non a caso nel romanzo vi sono importanti scene di banchetti, dal pranzo a Palermo dopo la partenza di Tancredi alla cena a Donnafugata in cui compare per la prima volta Angelica – senza dimenticare la colazione al sacco insieme a don Ciccio Tumeo. Certo, il dato caratterizzante è che nella visione del principe di Salina la caducità non è un’esclusiva dei singoli viventi: sono condannati a finire anche le istituzioni o le classi sociali, come l’aristocrazia.

Che ruolo svolge il tema della morte nell’opera di Primo Levi?
Può sembrare paradossale, ma a ben vedere nell’opera di Primo Levi il tema della morte non è tanto importante, almeno non in sé e per sé. Ovviamente nei libri di Levi ci sono parecchi personaggi che muoiono; assolutamente memorabili sono le pagine sull’agonia di Sómogyi in Se questo è un uomo e di Hurbinek nella Tregua. E ci sono personaggi che muoiono anche nei racconti d’invenzione, a cominciare dal signor Simpson di Storie naturali, e nelle poesie. Tuttavia non mi pare che la morte in quanto tale sia un tema che stimoli la riflessione o la fantasia di Levi. Il dramma di chi muore in Lager, come Sómogyi, è che muore da prigioniero, da schiavo, ripetendo la risposta di prammatica a ogni comando o intimazione degli aguzzini (Jawohl). Il dramma di Hurbinek è che muore «libero, ma non redento»: poiché nessuno gli ha mai insegnato a parlare, quando in punto di morte si sforza di dire qualcosa nessuno riesce a capirlo. E così via. L’elefante di Annibale, protagonista di una poesia, che muore durante la spedizione in Italia, è la vittima di una prevaricazione assurda. Il problema è sempre la violenza inflitta sugli altri viventi, uomini o animali che siano, più che la dipartita di una singola persona. Questo vale perfino nel caso di Vanda Maestro, la donna a cui Primo era legato all’epoca della deportazione; quando rievoca la sua fine – in maniera assai sobria e laconica – la sua vita ha già preso una direzione diversa, e anche per questo non indugia nel compianto. Semmai, si potrebbe notare – ma di questo parlo in un volume uscito l’anno scorso, Il chimico e l’ostrica. Studi su Primo Levi (Quolibet, Macerata, 2022) – che in Levi affiora un altro tema affine a quello della morte, cioè l’esaurirsi del desiderio di vita. Mi riferisco a uno dei suoi racconti più leopardiani, Verso occidente (da Vizio di forma, 1971). Qui si immagina che l’istinto di sopravvivenza sia contenuto in una sostanza chimica che entra nella composizione del sangue. Quando tale sostanza risulta mancante, o viene meno, la scelta se continuare a vivere o no diventa (almeno per gli umani) una questione spietatamente razionale di rapporto fra costi e benefici.

In Manganelli si assiste all’«ossessiva celebrazione della morte», una sorta di «coazione rituale, apotropaica»: come si declina, per lo scrittore milanese, la tematica funebre?
Manganelli parla di morte in maniera continua, quasi ossessiva. Ma la mia impressione – chiedo scusa per la rozzezza dell’enunciato – è che in fondo si tratti di un espediente per difendersi dalle ferite dell’esistenza. Allo stesso modo, si compiace di parlare di ciò che non esiste, del nulla, dell’assenza, per difendersi dalla realtà concreta; la quarta di copertina di Antologia privata (uscita nel 1989, un anno prima della sua morte) reca l’epigrafe «Egli era stato / assai competente / in fatto di cose / che non esistono». La morte è quindi depotenziata, svuotata, quando non esplicitamente reversibile. Manganelli è un grande giocoliere della parola, e «morte», in fondo, è una parola come le altre. Usandola, manipolandola, richiamandola di continuo, Manganelli l’addomestica, la rende inoffensiva. Con questo non voglio dire che nelle sue opere prevalga sempre l’elemento comico. La comicità, intesa come divertimento, non manca; così come non mancano il grottesco, il gusto del paradosso. Ma se definiamo «comica», in senso lato, ogni rappresentazione della realtà in cui la continuità della vita prevale sulla finitezza dell’esistenza dei singoli, allora Manganelli non è affatto comico, perché manca la vita – perché la vita è ridotta alla stregua di una finzione. Nella raccolta di necrologi apparsa da poco (Il vecchio gioco di esistere, Hacca, Matelica, 2023), Manganelli scrive a proposito di Borges: «La morte mi sembra una delle figure retoriche tra le molte cui Borges fece ricorso». Appunto. La mia personale interpretazione è poi che al fondo dell’ispirazione di Manganelli ci sia un enorme, onnipervasivo senso di colpa. La cui origine, peraltro, non viene mai davvero messa a tema.

Che rilievo ha la morte nell’opera di Calvino?
Di morti nell’opera di Calvino se ne contano pochi, e sono tutti concentrati nei racconti degli anni Quaranta. Nel Sentiero dei nidi di ragno c’è una bella sfilza di decessi (tutti morti ammazzati, non a caso è un romanzo di guerra): ma nell’insieme si tratta di un’opera aperta verso il futuro. Come ha scritto Claudio Milanini, la conclusione non è un «lieto fine», bensì un «lieto procedere»: la strada che ha intrapreso Pin è ancora lunga, troverà inevitabilmente davanti a sé ancora tanti problemi e tanti ostacoli, ma sta crescendo, sta imparando. Dei tanti personaggi che muoiono (Pelle, Giacinto, il Giraffa, il Dritto, i due prigionieri fascisti, la sorella…) Pin non è sempre edotto: ad esempio, non assiste all’uccisione a freddo dei due prigionieri fascisti, non si rende conto che il Dritto verrà condannato a morte dal comando partigiano, non capisce che il Cugino – che forse è il «grande amico» che cercava – è andato dalla sorella, la Nera di Carrugio Lungo, ormai legata a doppio filo agli invasori tedeschi, con l’intento di giustiziarla. In termini archetipici, Il sentiero dei nidi di ragno è un romanzo «primaverile», come si conviene a una storia che ha un protagonista giovanissimo. Poi ci sono i racconti partigiani, come Andato al comando, Uno dei tre è ancora vivo, Campo di mine, dove sempre c’è qualcuno che muore. Ma quando Calvino smette di raccontare storie di guerra, di morti non ce ne sono quasi più.

Un’eccezione – curiosa, se vogliamo – riguarda la trilogia araldica. In tutt’e tre le opere compare il tema della morte di un padre. Mario Calvino, il padre di Italo, muore a 76 anni nel 1951. Nel Visconte dimezzato (1952) muore il padre di Medardo, il vecchio Aiolfo; nel Barone rampante (1957) muore il padre di Cosimo, il barone Arminio; nel Cavaliere inesistente (1959) il giovane Rambaldo di Rossiglione si unisce all’esercito di Carlomagno per vendicare la morte del padre, il marchese Gherardo, ucciso dall’argalif Isoarre. Ora, la cosa interessante è che in questa sequenza la rappresentazione della morte gradualmente si allontana. La morte di Aiolfo (appassionato di uccelli, e in questo affine al cacciatore Mario) è una vera e propria scena, che segna la fine di un capitolo: quindi, ha un certo rilievo narrativo. La morte di Arminio (e si noti che «Arminio» contiene tutte le lettere di «Mario», così come «Aiolfo» ne replica la sequenza vocalica) è evocata con maggiore distacco, all’interno di un capitolo in cui si parla di molte altre cose. Quanto alla morte del marchese Gherardo, è un semplice antefatto (solo in questo momento mi viene in mente che il nonno di Italo era chiamato Gio Bernardo). Insomma, man mano che la morte del padre si allontana nel tempo, il tema funebre tende a sbiadire. Non mi pare invece che vi sia traccia nell’opera di Calvino del decesso della madre Eva, mancata a 92 anni nel 1978.

In generale, Calvino è uno scrittore che si sforza di essere ottimista anche nelle circostanze più cupe, che cerca di guardare sempre verso il futuro. Per questo della morte parla poco; direi, il meno possibile.

Mario Barenghi è Professore Ordinario di Letteratura italiana contemporanea all’Università di Milano Bicocca. Tra le sue pubblicazioni, Poetici primati. Saggio su letteratura e evoluzione (Quodlibet, 2020) e Il chimico e l’ostrica. Studi su Primo Levi (Quodlibet, 2022).

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