
Detta così può sembrare una cosa positiva, ma non lo è, perché, nel tempo, questi gruppi diventano più militanti, più isterici nelle loro rivendicazioni, più integrati con istituzioni che in precedenza ambivano a svolgere un ruolo indipendente dai partiti, come i media o le università.
A volte questo fenomeno viene definito polarizzazione, ma non lo ritengo un termine del tutto appropriato. Spesso l’una e l’altra “parte” non sono poi neanche tanto dissimili tra loro dal punto di vista ideologico e i sondaggi mostrano che la maggior parte della popolazione continua ad avere opinioni più o meno moderate e differenziate su molte questioni.
Il problema risiede piuttosto nel fatto che ogni parte cerca di costringere l’altra alla sottomissione assoluta, e il sistema elettorale gliene dà la possibilità. Persino le imprese vengono risucchiate in questo vortice. Mi è capitato di leggere email inviate da aziende americane contenenti minacce di cancellazione degli account dei clienti se questi avessero votato per un candidato indesiderato. Questo, fino a qualche anno fa, sarebbe stato considerato assolutamente inaccettabile, un’intrusione nei diritti democratici, se non addirittura un reato. Quindi, stiamo assistendo a una perdita di rispetto, sia nei confronti delle persone come individui e concittadini, che nei confronti dello stesso processo democratico.
Allo stesso tempo, viviamo in un mondo in cui la concentrazione della ricchezza ha raggiunto i massimi storici, superando addirittura, secondo alcuni economisti, i livelli dell’antica Roma.
Spesso non si tiene conto del fatto che questa nuova economia ha portato a un aumento non solo del numero dei super ricchi, ma anche alla creazione di una classe di persone che io ritengo essere la nuova aristocrazia. Di solito si tratta di persone benestanti e in possesso di laurea che tendenzialmente lavorano nel settore della comunicazione o “nell’industria della conoscenza”. Ciò che più li contraddistingue, tuttavia, è che non sembrano in grado di comprendere fino in fondo che la democrazia non è stata creata per servire unicamente i loro interessi.
È stata soprattutto questa classe di persone che ha rifiutato di accettare il referendum sulla Brexit nel Regno Unito, ad esempio, e ha cercato di capovolgerne il risultato per anni. È impossibile quantificare il numero di articoli, pubblicati in quel periodo, in cui si affermava che democrazia vuol dire “qualcos’altro”, e non il governo della maggioranza.
A distanza di poco, negli Stati Uniti si è verificata una reazione simile in seguito alla sconfitta di Hillary Clinton alle elezioni presidenziali del 2016.
Invece di confrontarsi con le ovvie criticità relative al sistema dei collegi elettorali negli Stati Uniti, che può portare a risultati in contrasto con il voto popolare, una fascia della popolazione ha deciso che gli Stati Uniti erano diventati letteralmente una dittatura fascista e che bisognava opporre “resistenza a Trump” per quattro anni di fila, contestando incessantemente la legittimità delle elezioni. E ora questa parte si meraviglia e si indigna se l’altra parte, vale a dire l’elettorato repubblicano e i sostenitori di Trump, nutre dubbi sulla legittimità delle elezioni presidenziali del 2020. Per dirla con Malcolm X, si raccolgono i frutti di ciò che si è seminato. Comunque, questo atteggiamento alla fine non farà gli interessi della nuova borghesia, ma piuttosto quelli dei super ricchi. In una vera democrazia sono proprio questi ultimi che hanno molto da perdere, perché storicamente le democrazie tendono a tassare i ricchi e a negar loro privilegi particolari. La nuova aristocrazia, con il suo atteggiamento arrogante nei confronti della democrazia, sembra decisa a spianare la strada ai super ricchi nel processo di creazione di un’oligarchia dichiarata. Ed è questo ciò che più mi preoccupa.
Nel panorama politico-sociale attuale, molti autorevoli intellettuali sono arrivati ad invocare una «epistocrazia», ossia un governo dei bene informati: dove affonda le proprie radici il movimento antidemocratico?
Da un lato nei settori della società dove emergono quelle proposte e dall’altro in eventi che li hanno spinti in questa fase a sostenerle con più vigore.
Quando guardiamo ai quei settori, vediamo che quelle tesi si sviluppano di solito, come prima accennavo, in fasce sociali privilegiate che hanno in comune non solo caratteristiche esteriori (in genere, uomini bianchi e benestanti), ma anche la collocazione professionale, di frequente nel settore universitario, dell’informazione e nel mondo politico. Questo tipo di professioni ha tradizionalmente svolto la funzione che io definirei di un “gatekeeper”, una sorta di controllore, che decide, ad esempio, le informazioni da pubblicare, in cosa consistano i “fatti” o chi possa candidarsi alle elezioni.
Purtroppo, invece di riconoscere che il mondo è cambiato, e per certi versi in meglio, e che anche in un’era di social media, editori ed esperti hanno ancora un ruolo importante da svolgere, questi settori cercano di invertire il corso del tempo e tornare a un mondo angusto in cui solo una fascia ristretta di persone abbia accesso alla vita pubblica. Alcuni degli antidemocratici che cito nel mio libro, come Jason Brennan, chiudono i loro account su Twitter quando le loro idee si rivelano impopolari. Altri, come Yascha Mounk, sembrano divertirsi a denigrare nei loro account le persone che non sono d’accordo con loro definendoli dei “sigg. nessuno”.
Questi hanno la tendenza a ritenere la “tecnologia” responsabile di qualsiasi cosa, compresi i voti a favore di Trump e della Brexit, perché l’avvento dei social media segna il momento in cui, secondo loro, la loro vita è cambiata bruscamente in peggio. E vorrebbero ripristinare quello stato di cose in cui il mondo era diviso tra persone che erano “qualcuno” e “i sigg. nessuno”.
Tuttavia, a parte questo, gli antidemocratici hanno ben poco in comune. Vi sono rappresentate tutte le tendenze politico-ideologiche: alcuni di loro (in prevalenza americani) sono libertari che prendono ispirazione da Adam Smith o Gustave Le Bon; alcuni di loro (in prevalenza europei) sono socialisti convinti che si ispirano a Marx; altri tradizionalisti alla Schumpeter; altri ancora, come Daniel A. Bell, sono stati conquistati dall’ideale cinese della meritocrazia.
In realtà si tratta di un’area singolarmente senza radici dal punto di vista intellettuale e penso di essere la prima persona che prova realmente ad analizzare questi soggetti in quanto gruppo a sé.
Essi condividono la tendenza a considerare la democrazia come un esercizio tecnocratico, che trova la soluzione “migliore” servendosi di formule magiche. Spesso non arrivano a capire che la politica è un terreno dinamico e che, mentre può effettivamente esistere una verità oggettiva, è difficile per gli esseri umani pretenderla fino in fondo. Anche il metodo della “grande pianificazione” non è così compatibile con il cervello umano. Secondo gli scienziati cognitivi, gli esseri umani non definiscono grandi piani per poi eseguirli alla perfezione, bensì tendono a modificarli in continuazione. Nella realizzazione concreta di un’idea si impara costantemente dai propri errori. Quindi il processo decisionale politico è un qualcosa che si deve in parte apprendere cominciando da una parte per adattarsi via via alle circostanze.
Con quali argomentazioni si intende sostenere l’insostenibilità e l’inadeguatezza della partecipazione democratica?
In primo luogo, bisogna assumere il fatto che anche in una democrazia fortemente partecipativa non tutti vogliano essere direttamente coinvolti in qualsiasi questione. In una democrazia il “popolo” inteso come collettività è come l’amministratore delegato di un’azienda. Fintanto che le persone a questi sottoposte fanno bene il loro lavoro, non è necessario prestar loro molta attenzione. Tuttavia, il “capo” può sempre istruire un’indagine se ha l’impressione che qualcosa non va e ha l’autorità di cambiar registro o punire le irregolarità.
È così che funzionava la democrazia nell’antichità: il popolo dava istruzioni ai funzionari e li teneva sotto stretto controllo per assicurarsi che le eseguissero correttamente e senza farsi corrompere. Ma non è che stesse loro alle calcagna di continuo.
Quando si invoca la democrazia partecipativa, si può dare talvolta l’impressione che con questo si intenda il continuo coinvolgimento di ogni singolo individuo in ogni singola decisione e per qualsiasi dettaglio. Ma questo sarebbe poco pratico e probabilmente molto noioso.
Sebbene la democrazia partecipativa, come indica la definizione, implichi un alto grado di partecipazione, la funzione chiave del “popolo” nel suo insieme è probabilmente quella di avere un ruolo di supervisione efficace e decisionale di ultima istanza. Questo è anche, in fin dei conti, tutto ciò che fanno i nostri governi eletti: il ministro dell’Istruzione non gestisce personalmente tutti gli istituti scolastici del Paese, ad esempio, né il ministro della Salute va in sala operatoria. Ma essi hanno la responsabilità di garantire che nei dicasteri di loro competenza si realizzi la politica di governo e si riducano al minimo gli abusi.
C’è poi un’altra questione che riguarda l’attenzione rivolta ai problemi che stanno particolarmente a cuore alle persone. Secondo innumerevoli sondaggi l’urgenza più sentita è ciò che io definirei una riforma economica di massimo livello: l’abolizione dei contratti a zero ore, per esempio, l’adozione di imposizioni fiscali per le multinazionali o di un salario minimo equo. Questi sono provvedimenti che di solito vengono decisi a livello nazionale.
Purtroppo, molti di coloro che si occupano di democrazia, si concentrano esclusivamente sull’azione “locale”, perché credono che questa sia “vicina alle persone”. E sono presi dallo sconforto quando si registrano tassi di partecipazione bassi o indifendibili.
Ma quando un problema riguarda da vicino la vita delle persone, come nel caso di problemi economici, problemi di salute, accuse di corruzione, e così via, allora sì che esse si pronunciano.
E, se si guarda ai partiti o ai movimenti politici che praticano la democrazia interna, come abbiamo visto, si sono pronunciate in massa su temi quali gli accordi di coalizione del M5S o nel voto di Podemos sulla leadership di Pablo Iglesias in seguito al suo acquisto di un immobile per alcuni troppo caro.
Un terzo e ultimo aspetto da prendere in considerazione sono i motivi che spingono alla partecipazione.
Penso che uno degli errori fondamentali che compiono coloro che si impegnano a incentivare la partecipazione democratica sia quello di promuovere l’idea che “la democrazia sia un fatto divertente”.
Per quanto mi riguarda mi posso spingere al punto di ritenere che la democrazia può essere un fatto “profondamente appagante” e credo che ci siano sicuramente momenti in cui può essere piuttosto entusiasmante.
Ma sicuramente non è scontato che sia divertente come, ad esempio, ascoltare musica rock o sciare.
Piuttosto che affermare che la democrazia è divertente, suggerirei di prendere atto che invece a volte non lo è, e di chiederci come, ciononostante, si possa essere motivati a praticarla.
Penso che retribuire la partecipazione dei singoli sarebbe un modo per incentivarla.
Molti, e addirittura anche gli antichi Greci che per primi istituirono questa pratica su larga scala, direbbero che si tratterebbe di una “corruzione delle persone con i loro soldi”.
Tuttavia, il metodo non dovrebbe giungere nuovo, dal momento che, anche ai giorni nostri, i governi già usano i nostri soldi per corromperci per provvedimenti di qualsiasi tipo. Ad esempio, molti governi concedono sussidi alle persone per avere figli o acquistare auto elettriche. Già esistono i modi più svariati di condizionare il comportamento delle persone con incentivi in denaro.
Nel mio libro approfondisco questo aspetto specifico, perché, anche se importante, viene spesso trascurato.
Quali soluzioni propongono gli antidemocratici?
Come Lei accennava prima, l’epistocrazia è una cosa precisa: è l’idea che solo “i ben informati” dovrebbero far parte di un governo, che talvolta si può spingere fino a far sostenere che le persone dovrebbero sottoporsi a un test per accedere al diritto di voto, proprio come la popolazione nera nel sud degli Stati Uniti prima che si affermasse il Movimento per i Diritti civili.
Altri sostengono che la “società civile” dovrebbe essere maggiormente coinvolta nel processo decisionale. Penso che questo sia, per certi versi, un argomento più insidioso di quello a favore dell’epistocrazia, la quale giustamente provoca di solito indignazione.
Quando si pensa alla “società civile” o alle Ong, vengono in mente spesso organizzazioni filantropiche di reputazione comprovata e di lungo corso come la Croce Rossa. Ma oggi le Ong sono già spesso fortemente coinvolte nel processo decisionale politico. Alcune di queste Ong sono organizzazioni che fanno capo al mondo imprenditoriale, come la Tavola rotonda europea degli Industriali, che è stata una forza trainante in sostegno all’Unione europea così come ora la conosciamo. Altre possono sembrare di carattere più benevolo, ma tendono a far capo allo stesso settore economicamente abbiente. Molti individui come Bill Gates e Pierre Omidyar finanziano le proprie organizzazioni di “società civile”, spesso con centinaia di milioni di dollari. Si tratta di organizzazioni professionali molto diverse dalle associazioni di base che molte persone si immaginano quando sentono parlare di “società civile”.
Queste organizzazioni credono di “fare del bene”, ma si riservano il diritto di determinare cosa sia “il bene” a loro giudizio, il che a volte può essere molto politicamente di parte.
Questo coinvolgimento della “società civile” nella politica crea un’enorme zona grigia. Nessuno sa di quanto sostegno democratico godano ognuna di queste organizzazioni o le loro politiche. Queste, però, mirano a esercitare pressioni smodate sui candidati politici, e spesso sono poco più che il tentativo di alcuni individui, che già godono di privilegi, di acquisire più potere di condizionamento di quello che spetta loro di diritto.
Infine, tra le proposte degli antidemocratici c’è il sorteggio, di cui credo di essere l’avversaria più nota. Sorteggio significa semplicemente selezione casuale. Quel che propongono i suoi sostenitori è la selezione di un numero esiguo di persone, di solito tra cento e cinquecento, che prendano decisioni per conto dell’intera società o rivolgano raccomandazioni al governo. Questo insieme di persone è spesso chiamato assemblea o giuria di cittadini. I sostenitori del sorteggio spesso affermano che questo è il modo in cui funzionava il governo nell’antica Atene, ma non è proprio così. Personalmente non sono a conoscenza di esempi di società nella storia che si affidano a un numero ristretto di persone scelte a caso che prendono decisioni per conto di tutta la collettività. E ci sono buone ragioni perché questo non sia avvenuto.
Sulla base della mia personale esperienza di candidata in una competizione elettorale, mi creda, cinquecento persone rappresentano in termini numerici una parte più che esigua di popolazione, anche in un Paese di piccole dimensioni come l’Irlanda. Posso pure suonare a cinquecento campanelli in un giorno, però, per poter anche solo scalfire l’attenzione pubblica, lo devo fare ogni giorno per settimane intere. Solo se svolgi una professione che ti costringe a intensificare al massimo le tue interazioni con la gente, ti rendi veramente conto della quantità di persone da raggiungere.
Quindi, contrariamente a quanto affermano, non è vero che i sostenitori del sorteggio “coinvolgono le persone” in politica. Anzi, nel caso specifico di quelli che vogliono che le assemblee dei cittadini sostituiscano le elezioni, priverebbero del diritto di voto il 99,99% della popolazione. È difficile dire che vi sia qualcosa di più antidemocratico.
In che modo è possibile rendere la democrazia più partecipativa e inclusiva di quanto non lo sia stata sinora?
Quando le idee democratiche tornarono all’ordine del giorno durante l’Illuminismo, le dimensioni degli Stati erano già considerevoli, sia per estensione che per popolazione. Non solo all’epoca non c’erano né internet né cellulari, ma neanche automobili o addirittura penne a sfera. Inoltre, i livelli di alfabetizzazione erano molto inferiori a quelli odierni. Pertanto, uno dei maggiori limiti all’evoluzione della democrazia moderna era quello della comunicazione, e pensatori come Rousseau o Robert Michels talvolta vi accennavano espressamente nelle loro opere.
Ora ci troviamo nella singolare condizione in cui i limiti che ai filosofi del passato sembravano essere eterni, sono scomparsi. Ora disponiamo di informazioni in abbondanza e a basso costo, metodi semplici, ma solidi, di comunicazione peer-to-peer o di rete paritaria e meccanismi che possono rapidamente tabulare i risultati.
Oltre che per il voto online, nel caso di Paesi come l’Estonia, questi strumenti sono stati utilizzati in molte parti del mondo per agevolare il bilancio partecipativo, cioè il processo per cui i cittadini decidono gli stanziamenti nel bilancio della loro regione. In questo modo, non solo le persone apprendono molto sulle politiche di bilancio, perché questi strumenti sono di un uso estremamente facile, ma possono anche aiutare a far partecipare persone diversamente abili, ad esempio con scarsa mobilità, e persone che parlano la lingua locale in maniera meno fluente, più pienamente di quanto altrimenti sarebbero state in grado di fare.
Quale futuro per la democrazia?
Nel breve periodo sono preoccupata, ma sono ottimista per il futuro. Tutto mi sembra provare il fatto che se nelle democrazie occidentali la gente fosse davvero al potere promuoverebbe riforme economiche che non sarebbero né ultra-socialiste né ultra-capitaliste, ma piuttosto qualcosa che ricorda quel che la maggior parte dei Paesi occidentali ha sperimentato negli anni ’60. In altre parole, farebbero politiche a beneficio della classe media. Ma in un’epoca in cui l’eredità è diventata un fattore rilevante nel reddito familiare e la disuguaglianza di reddito è piuttosto elevata, penso che misure come queste vengano osteggiate da alcuni settori della società.
Ci troviamo in uno stato intermedio molto difficile in cui ci sono gli strumenti per progredire verso una democrazia più partecipativa, ma anche un’enorme resistenza a usarli. Credo che questo sia il motivo per cui è tornata a essere così popolare la frase di Gramsci: “Il vecchio muore e il nuovo non può nascere”. Sembra davvero descrivere lo stato attuale.
Quel che si vede è comunque l’emergere di tre assi: il primo è il partito o il movimento politico che vincola i suoi rappresentanti alle richieste dei suoi aderenti, come nel caso del M5S e in certa misura di Podemos e dei Pirati. Il secondo è il bilancio partecipativo, di solito messo in pratica in grandi città come Porto Alegre in Brasile, Parigi, New York o Reykjavik in Islanda. Il terzo è il referendum o consultazione ricorrente dei cittadini, in uso in Svizzera e, in certa misura, in California, Taiwan e Irlanda.
Se un domani i governi soddisfacessero appieno i propri cittadini, sono sicura che vedremmo ridursi l’interesse per questi temi. Persino gli antichi Ateniesi, che sono generalmente considerati i campioni di tutti i tempi della partecipazione, non è che si precipitassero alle loro riunioni sempre con lo stesso entusiasmo.
Ma fintanto la gente ha la sensazione di subire un trattamento ingiusto, continuerà a far pressione per costruire e far uso di questi meccanismi.
Tuttavia temo che questi sforzi possano essere sopraffatti dalla battaglia in corso tra destra e sinistra.
L’avvento di Internet ha scatenato nella società molta energia politica e c’è bisogno di creare canali costruttivi e carichi di significato per quell’energia, altrimenti ne verremo consumati.
Roslyn Fuller è una voce di spicco del movimento per la democrazia diretta e digitale e l’autore di Beasts and Gods: How Democracy Changed Its Meaning and Lost Its Purpose and In Defense of Democracy (finalista ai Next Generation Indie Book Awards). È stata membro del Consiglio consultivo dell’Assemblea dei cittadini dell’Irlanda del Nord per l’assistenza sociale ed è attualmente amministratore delegato del Solonian Democracy Institute con sede a Dublino.