
“Imperi del profitto” parte da qui, provando a raccontare come la relazione tra Stato e capitale si è sviluppata nell’industria petrolifera internazionale. Sin dalle origini il business petrolifero si è caratterizzato per il vorticoso alternarsi di fasi di espansione sostenuta e crisi squassanti. Nei periodi di vacche grasse, quando la domanda è sostenuta e i prezzi salgono vorticosamente, gli operatori spingono al massimo la produzione dei pozzi esistenti, mentre nuove fonti di approvvigionamento e nuovi investitori entrano sul mercato. Inevitabilmente sopravviene una situazione di sovrapproduzione, i prezzi crollano, imprese falliscono, la produzione a un certo punto cala e piano piano la “distruzione creatrice” della crisi ricrea le condizioni per un nuovo boom. A ben vedere, il funzionamento dell’economia capitalista ridotto al suo essenziale. La precoce tendenza dell’industria verso l’oligopolio e il monopolio si può far risalire al tentativo di dar vita a forme di governance in grado di moderare la volatilità del mercato. Dalla stessa esigenza scaturì il coinvolgimento dei poteri pubblici nel business petrolifero. Per le grandi compagnie “saltare sul carro di un’organizzazione territorialista”, per utilizzare un’espressione di Giovanni Arrighi, significava garantirsi contro la volatilità dei mercati e della politica. La storia che raccontiamo è quindi quella dell’evoluzione del connubio tra governi e grandi compagnie multinazionali, in cui le seconde hanno tratto vantaggio dall’inserimento nel sistema imperiale della potenza egemone e i primi hanno consolidato il loro potere grazie ai circuiti commerciali privati. Si è trattato però di un connubio asimmetrico, in cui la postulata identità tra interesse nazionale e interesse privato si è tradotta in pratica in un supporto incondizionato da parte dello Stato alle aziende.
Il punto di partenza del libro è il 1914, quando il governo britannico decise di acquisire una partecipazione di maggioranza nella proprietà della Anglo Persian Oil Company, una compagnia che deteneva i permessi di sfruttamento petrolifero su una pozione vastissima dell’odierno Iran. L’intento del massimo fautore dell’iniziativa, il Primo Lord dell’Ammiragliato Winston Churchill, era di assicurare al governo di Sua Maestà il controllo su una fonte di approvvigionamento di quello che stava diventando il carburante principale per la Royal Navy. La necessità di mettere in sicurezza l’approvvigionamento energetico della flotta impegnata in una corsa agli armamenti sempre più serrata con la Germania imperiale vinse le resistenze dei difensori del laisser faire. Peraltro, l’iniziativa di Churchill non rappresentava affatto il trionfo del pubblico sul privato. Il management della Anglo-Persian accolse le proposte del governo come un’ancora di salvezza: l’ingresso del capitale pubblico salvava l’azienda dal fallimento. La compagnia era infatti a corto di sbocchi per il suo greggio e si trovava in gravi difficoltà finanziarie. Il fatto di stringere una relazione stabile con un cliente ricco e dai bisogni insaziabili, garantì un prospero futuro all’azienda che si avviò a diventare uno degli attori principali sulla scena petrolifera mondiale (diverrà poi la BP). Vi è da aggiungere che, nonostante la presenza nel board della compagnia di due funzionari dello Stato, l’azienda ha agito praticamente sempre secondo la logica di una qualsiasi altra azienda privata.
La Prima guerra mondiale segnò una svolta fondamentale nei rapporti tra pubblico e privato. Le esigenze della guerra totale portarono all’accantonamento dei tabù liberali e alla creazione di un sistema di governo in cui il capitale, il lavoro e lo Stato cooperavano per coordinare lo sforzo bellico in campo economico e sociale. Sebbene nell’immediato dopoguerra tale sistema venisse rapidamente smantellato per tornare alla “normalità” liberale, l’esperienza degli anni del conflitto rimase un precedente indelebile per impostare su nuove basi il rapporto tra Stato e mercato.
Nel settore petrolifero gli anni Venti furono un periodo di grande fermento. Il dato predominante fu l’accentuarsi della concorrenza a livello globale tra le maggiori aziende. Nell’immediato dopoguerra francesi e inglesi si erano accordati per ritagliarsi aree esclusive di sfruttamento petrolifero in Medio Oriente sulle spoglie dell’Impero ottomano. Sebbene nella regione non fossero stati ancora trovati giacimenti di rilievo, era opinione generale che ne esistessero di ricchissimi in attesa di essere scoperti, soprattutto nei territori del nascente Iraq, che appariva come la nuova frontiera della produzione petrolifera. L’accordo franco-britannico escludeva gli Stati Uniti, il maggior centro mondiale di produzione e consumo. Le maggiori aziende statunitensi, in primis l’antenata dell’odierna Exxon, la Standard Oil of New Jersey, non intendevano accettare l’esclusione da promettenti aree di produzione. Le aziende americane, opposte a quelle europee che agivano in piena sintonia coi rispettivi governi, pretesero un analogo sostegno pubblico, agitando lo spettro, assolutamente infondato, di un imminente esaurimento delle riserve interne statunitensi e quindi della dipendenza energetica del Paese dagli imperialisti europei. Dall’interno dell’amministrazione funzionari e politici con legami con l’industria, spesso intessuti negli anni del conflitto, sostenevano queste richieste nel nome della tutela dell’interesse nazionale e della difesa del principio della “Porta aperta”, cioè della non discriminazione commerciale in campo internazionale, uno dei pilastri della politica estera statunitense. Si avviarono quindi dei negoziati sul petrolio mesopotamico gestiti direttamente delle aziende, con i governi che dall’esterno ne seguivano e sostenevano gli sforzi, uno schema destinato a governare le questioni petrolifere internazionali nei successivi cinquanta anni. Alla conclusione dei negoziati, nel 1928, si costituì un consorzio franco-anglo-statunitense, la Iraq Petroleum Company, che in pratica sanciva l’esclusiva di un pugno di multinazionali sul petrolio mediorientale. Come commentò uno dei partecipanti: “La ‘porta aperta’ si chiuse ermeticamente e nessuno ne parlò più”.
Quali furono le principali vicende dell’industria petrolifera tra Grande Crisi e Seconda Guerra mondiale?
Nel corso degli anni Venti i timori per una scarsità di petrolio che avevano dominato l’immediato dopoguerra, lasciarono il posto a una situazione di sovrabbondanza produttiva e di conseguente indebolimento dei prezzi, soprattutto dopo che la produzione russa, sospesa in seguito alla rivoluzione del 1917, ritornò sui mercati. Per porre un argine a tale situazione le maggiori compagnie si accordarono per un sistema di spartizione dei mercati e di regolamentazione della produzione di portata globale. Uno dei tasselli furono le intese mediorientali di cui sopra. L’altro fu, sempre nel 1928, l’accordo di Achnacarry, dal nome della località scozzese in cui fu definito, che in pratica istituiva un cartello internazionale – originariamente includente Jersey, Apoc e Shell, poi esteso ad altre grandi compagnie – diretto a congelare quote di produzione, di vendita e prezzi sui mercati internazionali.
La Grande Crisi sottopose a una dura prova il neonato sistema di cartellizzazione internazionale. Il crollo nel consumo di prodotti petroliferi si tradusse in un devastante ribasso dei prezzi che le intese esistenti si dimostrarono impotenti ad arrestare. Nel momento di crisi più profonda l’industria si rassegnò ad interventi pubblici altrimenti impensabili. In Texas orientale nel 1931, nel momento in cui prezzi tendevano allo zero, intervenne la Guardia nazionale per chiudere i pozzi e arginare la sovrapproduzione. In questo clima, trovarono spazio le posizioni di chi intendeva affermare un modello di partnership pubblico/privato meno squilibrata di come essa si era venuta delineando nel decennio precedente. In particolare, all’interno dell’amministrazione Roosevelt, il segretario all’Interno Harold Ickes, fu il principale fautore di una definizione dell’interesse pubblico in campo petrolifero meno subalterna al punto di vista delle compagnie private. Il clima fortemente interventista degli anni di guerra consentì a Ickes di intraprendere una serie di iniziative che, se attuate, sarebbero state dirompenti per gli assetti dell’industria: dall’idea di acquisire allo Stato la proprietà della Aramco, la joint venture statunitense che sfruttava il petrolio saudita, al progetto di trattato petrolifero anglo-americano diretto a sostituire al cartello internazionale privato un accordo intergovernativo.
Le proposte di Ickes suscitarono resistenze e opposizioni feroci all’interno dell’industria e furono alla fine accantonate. Il sistema di intese di cartello tra privati sopravvisse alla crisi e dopo la guerra si dimostrò più saldo ed efficace che mai. Per venti ani dopo il 1945 infatti si registrò il periodo di stabilità dei prezzi più profondo e lungo nella storia dell’industria. Sul mercato interno statunitense lo spettro della sovrapproduzione venne tenuto a bada dalla Texas Railroad Commission, in pratica una camera di compensazione tra gli interessi della grande e piccola industria cui venne demandato il compito di fissare i livelli di produzione, mentre a livello internazionale le intese di Achnacarry, integrate da nuovi accordi di spartizioni delle risorse mediorientali, continuarono regolare i rapporti tra le grandi compagnie.
Cosa accadde all’industria petrolifera all’indomani della Seconda Guerra mondiale?
Come la prima, anche la seconda guerra mondiale implicò grandi cambiamenti nell’industria petrolifera. Il più importante derivava dall’indebolimento della presa imperiale del Nord sul Sud del mondo. In un clima segnato dall’ascesa in alcuni Paesi produttori di movimenti nazionalisti modernizzatori non apparivano più accettabili le condizioni di subalternità imposte nella prima generazione di contratti con le compagnie. A partire dal Venezuela, all’epoca il maggior produttore al di fuori degli Stati Uniti, i Paesi produttori ottennero una nuova suddivisione della rendita petrolifera. Si affermò così tra il 1943 e i primi anni Cinquanta, il regime del 50-50 nella suddivisione dei profitti tra compagnie a governi dei Paesi produttori. Dal punto di vista delle compagnie il nuovo sistema garantiva la stabilità di rapporti contrattuali che anche così permanevano assai lucrosi. Per evitare un nuovo Messico, dove l’industria petrolifera era stata nazionalizzata nel 1938, valeva la pena pagare qualcosa. Tanto più che il governo americano, e successivamente anche quello britannico, accettarono di sobbarcarsi i costi delle concessioni fatte ai produttori sotto forma di detrazioni sulle imposte pagate dalle compagnie. Un tale trattamento fiscale di favore, che implicava perdite di milioni di dollari ogni anno per l’erario statunitense e che suscitò grande scandalo quando venne scoperto dall’opinione pubblica nei primi anni Settanta, venne giustificato in nome dell’interesse nazionale. Come esplicitamente teorizzato in un memorandum segreto presentato al National Security Council nel 1953, il mantenimento in mani anglo-americane del petrolio mediorientale e venezuelano costituiva un pilastro indispensabile della sicurezza del blocco occidentale e perciò “un obiettivo fondamentale della politica del governo degli Stati Uniti”. Ciò giustificava il sostegno pubblico alle grandi multinazionali private che esercitavano questo controllo. Era in sostanza la reiterazione dell’assioma formulato nel primo dopoguerra sull’identificazione tra interesse privato e interesse nazionale.
Da un punto di vista produttivo negli anni tra il 1946 e il 1954 la collaborazione tra amministrazioni Truman e Eisenhower e le compagnie consolidò un nuovo ordine petrolifero al centro di del quale si trovavano saldamente installate le grandi multinazionali anglo-americane, le cosiddette “sette sorelle” (o majors per gli anglofoni), legate tra loro dalla partecipazione ai consorzi di produzione nei principali Paesi produttori e da contratti di fornitura incrociati. Esse fungevano da tramite tra Paesi consumatori e Paesi esportatori ai cui governi erano legate da un rapporto ambiguo, di dominazione e dipendenza contemporaneamente.
Quale ruolo ebbe il petrolio mediorientale nello sviluppo dei vari “miracoli economici” in Europa e Asia orientale?
La disponibilità di una fonte di energia versatile e a basso costo, quale il petrolio mediorientale, fu certo una delle condizioni che resero possibile la cosiddetta “età dell’oro” in Europa e Giappone. Nel nuovo disegno di spartizione dei mercati petroliferi post 1945 queste aree erano destinate a diventare il principale mercato di sbocco del petrolio mediorientale, mentre gli Stati Uniti dovevano rimanere una riserva di caccia per l’industria nazionale. Il 10% circa degli aiuti del Piano Marshall andò a finanziare l’importazione del greggio mediorientale in Europa. Il piano Marshall finanziò una trasformazione radicale e rapidissima della struttura geografica degli approvvigionamenti petroliferi europei. Mentre nel 1946 il 70% delle importazioni petrolifere dell’Europa occidentale proveniva dall’emisfero occidentale (Usa e Venezuela) e solo il 30% dal Medio Oriente, nel 1950 il greggio mediorientale copriva già il 75% di quelle importazioni. In parallelo il petrolio si avviava a sostituire il carbone come fonte energetica primaria per le società europee.
Come è maturato e quali conseguenze ha prodotto lo shock petrolifero degli anni Settanta?
L’ordine petrolifero post 1945 entrò in crisi, a partire dai primi anni Sessanta, per una serie di regioni di ordine politico ed economico. Da un lato il procedere della decolonizzazione e il rafforzarsi di un’identità autonoma del Terzo mondo, riflessa nel settore petrolifero dalla nascita dell’Opec nel settembre 1960, indeboliva la presa delle sette sorelle sulla gestione delle riserve di regioni chiave come il Medio Oriente e ne intaccava la rendita, via via che i produttori strappavano concessioni nella suddivisone dei profitti. Dall’altro, l’ascesa di nuovi Paesi produttori e l’ingresso di nuove compagnie nel lucroso business del petrolio mediorientale ed africano al di fuori del circolo delle sette sorelle minavano le basi del cartello che stentava nel tenere sotto controllo una sempre più evidente tendenza alla sovrapproduzione e al declino nei prezzi. In una situazione precaria, l’affermazione nel 1969 in Libia – uno dei principali fornitori del mercato petrolifero europeo – di un governo di giovani militari determinato a rinegoziare i contratti in essere, rappresentò la scintilla che diede fuoco alla prateria. Ben presto anche gli altri Paesi produttori richiesero un aumento del prezzo pagato per il loro petrolio. Le compagnie inizialmente abbozzarono un tentativo di resistenza a difesa dello status quo. Le divisioni interne all’industria petrolifera, principalmente tra le sette sorelle e le altre, e le incertezze nelle posizioni dei governi consumatori resero però molto debole il tentativo delle compagnie. Tanto più che un aumento dei prezzi avrebbe risolto i problemi di profittabilità che tormentavano alcune di esse da metà anni Sessanta. Quando sembrò sufficientemente chiaro che un aumento dei prezzi non avrebbe comportato reazioni reali da parte dei consumatori, le compagnie cedettero alle pressioni dei produttori, imboccando la strada che condusse allo “shock” del quadruplicamento delle quotazioni del greggio di fine 1973.
Nel rapporto compagnie-governi, la crisi dei primi anni Settanta ha rappresentato, almeno nel breve periodo, un momento di rottura. Di fronte al declino della governance oligopolistica delle grandi multinazionali e alla collusione tra queste e i produttori nel determinare l’aumento dei prezzi – aspetto che sollevò l’indignazione nelle opinioni pubbliche dei Paesi consumatori – i tempi sembrarono maturi per un’alternativa al morente dominio delle sette sorelle. Negli Stati Uniti stessi l’operato delle compagnie venne sottoposto a una serrata critica da parte di agguerrite commissioni di inchiesta parlamentari che misero apertamente in questione l’assioma della coincidenza tra interesse nazionale e interesse privato attorno a cui si era sviluppata la politica petrolifera del Paese a partire dagli anni Venti. In Gran Bretagna vari progetti e iniziative, tra cui per esempio la creazione di una società petrolifera interamente statale, la British National Oil Corporation, miravano a innalzare il profilo dell’azione pubblica nelle questioni energetiche. Ma si trattò di un’ondata destinata presto a rifluire con la rivoluzione dall’alto innescata dai governi Thatcher e Reagan. Nella cosiddetta era “neoliberale”, le grandi compagnie, pur non tornando ad esercitare un dominio assoluto come nel passato, trovarono un ambiente favorevole in cui prosperare. Ora che non esiste più un sistema di cartello internazionale strutturato come negli anni dell’egemonia delle sette sorelle, sostituito da un mercato in cui si confrontano aziende private, Stati nazionali e compagnie petrolifere di Stato che non sono più le entità deboli dell’era coloniale e del suo immediato seguito, il sostegno dei governi risulta decisivo, forse ancora più che in passato, per assicurare la posizione delle majors sui mercati internazionali, attraverso una pluralità di mezzi che vanno dalle misure legislative, alle politiche energetiche, alle strategie geopolitiche fino ad arrivare alla guerra.