“Immigrazione. Cambiare tutto” di Stefano Allievi

Prof. Stefano Allievi, Lei è autore del libro Immigrazione. Cambiare tutto edito da Laterza: quale svolta è necessaria in tema di politiche migratorie?
Immigrazione. Cambiare tutto, Stefano AllieviNon una, ma molte. Le migrazioni sono tuttora vissute come una specie di patologia del sistema, mentre invece sono parte della sua fisiologia. Non sono un fatto straordinario, ma rappresentano un elemento di ordinarietà: in crescita quantitativa, peraltro. Una crescita che è destinata ad accelerare perché le ragioni della mobilità non diminuiscono, ma al contrario aumentano: e tanto più quanto più parliamo di paesi, società ed economie sviluppate. Il problema è che ne abbiamo una visione selettiva, limitata: per esempio, la nostra attenzione è concentrata sulle migrazioni in entrata (e solo alcune tra esse, tipicamente gli sbarchi), mentre si dimenticano quelle in uscita – che, anche in diversi paesi europei (e nel nostro più che altrove) sono oggi numericamente di molto superiori. Se avessimo uno sguardo più ‘largo’ riusciremmo meglio a cogliere le ragioni e le potenzialità delle migrazioni, sdrammatizzandone gli effetti.

Quali svolte, allora? L’approccio alle migrazioni è sempre stato emergenziale: occorre invece un approccio ‘banale’, quotidiano, come se si trattasse, che so, della sanità o dell’istruzione. Una delle questioni di cui ogni paese (e meglio ancora, in maniera congiunta e collaborativa tra paesi) deve occuparsi, analizzandone empiricamente costi e benefici, distinguendo gli aspetti congiunturali da quelli strutturali, innovando negli approcci laddove occorre farlo, studiando gli effetti delle politiche adottate, e migliorandole man mano, in una discussione pubblica che includa i fenomeni con cui è correlata, come la demografia e il mercato del lavoro. Come si vede, tutto il contrario di quanto accade oggi: in cui il dibattito è fortemente ideologizzato, molto polarizzato (più simile al tifo calcistico che alla contrapposizione politica), ridotto a slogan e semplificazioni, per lo più senza alcuna base empirica.

Occorre analizzare nel suo insieme tutta la filiera (dalle ragioni delle partenze agli effetti degli arrivi anche nel lungo periodo – seconde generazioni, processi di integrazione –, non solo la fase del trasporto ed eventuale salvataggio, e della prima accoglienza), all’interno di un contesto in cui pesano trasformazioni demografiche e lavorative che implicano un bisogno enorme di manodopera: il problema non è se l’Europa avrà bisogno di migrazioni, ma quanto e come (solo per mantenere costante la quantità di forza lavoro, da qui al 2050, occorrerebbero 80 milioni di lavoratori – quasi 3 milioni l’anno, molti di più di quanti ne arrivino oggi). Il problema dunque non sono gli arrivi (e le partenze), ma la loro modalità – che, nel caso degli arrivi, è oggi quasi sempre irregolare. E’ l’irregolarità che va aggredita, rendendosi conto che non è un destino, ma al contrario un’invenzione molto recente, frutto delle nostre scelte legislative di chiusura dei confini. Avremmo invece convenienza ad aprire (anzi, a ri-aprire) canali regolari di ingresso: che potrebbero implicare criteri di selezione e condizioni, e magari quote. Eviteremmo così buona parte degli arrivi irregolari, il traffico illecito di manodopera che arricchisce potenti mafie transnazionali, e diminuiremmo radicalmente le violenze e le morti legate a questo tipo di viaggio; con il vantaggio di sapere chi viene e in che condizioni. Altre cose da cambiare riguardano la legislazione sia europea che nazionale sull’asilo (da ripensare è la stessa distinzione tra richiedenti asilo e migranti economici, come se questi ultimi fossero i ‘cattivi’, mentre sono precisamente la realtà ordinaria delle migrazioni, in ingresso e in uscita: la legislazione attuale ‘produce’ invece richiedenti asilo, a cui poi non è in grado di rispondere), le modalità dell’accoglienza, e molto altro. Il libro cerca di offrire alcune risposte, anche con proposte puntuali.

Quali sono le cause delle migrazioni?
Molte. I fattori di spinta (push factors) si intrecciano a quelli di attrazione (pull factors), e sono legati alle diseguaglianze globali (il PIL pro capite dell’Africa sub sahariana è un decimo di quello europeo), al differenziale demografico (l’Africa aumenta la sua popolazione, l’Europa la sta diminuendo e sta invecchiando), ai tassi di urbanizzazione in crescita, al cambiamento climatico, alle distorsioni dello sviluppo e allo sfruttamento di risorse altrui (un proverbio africano ricorda che se uno prende un alveare per portarsi via il miele, le api lo seguono…). Ma, se pensiamo anche alle nostre, di emigrazioni, ci accorgiamo che ci sono anche fattori più ordinari, come la disoccupazione o la sottooccupazione, ma anche solo il desiderio di cercare un lavoro o una paga migliore, opportunità diverse, uno stile di vita più interessante, un contesto più dinamico o meno corrotto, e molto altro ancora. Nessuno di questi fattori produce però alcun automatismo, o un principio di vasi comunicanti: la gente, in maggioranza, preferisce comunque non migrare. E infatti, anche in presenza di questi fattori, i migranti sono in realtà una minoranza: su scala globale, poco più del 3% della popolazione mondiale vive in un paese diverso da quello in cui è nato. Naturalmente sono molti di più nei paesi più sviluppati, con maggiore ricchezza, e maggiore bisogno di lavoratori: in Europa, ad esempio, sono oltre l’11%.

La cooperazione internazionale ha fallito?
No, non ha fallito. Semmai non si è mai fatta veramente, o non abbastanza. Di tutti quelli che dicono “aiutiamoli a casa loro”, non uno (e non un partito politico) si è mai attivato per farlo davvero. L’Italia spende oggi solo lo 0,1% del suo PIL, molto meno che in passato (e in calo ulteriore quest’anno), per un qualcosa che chi governa dice (o fa finta di dire) che sia prioritario, e pure il miglior modo per diminuire l’immigrazione: la maggior parte dei paesi europei spende varie volte tanto. Evidentemente, quella dell’aiutiamoli a casa loro è solo una retorica politica, del tutto priva di conseguenze reali – nessuno poi si attiva per farlo davvero.

Detto questo, per quel che riguarda l’Africa, gli aiuti allo sviluppo corrispondono a 51 miliardi di dollari nel 2017, gli investimenti stranieri a 58 miliardi, e le rimesse degli emigranti africani a 66 miliardi. Tradotto: conteranno sempre di più, in futuro, gli investimenti economici – che sono tali perché chi li fa ci guadagna, e dunque costituiscono un indicatore rilevante di futuro sviluppo. Mentre le rimesse già oggi mostrano che il modo migliore di aiutarli a casa loro, in un certo senso, è farne venire qualcuno a casa nostra. Aggiungo che quelli delle rimesse sono soldi buoni: non vanno a corrompere le elite, ad acquistare armi, e non ritornano nei caveau d’occidente, ma entrano direttamente in circolo nell’economia, come investimenti o come consumi – in ogni caso fungendo da volano per lo sviluppo.

Quali sono costi e problemi dell’accoglienza?
Il primo problema è che si è fatta troppa accoglienza e poca integrazione. Non si è affatto speso troppo, per gli immigrati (dei quali si dimentica invece sistematicamente l’apporto attivo all’economia: il PIL prodotto, il contributo cospicuo alle casse dell’INPS), e nemmeno per i richiedenti asilo. Ma in molti casi si è speso male: anche per i richiedenti asilo non basta garantire vitto e alloggio, ma occorrono strumenti intensivi di conoscenza della lingua, della cultura, e poi formazione professionale e orientamento al lavoro. Dovrebbe pensarci lo stato, ma ha trovato più comodo affidarsi a privati, dimenticandosi di controllarne il lavoro, per poi criticarli per quello che fanno. In questo senso, la diminuzione della spesa per i richiedenti asilo non è affatto una buona notizia, ma al contrario la premessa di un disastro futuro: si tagliano le spese per l’integrazione, che è un vantaggio per i richiedenti asilo e per la società, e resta solo la mera accoglienza, che se mal fatta, e se non produce rapidamente integrazione, è foriera di nuovi conflitti tra autoctoni e neo-arrivati. Si dimentica, anche, che per il sistema nel suo complesso, la spesa di qualche migliaio di euro, per formare persone già adulte da inserire nel mercato del lavoro regolare (che oltre tutto con le tasse ripagano in pochi anni la spesa sostenuta), è molto vantaggiosa anche rispetto al costo di un autoctono dalla culla all’ingresso nel mondo del lavoro. Anche se l’integrazione andrebbe perseguita in sé, non solo come vantaggio, che pure produce.

In che modo mobilità e pluralità stanno cambiando il mondo?
Ci rendono di fatto più aperti alla diversità, più disponibili all’incontro (paradossalmente, il processo avviene anche tra coloro che detestano la diversità culturale, senza accorgersi che la stanno già praticando nella loro vita quotidiana). Checché se ne dica, l’ordinarietà è l’incontro, lo scontro è un’eccezione minoritaria: per evitare la quale si potrebbe peraltro fare molto (l’integrazione è di per sé la migliore prevenzione dei conflitti sociali). Forme di ibridazione e di mixité, matrimoniale (già oggi – nell’inconsapevolezza dei più di questo processo e delle sue conseguenze – in Italia un decimo circa dei matrimoni è celebrato tra persone di diversa cittadinanza), e più genericamente culturale, si diffonderanno maggiormente, coinvolgendo percentuali sempre più ampie della popolazione. Sono gli imprenditori politici e culturali (mediatici, ad esempio) della paura a produrre danni maggiori alla società, creando conflitti che non hanno alcuna intenzione di risolvere, precisamente perché ci guadagnano da una logica di conflitto: e di questi ne troviamo tra gli autoctoni anche più spesso di quanti ne troviamo tra gli immigrati. Come sempre, si sente il rumore dell’albero che cade, ma non quello della foresta che cresce.

Quale futuro per i fenomeni migratori?
Ci sarà sempre più mobilità, ma al tempo stesso essa sarà parte di un paesaggio migratorio fatto di percorsi e itinerari sempre più frastagliati, intermittenti, reversibili, non necessariamente di lungo periodo. Al contempo i costi dell’integrazione, per entrambi i soggetti (chi si sposta, e le società che ricevono chi si sposta – tenendo presente, come abbiamo visto, che ormai quasi tutti i paesi sono entrambe le cose, e hanno flussi sia in ingresso che in uscita), diminuiranno ulteriormente, in qualche modo si de-drammatizzeranno. Il rischio è tuttavia di creare due diverse figure di chi si sposta: chi dal movimento e dalla migrazione ci guadagna (coloro che riescono a realizzare il proprio progetto migratorio con successo) e chi invece ci perde, e va a creare una sorta di sottoproletariato globale, senza risorse e senza diritti. Teniamo presente, in ogni caso, che la quota di persone che vivono – anche temporaneamente – in un paese diverso da quello in cui sono nati, aumenterà, e anche abbastanza incisivamente e rapidamente. Si apre un modello di società abbastanza diverso da quello – immaginato come stanziale – del passato. Già oggi informazioni, denaro e merci viaggiano e si spostano di più, più frequentemente e più in fretta, nonché in tutte le direzioni. Sempre più accadrà anche per uomini e donne.

ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER
Non perderti le novità!
Mi iscrivo
Niente spam, promesso! Potrai comunque cancellarti in qualsiasi momento.
close-link