“Immagini cristiane e cultura antica” di Daniele Guastini

Prof. Daniele Guastini, Lei è autore del libro Immagini cristiane e cultura antica edito da Morcelliana: in quale contesto si inseriscono le origini del fenomeno della secolarizzazione?
Immagini cristiane e cultura antica, Daniele GuastiniIl tentativo di risposta a questa domanda è un punto dirimente del libro. In genere, il fenomeno della secolarizzazione lo si fa partire dalle vicende storiche seguite alle guerre di religione avvenute nel XVII secolo, in cui la Chiesa fu espropriata di beni e poteri fin lì tradizionalmente detenuti, e dunque lo si usa per spiegare aspetti e vicende concernenti la modernità.

Il libro ha cercato di far vedere come le radici di questo fenomeno tuttavia affondino già nella tarda antichità, dove il cristianesimo è stato il vettore principale di quella «democratizzazione della cultura», come l’ha chiamata lo storico Santo Mazzarino, manifestatasi — e in questo penso che il libro abbia il suo maggiore tratto di originalità — anche attraverso l’adozione delle immagini da parte di una fede che fino a quel momento aveva rispettato, condividendolo con la religione giudaica, il comandamento veterotestamentario del “non ti farai immagine”, e che invece, dal III secolo in poi e senza mai più ritrarsi, cominciò ad esprimere i propri contenuti di fede anche mediante le immagini.

In altre parole, il libro ha cercato di far vedere come quello della secolarizzazione non sia stato un fenomeno semplicemente subìto, ma anche agito, messo in atto, dal cristianesimo — sia stato cioè secolarizzazione del cristianesimo in entrambi i sensi del genitivo —, e come la sua opzione per le immagini, e per un certo tipo di immagini, ne sia una riprova.

Quali erano natura e funzioni della mimèsi poetica greca?
Il concetto di mimesis è un concetto cardine del pensiero e della cultura greca classica. Uno di quelli che meglio denota la forma di vita dell’antichità pagana. Per questo nel libro ho parlato, dedicandogli un capitolo, di “mondo della mimesis”; quello da cui la cultura cristiana ha preso le distanze.

L’aver considerato la mimesis — termine che non corrisponde in tutto e per tutto al nostro ‘imitazione’ — come principio dell’arte poetica, innanzitutto faceva sì che nella Grecia classica le opere di quell’attività, della poiesis, la poesia propriamente detta, il teatro, l’epica, la pittura, la scultura, la musica, non potessero essere concepite come “arte”, “belle arti” nel senso moderno del termine. In quest’ultime è prevalsa, e il cristianesimo ha avuto in questo la sua parte, l’idea della creatività, del genio creativo, che si sono man mano differenziati dall’attività conoscitiva, lasciata in carico, nella modernità, alla sola scienza. L’arte poetica antica, proprio in quanto concepita come mimesis, era invece considerata a tutti gli effetti una forma di conoscenza, e delle cose più alte. Di come si doveva vivere: si pensi in questo senso alle festività teatrali tragiche, evento fondamentale nella vita della polis; di ciò che era il divino: si pensi alla statuaria classica, etc.

Quando e come il classicismo assunse carattere istituzionale?
All’interno del “mondo della mimesis”, qualcosa si è inceppato già nell’antichità precristiana. Da questo punto di vista, l’epoca ellenistico-romana segna un passaggio fondamentale nella concezione dell’arte poetica e nella funzione ad essa assegnata. Le originarie prerogative conoscitive conferite alla mimèsi poetica si sono come smarrite nel nuovo, ben più vasto ed eterogeneo, mondo dell’impero, prima alessandrino e poi romano, e hanno lasciato il posto a istanze diverse, ideologiche, celebrative, del passato e del presente come aurea aetas. In questo contesto, ha visto la luce un fenomeno fino a quel momento inedito per le arti poetiche, ma poi più volte ripresentatosi nella tradizione della cultura occidentale: quello del classicismo, in cui obiettivo di poeti, pittori, scultori, anziché imitare la natura attraverso l’arte poetica, diventa soprattutto l’emulare i modelli formali attraverso i quali i grandi poeti, pittori, scultori del passato avevano imitato la natura. Viene così a realizzarsi qualcosa come una mimesis di secondo grado, la quale, continuando la tradizione formale e gli stili del periodo classico, ma trasformandoli in convenzioni rigide e inamovibili, in realtà sta corrodendo dall’interno le basi culturali e di pensiero su cui l’arte poetica in Grecia era fiorita. E per questo nel libro ho potuto parlare, a proposito dell’epoca tardo-ellenistica, di “consunzione del mondo antico”, intitolandovi un capitolo.

Quale percorso teologico e culturale condusse al superamento dei canoni stilistici?
I rigidi canoni stilistici appena richiamati diventarono in epoca imperiale talmente potenti e suggestivi da istituzionalizzarsi in un vero proprio instrumentum regni, capace, soprattutto dal momento in cui l’impero cominciò a entrare in crisi, di controbilanciare con la finzione poetica una realtà civile e condizioni di vita via via più angosciose. Nel quadro della crisi e poi dello sfacelo dell’impero pagano, arti poetiche ormai completamente “retoricizzate” sul piano letterario e monumentalizzate su quello figurativo, da mezzo di ricerca del vero, quale la mimèsi poetica era stata in passato, diventano mezzo di dissimulazione e di inganno, che veicola contenuti sempre più ideologici e fantasiosi a copertura di una realtà, viceversa, sempre più cupa. A questa potenza teologico-politica, capace di divinizzare il potere politico umano — si pensi solo al fenomeno dell’apotheosis degli imperatori e a tutto l’apparato teologico-poetico-politico che questa istituzione metteva in gioco —, il cristianesimo, fede, viceversa, in un Dio fattosi uomo, non poteva non opporsi con tutte le sue forze, considerandolo idolatrico.

Di qui la potentissima carica dissacratoria e profanatrice che la cultura classicistica ellenistico-romana ascriveva al cristianesimo, rigettandolo per questo come un corpo estraneo. E dal suo punto di vista aveva ragione: la tradizione, i canoni stilistici del passato, basati su un’idea di bellezza come perfezione formale, proporzione, pregio dei materiali, cura e attenzione per i dettagli, sebbene diventati ormai spesso mero preziosismo e pomposità, subiscono, infatti, ad opera del cristianesimo una vera e propria metanoia. E questo perché una fede che, al pari di quella giudaica, aveva fino a un certo momento rifiutato per ragioni anti-idolatriche le arti poetiche — in particolare quelle figurative, capaci di glorificare l’umano con un’efficacia senza pari — ad un certo punto si accorge, più o meno consapevolmente, di un fatto. Grazie a quella che io nel libro, prendendo a prestito da Jean Daniélou una famosa espressione, chiamo “vittoria postuma” di Paolo, e che ha a che vedere con il prevalere dei valori di umiltà, debolezza, abbassamento, kenosis, insiti nella teologia dell’apostolo, tale fede si accorge che il dare vita a immagini che definirei “senza cura”, umili, povere, come quelle tratteggiate nelle catacombe cristiane dei secoli III e IV, e contrapporle alle immagini sempre più pomposamente curate richieste dal mondo pagano, può rivelarsi anche più anti-idolatrico del tradizionale atteggiamento aniconico mantenuto fino a quel momento e, ad un tempo, ben adeguato ai contenuti di una religione che crede nell’essersi fatto uomo, e dunque visibile, di Dio.

È da queste istanze profonde che, direi, è nata, come il libro cerca di dimostrare, l’iconografia cristiana e il suo carattere “figurale”, nel senso proprio che questo termine — come ci ha fatto comprendere, meglio di chiunque altro, Eric Auerbach — è venuto ad assumere nella cultura cristiana.

In che modo l’occidente cristiano divenne, a tutti gli effetti, una civiltà delle immagini?
Dicevo prima che il cristianesimo è divenuta “dal III secolo in poi e senza mai più ritrarsi” una civiltà delle immagini. Lo ha fatto nel modo “secolarizzante” che ha contraddistinto tutte le entità sociali, politiche, culturali plasmate da quella fede. Una fede nel cui orizzonte culturale, per tutto il Medioevo, si è anteposta la religione all’arte. Si è anteposto il valore di verità della religione, di una religione rivelata, ai valori che in passato erano stati riconosciuti all’arte poetica, ormai di molto alleggerita dal peso della verità di cui l’aveva caricata il pensiero classico e concepita ormai tutt’al più come ausilio per la fede, ma per questo anche già in modo autonomo e separato dalla religione. Processi, particolarmente visibili nel campo delle arti figurative, che hanno continuato a fare il loro corso fino quasi a rovesciarsi rispetto agli intenti originari e, a partire dal Rinascimento, ad allontanare definitivamente l’arte, ma stavolta in un ruolo preminente — si pensi appunto alla straordinaria fioritura della pittura e della scultura rinascimentali, già a tutti gli effetti “civiltà delle immagini” — dalla religione. Ma allontanandosene come? Lasciando le proprie tracce sul percorso. Nella sua famosa diagnosi sulla modernità, Carl Schmitt ha parlato dei moderni concetti dello Stato come di «concetti teologici secolarizzati». Ebbene, direi che allo stesso modo, se non a fortiori, si possa parlare anche dei moderni concetti dell’estetica — ‘arte’, ‘sentimento’ ‘disinteresse’, ‘genio creativo’ — come di concetti teologici secolarizzati.

Quale evoluzione caratterizzò la teologia dell’immagine e l’iconografia cristiana dei primi secoli?
Di questa questione mi sono occupato nel quinto e ultimo capitolo del libro, parlando della “svolta” bizantina. Ma intendendola, però, non alla maniera in cui è stata interpretata dalla grande tradizione bizantinistica moderna. Grandi studiosi del passato, come André Grabar o Ernst Kitzinger, hanno pensato che il passaggio dalle sommarie e dimesse effigi dipinte, spesso poco più che graffite, nelle catacombe e nelle domus ecclesiae del III e IV secolo allo splendore delle icone e dei mosaici delle chiese bizantine successive, dipendesse, di fatto, da un ritorno della cultura figurativa cristiana bizantina alle fonti greche originarie. In altre parole, da una “ellenizzazione del cristianesimo”, valutata dalla cultura otto-novecentesca quando come una felice integrazione, quando come un tradimento delle istanze più peculiari della religione cristiana.

Il libro sceglie invece di percorrere un’altra strada per spiegare questa svolta. Una strada tutta interna alle dinamiche storiche della religione cristiana, che, pressata da eresie anti-trinitarie come quella ariana — questa sicuramente molto più in sintonia con la teologia razionale greca e con la logica dell’immagine da essa scaturita di quanto non lo fosse il mistero cristiano del Dio uno e trino —, ha dovuto adeguarsi anche in campo iconologico e correggere in qualche misura la strada univoca dell’humilitas, presa a motivo anche dall’iconografia dei primi secoli. E l’ha fatto puntando a una spiritualizzazione dell’immagine che, per ribadire il credo in un Dio trinitario, ha cercato di raffigurare la divinità del Figlio e la consustanzialità tra la carne e lo spirito, accentuando, rispetto al passato delle catacombe, ieraticità e distanza della rappresentazione. Dando così vita a una tradizione di immagini teofaniche, di epifanie di gloria come quelle del Christus triumphans, che, tuttavia — e qui sta tutta la sua originalità — non ha per questo rinunciato ai valori e al tratto dell’humilitas, differenziandosi, dunque, ancora in gran parte dalle immagini imperiali.

Daniele Guastini insegna Estetica nel Dipartimento di Filosofia dell’Università “La Sapienza” di Roma. I suoi temi di ricerca riguardano la filosofia e la poetica antiche. Ha pubblicato in particolare su Aristotele, Platone, la tragedia, sulle dottrine cristiane antiche, con particolare riferimento alla nascita della tradizione iconografica cristiana, e sulla storia dell’estetica fino alla prima modernità. Socio emerito della Fondazione Lorenzo Valla, tra i suoi volumi compaiono un’edizione commentata della Poetica di Aristotele (2010), Philia e amicizia. Il concetto classico di philia e le sue trasformazioni (2008), Prima dell’estetica. Poetica e filosofia nell’antichità (2003).

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