
È un problema classico, dunque, che chiama in causa la decifrazione del senso della legge (di qualsiasi “legge”): di proposizioni, cioè, che per definizione si vogliono univoche e, dunque, chiaramente precettive, e che, tuttavia, finiscono presto per apparire dubbie o quanto meno aperte a letture diverse. Tradizionalmente, l’esperienza della codificazione (specialmente tra Ottocento e Novecento) ha cercato di ovviare a questo problema facendo ricorso, quando possibile, a una particolare tecnica, quella delle cc.dd. “clausole generali”, di nozioni, cioè, programmaticamente flessibili.
Un esempio notissimo è quello dell’art. 2043 del nostro vigente Codice Civile, che prevede che alla commissione dolosa o colposa di un “danno ingiusto” debba corrispondere un risarcimento a colui che ne ha patito le conseguenze: pur trattandosi di una formulazione linguistica che risale al 1942, l’evoluzione interpretativa ha completamente cambiato l’identificazione dei pregiudizi che si possono classificare in quella definizione, e ciò proprio in considerazione dei mutamenti della cornice socio-economica di riferimento. Dalla stessa “disposizione” si sono tratte, col tempo, “norme” diverse.
Le costituzioni scritte – e così, in Italia, anche la Costituzione repubblicana del 1948, di cui quest’anno si celebrano i 70 anni – non sfuggono a questa dinamica; anzi, per certi versi la enfatizzano (non è un caso che, in Italia, la distinzione tra “disposizione” e “norma” si debba all’opera di uno dei più grandi costituzionalisti del Novecento, Vezio Crisafulli).
Se è vero che la “legge” è fatta per stabilizzare con sufficiente certezza le regole di condotta da osservare per una generalità di casi, è anche vero che, almeno in astratto, il legislatore può intervenire facilmente e con frequenza, affrontando di petto la possibile obsolescenza o la sopravvenuta oscurità delle opzioni passate. Viceversa le “costituzioni” – soprattutto quelle “rigide” e “garantite”, come la nostra – sono fatte per durare più a lungo e per condizionare con i propri indirizzi anche l’attività dei legislatori futuri e, ancor prima, di tutta la comunità cui si rivolgono. Il fatto è che gli uni e l’altra potrebbero essere immersi in un clima culturale, sociale ed economico del tutto eccentrico rispetto a quello in cui quegli indirizzi sono stati pensati e tradotti in un testo. E questo accade anche quando quel testo sia formulato mediante l’utilizzo di espressioni generali o di principio.
Si pensi alla nozione di “diritti inviolabili” prevista dall’art. 2 della Costituzione: a che cosa si vuole riferire il Costituente? Nel 1948, certo, i redattori della Costituzione avevano un certo punto di ispirazione; allo stato dell’arte, però, sappiamo che il “catalogo” di questi diritti è oggetto di un processo di costante ampliamento e che questa trasformazione è il frutto di forze che non sono direttamente ed esclusivamente riconducibili alla pretesa autosufficienza del tenore letterale del citato art. 2. Ecco, in definitiva, il cuore della questione, che si può declinare come la sfida di un’interpretazione che, da un lato, dev’essere in grado di risolvere utilmente e in modo persuasivo gli interrogativi che vengano posti al testo scritto dalle trasformazioni della realtà che ci circonda, dall’altro, dev’essere anche capace di rinnovare la bontà e la forza orientativa delle scelte che i Costituenti hanno operato in una differente fase storica.
L’interpretazione costituzionale, da sempre, cerca un equilibrio tra queste due prospettive, che tendono a farsi maggiormente evidenti ogni qual volta si provi a misurare la longevità di una costituzione e se ne testi, per così dire, la perdurante tenuta. È un’operazione, questa, che per il giurista – e in primo luogo per giudici, avvocati e altri operatori pratici… – costituisce materia quotidiana e che per le istituzioni e per la collettività più ampia dei cittadini risponde ad un’esigenza che si pone altrettanto naturalmente e la cui consapevolezza è destinata ad acuirsi in occasione di ricorrenze significative come quelle dell’anniversario che si festeggia quest’anno.
Di quale aiuto può essere lo studio del processo di redazione della nostra carta costituzionale nell’interpretazione dei suoi precetti?
Di fronte al diritto scritto, il ricorso all’approfondimento delle ragioni puntuali e storiche di alcune “disposizioni” è sempre utile. E così è anche per le costituzioni. Certo, proprio l’esigenza di coordinare i possibili significati normativi di una formulazione linguistica determinata con le istanze di una mutata realtà sociale rendono quell’approfondimento non sempre così decisivo: ciò che di una specifica disposizione interessa, come si è precisato, non è tanto la sua ispirazione particolare, ma il senso che essa assume dinanzi alla necessità di darne applicazione e di risolvere, quindi, una specifica questione, dal punto di vista oggettivo.
Va detto anche che – con un’espressione ben nota al tradizionale dibattito scientifico tedesco – tutte le disposizioni vivono un graduale processo di Entfremdung, di “estraniazione”, per cui al passare del tempo la loro capacità di esprimere significati normativi specifici varia moltissimo, al punto da allontanarsi dalla volontà precisa che le aveva immaginate e coniate. Il punto è che questo fenomeno, per le costituzioni, è particolarmente delicato, e ciò per i motivi che si sono detti in precedenza, ossia per il fatto che le costituzioni contengono disposizioni che pretendono per definizione di porre un vincolo permanente sul futuro, dunque di opporsi, almeno tendenzialmente, al naturale processo di “estraniazione”.
Se questo è vero, allora è chiaro che, senza voler dimenticare che un tale processo è in larga parte inevitabile, il ricorso allo studio della nascita della singola costituzione è utile per comprendere quanto e se possa esservi, con riguardo alla singola disposizione, un vincolo di indisponibilità interpretativa particolarmente forte ovvero un univoco indirizzo, insuscettibile di cambiamenti sostanziali o impliciti troppo marcati. Si tratta, tuttavia, di un’attività assai sensibile, che conduce spesso ad operare dei veri e propri bilanciamenti.
Giusto per fare un esempio, si può ricordare che neppure la Corte costituzionale – che per sua fondamentale funzione svolge un ruolo di interprete del tutto privilegiato della Costituzione – è mai stata così costante e prevedibile nel richiamo ai lavori dell’Assemblea Costituente. Quando si è occupata, nel 2010 (sentenza n. 138), del tema della conformità a Costituzione della disciplina del matrimonio (come istituto regolato dal nostro Codice civile sulla base del presupposto che fosse matrimonio soltanto l’unione tra persone di sesso diverso), la Corte ha valorizzato moltissimo il dibattito costituente, interpretando l’art. 29 della Costituzione (“La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”) alla luce del fatto che era acclarato che tra il 1946 e il 1947 i Padri e le Madri Costituenti non avevano mai pensato alle coppie omosessuali. E ciò per la Corte ha costituito ragione sufficiente per sostenere che, da un lato, non era possibile sindacare la legittimità costituzionale della disciplina vigente nel Codice Civile e che, dall’altro, sarebbe stato compito del legislatore prendere atto della necessità di riconoscere e tutelare in qualche modo (ma non necessariamente mediante il richiamo all’istituto del matrimonio…) i legami tra persone dello stesso sesso. Questi legami, infatti, sempre per la Corte, andrebbero ricondotti alla tutela dei “diritti inviolabili” garantiti dall’art. 2 della Costituzione (di cui già si è detto). Come si vede, per un verso, la Corte valorizza il dato storico; per altro verso, ammette che un processo di “estraniazione” sia ben possibile, anzi, che esso sia doveroso (per l’art. 2), ma che, in presenza di una “disposizione” (l’art. 29) che sarebbe stata approvata alla luce di un certo presupposto, l’unico adeguamento interpretativo possibile sia quello rimesso alla scelta, pur auspicabile, del legislatore.
Quanto è forte nella Costituzione repubblicana la suggestione dei valori e dei principi che hanno guidato i protagonisti storici dell’esperienza costituente?
Questa domanda consente di chiarire meglio i termini della risposta al quesito precedente. Ciò perché l’importanza del ricorso allo studio dei lavori dell’Assemblea Costituente si apprezza specialmente sul piano dell’individuazione del panorama teleologico della Costituzione, ossia dei fini e delle ragioni ultime delle opzioni normative che in essa si volevano espresse, protette e riaffermate per il futuro. E poste, in definitiva, a presidio ultimo degli orizzonti della società democratica.
Da questo punto di vista, quella che alcuni principi esercitano (come il principio di eguaglianza o quello, già richiamato, di tutela dei diritti inviolabili) è più che una suggestione: è una direttiva che alimenta costantemente il motore della nostra democrazia e che pone tuttora un argine sia alle degenerazioni indotte da interventi legislativi che vi entrino in cortocircuito, sia alle possibili distonie che siano concretamente veicolate all’interno della Repubblica dall’applicazione di regole giuridiche provenienti da altri contesti.
A quest’ultimo riguardo, ad esempio, sono proprio i principi fondamentali della Costituzione a rappresentare il baluardo ultimo dinanzi all’applicazione di regole che vengano prodotte dall’Unione europea laddove esse, in concreto, si dimostrino confliggenti con il panorama teleologico sopra evocato. Ma si può dire anche qualcosa di più. I principi costituzionali sono determinanti quando orientano i bilanciamenti che sono resi necessari dall’operazione di “estraniazione” di cui si è già discusso o quando aiutano l’interprete a definire le massime proiezioni di quell’operazione ovvero il grado maggiormente adeguato di convivenza o conciliazione nell’affermazione di diritti o libertà o interessi parimenti fondamentali ma tra loro potenzialmente incompatibili.
Con ciò si vuole ricordare, in altri termini, che i principi costituzionali rappresentano il canone di riferimento dell’interpretazione costituzionale, e che, sempre in via esemplificativa, se si decide, interpretando il principio di eguaglianza dell’art. 3 della Costituzione, che non si può punire in modo più grave il colpevole di un determinato reato soltanto perché esso si trova presente sul territorio italiano in modo irregolare (v. la sentenza della Corte costituzionale n. 249/2010), non si disconosce il senso di insicurezza che le presenze clandestine possono ingenerare, ma si ribadisce semplicemente che non c’è alcuna ragionevolezza in quella discriminazione, perché il bene colpito dal reato non è di per sé pregiudicato più gravemente se il fatto è commesso dal colpevole irregolare anziché da un altro soggetto, non irregolare, che violi la stessa norma.
Andare, quindi, alla radice della formulazione delle disposizioni di principio è attività che permette di apprezzare l’humus su cui esse sono state fondate e di continuare a coltivarvi l’odierna sensibilità giuridica, in coerenza con il vincolo prescrittivo che la Costituzione ha inteso porre ed anche a fronte di problemi del tutto nuovi. Una “costituzione per principi”, a ben vedere, è anche una costituzione che accetta questa sfida di rinnovazione costante delle sue ragioni di fondo come un orizzonte aperto, suscettibile, se del caso, di sviluppi anche assai originali, in coerenza con le istanze e le innovazioni che la crescita e l’evoluzione della società democratica pongono in atto.
Come si sono articolati i lavori dell’Assemblea Costituente?
L’Assemblea Costituente – che era composta da 556 deputati, eletti contestualmente allo svolgimento del referendum istituzionale del 2 giugno 1946 (con il quale il corpo elettorale fu chiamato a scegliere tra Monarchia e Repubblica, con la vittoria di questa seconda opzione) – è stata attiva tra il 25 giugno 1946 e il 31 gennaio 1948, e ha funzionato anche quale assemblea parlamentare vera e propria, in attesa dell’operatività del nuovo assetto costituzionale cui essa stessa avrebbe dato vita.
Nei lavori costituenti si possono isolare soprattutto due fasi: una fondamentale e, per così dire, “strutturante”, di redazione di un vero e proprio progetto di costituzione, affidata ad una Commissione di 75 costituenti (a sua volta divisa in tre sottocommissioni); una successiva, altrettanto importante, di discussione complessiva del progetto, rimessa all’intera Assemblea e non meno determinante della prima.
Tutti i lavori della Commissione del 75 e del plenum dell’Assemblea risultano fedelmente testimoniati in un corpo molto ricco di resoconti stenografici – tutti consultabili, oggi, anche online, sia sul sito della Camera, sia attraverso altri motori di ricerca pensati per facilitarne lo studio – che offrono prova della profondità dei dibattiti svolti e della diversità di vedute che si sono confrontate in quella sede.
Quali ne sono stati i momenti concettualmente più significativi e quali sono i perduranti insegnamenti di quell’esperienza?
Non è facile, nella segnalata ricchezza di contenuti e di riferimenti ideali e tecnici, privilegiare alcuni aspetti sostanziali o alcuni snodi procedurali rispetto ad altri.
È senz’altro significativo, in primo luogo, che la scrittura della costituzione della neonata Repubblica sia stata il veicolo della riaffermazione del metodo parlamentare, per lungo tempo conculcato durante il ventennio fascista. Allo stesso modo, è rilevante ricordare la scelta di procedere per gradi e per successive specificazioni, stimolando con ordini del giorno o con mozioni discussioni e pronunciamenti per opzioni di fondo o per principi, da dettagliare poi in concreto nel dibattito sulla redazione dei singoli articoli. Il profilo che, tuttavia, viene spesso enfatizzato, dei lavori costituenti, è lo sforzo – trasversale a tutte le componenti politiche dell’Assemblea – di cercare una sintesi, o come tradizionalmente si afferma un “compromesso”, tra visioni e letture politico-istituzionali anche radicalmente opposte. È una “lezione” sicuramente significativa, quanto meno in una prospettiva che si potrebbe definire come “deontologica”, e ha tuttora molto da insegnare agli attori del conflitto democratico.
Occorre anche dire che la questione del compromesso costituzionale (o dei tanti compromessi trasfusi nella redazione di molte disposizioni della Costituzione) è anche al centro di uno dei “miti” più diffusi e radicati sull’Assemblea Costituente, oltre che di uno dei problemi concettuali e interpretativi di più duratura consistenza nel diritto costituzionale italiano. Per un verso, infatti, la ricerca del compromesso ha consentito la scrittura di un testo – come si è detto “per principi” – nel quale il rinato pluralismo democratico del dopoguerra avrebbe potuto riconoscersi e sul quale maggioranze politiche anche diverse possono poggiare interventi legislativi di volta in volta rispondenti alle esigenze di una specifica fase socio-economica. Si è già chiarito in precedenza che i “principi”, anche nella loro capacità di esprimere opzioni normative puntualmente contraddittorie, integrano una delle risorse più feconde della Costituzione e dei processi applicativi che ne hanno conclamato il successo pratico.
Per altro verso quel medesimo testo ha consegnato alla Repubblica una fisionomia flessibile, variabile, nella quale l’identità costituzionale si è delineata con fatica, restando ripetutamente ingabbiata in percorsi di attuazione fragili, rimessi in larga parte alla sopravvivenza di un equilibrio istituzionale instabile che le stesse forze costituenti hanno contribuito a creare e che, con la crisi delle realtà partitiche che ancora le rappresentavano, ha mostrato vistosi segnali di debolezza. È su questo terreno di coltura, del resto, che, a partire dagli anni Ottanta, è maturato il tema delle riforme costituzionali, stimolando a più riprese la ricerca – costellata tuttavia di vistosi, e anche recenti, insuccessi – di un disegno istituzionale più chiaro e più efficace, nel tentativo, cioè, fermo restando il panorama teleologico voluto dai Costituenti (i principi fondamentali e la c.d. “prima parte” della Costituzione), di immaginare una “macchina” (una nuova “seconda parte” della Costituzione) che consentisse al circuito politico-amministrativo di tradurre in modo più univoco le indicazioni della Carta.
Quali sono le ricadute odierne delle riflessioni svolte nella fase costituente (dalla tutela dei diritti inviolabili al rapporto tra ordinamento interno e diritto sovranazionale, dal governo dell’economia alla forma di governo, dalla garanzia dell’autonomia territoriale alla funzione del controllo di costituzionalità)?
La domanda implicherebbe il doversi avventurare in valutazioni che, non potendo che essere necessariamente sintetiche, rischierebbero di sembrare troppo nette. Il volume che ho avuto il piacere di curare con i colleghi Caruso e Rossi contiene contributi che possono facilitare, al riguardo, il compimento di un bilancio e che affrontano, uno per uno, i grandi temi ora richiamati, proponendo chiavi di lettura nel senso dell’apprezzamento, volta per volta, del valore ancora forte e orientante dell’eredità costituente.
Ci sono sicuramente “pagine” della Costituente la cui attenta riconsiderazione conduce, nonostante il passare del tempo, al nucleo duro del diritto costituzionale vigente, agevolandone una piena comprensione. Il fatto più interessante, però, è che i lavori costituenti oggi sono degni di particolare attenzione soprattutto nelle parti in cui rivelano l’estrema consapevolezza che l’Assemblea e i suoi protagonisti avevano circa il carattere altamente problematico di alcune scelte. Così si può dire, ad esempio, con riferimento alla bellissima discussione del c.d. “ordine del giorno Perassi”, già nell’autunno del 1946, durante la quale si optò per la forma di governo parlamentare, pur avvertendo esplicitamente il bisogno di individuare “dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di Governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo”. Ma lo stesso si può dire in ordine alle decisioni relative all’assetto dell’ordine giudiziario e, quindi, del riparto della giurisdizione tra il giudice ordinario (civile e penale) e i giudici speciali (innanzitutto quello amministrativo): un profilo, questo, che continua ad impegnare tutti gli interpreti, tra esigenza di promuovere con una certa diffusione un modello comune di tutela piena ed effettiva, ed esigenza, invece, di veicolare meglio questa tutela a seconda delle specificità delle controversie da decidere.
Poi si può apprezzare il senso di “scollamento” – in parte positivo, in parte critico, in parte del tutto negativo – che si prova tra le discussioni costituenti sui grandi principi e le elaborazioni organizzative destinate a tradurle in pratica. La forza di quei principi (la tutela dei diritti e delle libertà; l’apertura della Costituzione al diritto non nazionale; l’affermazione dell’autonomia regionale e locale…) è senz’altro perdurante, ma in certi casi ha dato luogo a trasformazioni costituzionali di natura sostanziale così forti dal non rispecchiare più l’ordito testuale delle articolazioni istituzionali e della distribuzione dei poteri, e in altri casi ancora, invece, è stata in tutto o in parte frustrata dal carattere incompleto degli istituti e delle discipline chiamati a realizzarla.
Non c’è dubbio, ad ogni modo, che l’invenzione più significativa e riuscita del legislatore costituente sia stata la previsione della Corte costituzionale: un giudice particolare, titolare del compito più difficile, limitare la possibile degenerazione dell’equilibrio costituzionale, sia facendosi arbitro dei possibili conflitti tra i poteri in cui è articolata la Repubblica, sia, soprattutto, dichiarando illegittime le leggi che il Parlamento approvi in contrasto con la disciplina costituzionale. Nella cornice di una “costituzione per principi” lo svolgimento di questo ruolo ha consentito alla Corte di farsi l’interprete privilegiato e razionale delle modalità con cui le scelte storiche del periodo costituente si sono evolute e riconfermate anche nella vita della democrazia repubblicana.