
Quale forza simbolica riveste l’immagine sin dagli albori della storia della fotografia?
La fotografia attinge fin da subito a un’altra forza: quella dell’immagine in generale – pittura, scultura – capace di elaborare con un proprio linguaggio storie e significati sostituendo o integrando l’argomentazione verbale. Naturalmente, dal dagherrotipo in poi, l’idea di impronta della realtà (la luce “impressiona” la lastra o la pellicola, lasciandovi la traccia di ciò che si trova davanti all’obbiettivo) diventerà un’ossessione per tutti i teorici. Baudelaire e Benjamin affrontano il problema del rapporto con l’arte. Brecht e Sonntag quello della parzialità della rappresentazione, Barthes e Berger la questione della memoria. Ma alla base c’è sempre l’idea di un nuovo rapporto con il reale. Quando poi i fotoreporter cominciano a raccontare il mondo attraverso i propri scatti, la fotografia diventa in tutto e per tutto la “nostra” forma di conoscenza, a cui ci affidiamo addirittura – come ha scritto Eco – per etichettare un’epoca o un avvenimento: la guerra del Pacifico è la bandiera di Iwo Jima, quella del Vietnam la bambina bruciata dal Napalm, l’11 settembre un corpo che cade da un grattacielo. Per questo un bambino può avere una forza simbolica enorme, pur nella sua individuale piccolezza. Se diventa un simbolo, può cambiare la nostra percezione della realtà, costruirne un racconto determinante.
Quale profondo legame unisce la fotografia al tempo e alla morte?
Quando fotografiamo, fissiamo un oggetto o una persona in un momento che non tornerà più. La foto è al passato. Forse per questo il legame della fotografia con la morte è sempre stato così intenso. In modo un po’ macabro, nell’Ottocento si fotografava un defunto appena trapassato accanto ai suoi cari, vivi, per lasciarne un ultimo ritratto. Ma ha ragione Barthes a dire che tutti noi, ripresi da un obbiettivo fotografico, diventiamo un po’ spectra, fantasmi. I fotoreporter, che riprendono guerre e carestie, fissano spesso la morte, in immagini scioccanti che i media fanno circolare e che hanno presa immediata sull’opinione pubblica.
Tuttavia, la fotografia fa anche l’opposto. Mantiene in vita il passato, costruisce un ricordo capace di non spegnersi. Ricordare Alan non è un modo di onorare la sua memoria e dare un senso alla sua breve esistenza? Semmai, il nemico da sconfiggere oggi – nell’era che molti definiscono post-fotografica – è l’eccesso di immagini. Tutti ne scattiamo a centinaia, le condividiamo sulla rete, in ogni momento del giorno e della notte. E allora diventa difficile distinguere le foto importanti da quelle che non lo sono. Oggi il pericolo sembra piuttosto la morte della fotografia e della sua importanza per indigestione, eccesso, insignificanza. E quindi, ogni volta che un’immagine si staglia sullo sfondo infinito di tutte le altre, vuol dire che qualcosa di straordinariamente importante sta accadendo.
Quali meccanismi virali sono alla base della comunicazione contemporanea?
Dicevo della post-fotografia: immagini dovunque, selfies, condivisioni, elaborazioni. Certo, le grandi piattaforme social giocano un ruolo cruciale nel nuovo ruolo delle immagini. Ma non bisogna sottovalutare il ruolo dei media tradizionali. La foto di Alan ha cominciato a circolare in modo virale dopo che una corrispondente dal Libano del Washington Post, Liz Sly, l’ha condivisa su Twitter. Da lì in poi l’ondata di tweet, di ricerche su Google, ma anche di articoli sui giornali di tutto il mondo, è diventata inarrestabile.
Possiamo dire che i meccanismi virali sono articolati su due dimensioni. La prima è quella quantitativa. Si parte da una piccola scintilla e si arriva a un grande incendio. La seconda però è – per così dire – qualitativa: l’immagine condivisa a un certo punto può assumere una nuova forza, diventare simbolo di qualcosa d’altro. Nel Mediterraneo dagli anni Novanta ad oggi sono morte circa trentamila persone. Ma ci voleva la foto di Alan per dare loro un simbolo capace di fare breccia nei cuori, almeno per un breve periodo.
Come può la compassione vincere la sfida dell’empatia?
Empatia: provare qualcosa insieme all’altro. Sentirsi nel corpo e nell’anima dell’altro. E’ l’empatia che ci rende umani. La compassione ci ricorda che lo siamo, ma forse non basta.
Il filosofo americano Richard Rorty ha scritto che per capire che un altro essere umano è tale anche se diverso da noi per colore della pelle, orientamento sessuale o politico, fede religiosa, bisogna ricordarsi che ha una madre pronta a soffrire per lui, come nostra madre è pronta a soffrire per noi. Ecco, se le cose si vedono sotto questo profilo è difficile regredire alla semplice compassione, che – soprattutto se a distanza e mediata dagli organi di informazione – è spesso di breve durata.
Oggi le emozioni provate davanti alla tragedia di Alan sembrano dimenticate, anzi sostituite dalla rabbia e dal risentimento verso i migranti, nuovi capri espiatori di ogni povertà e scontento nei Paesi del Nord del mondo. Anzi, persino le foto vengono contestate, accusate di essere montaggi, fake news. La compassione sembra essersi spenta. Potremmo dimenticare Alan.
Ma forse, invece, non possiamo. La foto è ancora là, nella nostra memoria. Ci sono tuttora persone che la rilanciano, la celebrano. C’è chi è stato toccato dall’empatia, e che è cambiato. Chi è così viene spesso accusato di “buonismo”, una parola paradossale che trasforma l’empatia in un difetto. Invece vale la pena di ricordare che la chiusura all’altro non fa male solo a chi è escluso, ma anche a chi esclude. Per questo non l’empatia, ma il suo contrario dovrebbe fare paura. L’empatia ci fa essere semplicemente umani, il suo rifiuto ci fa regredire a una condizione pre-umana. Se devo dire cosa penso, credo che comunque l’empatia salverà il mondo, anche se il mondo non vuole.