“Il Vaticano e Hitler. Santa Sede, Chiesa tedesca e nazismo (1922-1939)” di Alessandro Bellino

Dott. Alessandro Bellino, Lei è autore del libro Il Vaticano e Hitler. Santa Sede, Chiesa tedesca e nazismo (1922-1939) edito da Guerini e Associati: in che modo la storia dei rapporti tra Pio XI e Pio XII e Hitler continua a gettare ombre sul cattolicesimo contemporaneo?
Il Vaticano e Hitler. Santa Sede, Chiesa tedesca e nazismo (1922-1939), Alessandro BellinoIl rapporto tra la Chiesa e il nazismo è stato oggetto di numerose controversie. I silenzi che avrebbero contraddistinto l’operato di Pio XII durante la seconda guerra mondiale hanno orientato l’opinione pubblica e della comunità scientifica verso un giudizio analogo anche nei confronti del decennio precedente. Tali ombre su questo periodo storico, nonostante le numerose ricostruzioni intervenute, permangono tuttora. Basti pensare che la notizia dell’apertura delle fonti vaticane relative al pontificato di Pio XII ha suscitato alcune perplessità soprattutto presso alcune comunità ebraiche secondo cui nemmeno le carte vaticane sfateranno una storia che in parte si ritiene già scritta. Tali giudizi sono condivisi anche da una parte di storiografia secondo cui nessuna nuova acquisizione può cambiare i silenzi del papa durante la guerra.

Come accolse la Chiesa tedesca l’ascesa di Hitler?
Sin dalla sua nascita, a causa della sua natura conglomerante e composita, il nazionalsocialismo fu propugnatore in ambito religioso di posizioni contrastanti scaturite dalle varie correnti eterogenee che cercarono di dare corso a dottrine non fluide e poco chiare dal punto di vista concettuale. Di non facile interpretazione appare il rapporto tra dottrina e politica all’interno del movimento, mentre particolarmente problematica appare la riflessione sulla figura dello stesso Hitler. Senza entrare nell’analisi del vasto dibattito storiografico che ha affrontato questi temi, ricordo solo che, dall’analisi della politica religiosa del nazionalsocialismo e dei suoi rapporti con la Chiesa, emerge la complessità della strategia di governo del suo vertice. Per risolvere i conflitti religiosi, Hitler impose programmaticamente al partito un cristianesimo «positivo», adogmatico e non legato ad alcuna confessione. Tuttavia, non eliminando le correnti neopagane, conferì al movimento un’aura soteriologica e al contempo diede avvio a una religione politica che tenesse insieme le varie anime del movimento, riuscendo a non eliminarne in tal modo le potenziali spinte centrifughe. Il cattolicesimo e l’episcopato tedesco si sono posti in modo critico, sin dal suo emergere sulla scena politica, verso il nazismo, il cui fondamentale antisemitismo venne considerato uno dei tratti salienti del suo anticattolicesimo. L’eterogeneità delle diverse componenti del nazismo in ambito religioso ha determinato molte difficoltà di interpretazione anche all’interno del cattolicesimo tedesco: mentre l’ala radicale, fautrice di un contenuto propositivamente dogmatico, era ben riconoscibile e di conseguenza suscettibile di una condanna immediata, le correnti «moderate» – propugnatrici di un «cristianesimo positivo» – non erano immediatamente classificabili e dunque perseguibili per la vacuità intrinseca alla loro natura. Ai vescovi il nazismo apparve di volta in volta eresia, un mix di indifferentismo e relativismo, un orientamento soggetto alla prepotenza delle ali protestanti radicali oppure dei neopagani, un fenomeno intriso di elementi culturali incompatibili con la fede (l’antisemitismo, l’uso della violenza, il culto del sangue e della razza e via dicendo). L’episcopato, discorde al suo interno anche sulle modalità di condanna (quando e in che modo pronunciarsi), fu tuttavia unito nel percepire l’estrema pericolosità per la fede di questo movimento. Critiche all’operato dei vescovi provennero non solo dal Partito Nazista, ma anche da una frangia del cattolicesimo tedesco che sempre più andava distanziandosi dal Zentrum e ne aborriva l’incapacità di rappresentare politicamente i cattolici. Il nazismo pertanto divenne un problema di urgenza pastorale in quanto minava l’unità del popolo cattolico.

Sin dall’inizio degli anni Trenta, due orientamenti eterogenei all’interno della compagine cattolica convennero alla medesima soluzione, che previde il superamento del partito cattolico e il tentativo di una cattolicizzazione del nazionalsocialismo, considerato il vero fautore dell’identità nazionale e di una società gerarchicamente organizzata e rispettosa dei diritti dei cattolici tedeschi, ultimo baluardo all’avanzata del bolscevismo. Come propulsore del sistema e in quanto alleato della socialdemocrazia, il Zentrum venne da queste frange ritenuto uno dei principali responsabili del progresso del bolscevismo. L’irrompere di una nuova cultura teologica, ecclesiologica e storica divise ulteriormente il cattolicesimo tedesco, una parte del quale credette di avvalersi del nazionalsocialismo come strumento per la propria affermazione e diffusione. Il nuovo rapporto instaurato da una parte dei cattolici tedeschi con la modernità, con la democrazia partitica e con la gerarchia creò una spaccatura insanabile. Emblema della divisione fu la persona di Von Papen e la sua proposta politica di saldatura tra nazismo e cattolicesimo. Il suo governo e il conseguente abbandono del Zentrum determinarono la retrocessione del partito cattolico da forza chiave del sistema di Weimar a opposizione disgregata al proprio interno. Perso il potere, il Zentrum mantenne la propria linea di difensore della costituzione e della legalità, ma visse divisioni al proprio interno poiché si trovò all’opposizione dopo anni di traversie senza efficaci leader politici. Contemporaneamente si ritrovò investito da una crisi, che nel 1932-1933 minò il ruolo dei partiti e della democrazia parlamentare. La sconfitta elettorale fece «retrocedere» il cattolicesimo politico fra le fila dei nemici del nuovo Stato e il Zentrum temette l’emarginazione. Il partito perse a tal punto consensi rispetto alle forze estremiste che si presagì una guerra civile. In questo clima il Zentrum si trovò in una posizione di netto svantaggio e costretto alla passività di fronte alla ricostruzione nazionale che in quel momento veniva portata avanti da altre forze politico-sociali e da elementi anticristiani. I vescovi inizialmente videro nel Zentrum un possibile strumento di difesa dei principi cristiani, ma ben presto si accorsero che andava indebolendosi e tentarono di ricostruire l’unità dei cattolici intorno alla gerarchia ecclesiastica, onde sottrarre ai nazisti un’arma efficace. La rinascita nazionale comportò la necessità di porre fine alle divisioni partitiche. Anche i vescovi percepirono il bisogno di superare quanto poteva alimentare divisioni tra i cattolici e il Zentrum venne sempre progressivamente abbandonato al proprio destino. In questo modo, però, scomparve un partito che era stato strumento importante di difesa della Chiesa e del cattolicesimo. L’esito delle elezioni del 5 marzo 1933, che segnarono la vittoria elettorale del nazionalsocialismo, aumentò la percezione di un notevole allargamento delle distanze tra la gerarchia e il popolo cattolico che non ne aveva seguito le direttive votando per Hitler.

Di fronte all’autorità costituita, apparve chiaro ai vescovi la necessità di adattarsi al nuovo governo, mantenere una posizione attendista e sperare in una regolazione dei rapporti, rivendicando la disponibilità di modificare il proprio atteggiamento qualora fossero arrivate garanzie sufficienti. Tali garanzie furono solennemente annunciate da Hitler nel suo discorso di apertura del Reichstag pronunciato il 23 marzo e costituirono la premessa della dichiarazione con cui cinque giorni più tardi i vescovi intesero favorire la collaborazione tra i cattolici e il nuovo stato, eliminando di fatto le anteriori interdizioni verso il nazismo. Faulhaber ebbe l’impressione che a Roma, dove si era recato per il Concistoro, ci si attendesse dai vescovi tedeschi un altro tipo di politica nei confronti di Hitler. Tuttavia la Santa Sede non esercitò alcun tipo di influenza nella decisione dei vescovi tedeschi di ritirare le norme disciplinari anti-naziste. All’interno della Santa Sede le posizioni erano diversificate: alcuni cardinali vedevano il nazismo come una sorta di fascismo, con cui si poteva venire a patti, mentre Pacelli e la diplomazia pontificia si chiusero nel riserbo, nell’attesa che il governo di Hitler facesse qualche dichiarazione conciliante. Pio XI, con una frase pronunciata in Concistoro, manifestò apprezzamento per l’attività antibolscevica di Hitler, senza però modificare la sua opinione sul nazismo. In questo clima di attesa giunse dalla Germania la proposta concordataria, accolta da Roma nella speranza che un trattato vincolante a livello internazionale potesse salvaguardare i diritti dei cattolici tedeschi.

Nonostante il concordato, il cattolicesimo tedesco si trovò di fronte a tutta una serie di vessazioni e violenze. Per la Chiesa divenne prioritaria la difesa della dottrina e della morale cattoliche. Le note inviate da Pacelli al governo tedesco evidenziarono un atteggiamento di particolare intransigenza nei confronti del Reich e di sostegno all’episcopato tedesco, diviso sul modo con cui rapportarsi alla politica ecclesiastica del governo. Laddove le leggi avessero violato il diritto divino – scriveva il Segretario di Stato – la Chiesa avrebbe avuto il dovere di non rimanere in silenzio o fare qualsiasi cosa che potesse anche indirettamente incoraggiare i fedeli in errate posizioni di coscienza. La difesa degli interessi di una comunità sotto minaccia comportò anche un parziale ripiegamento della Chiesa tedesca su se stessa; in occasione delle misure antisemite messe in atto dal governo, furono ribadite privatamente condanne generiche e si attivò una vasta opera di carità. Le prime misure antisemite vennero attuate mentre la Chiesa di Pio XI era solo all’inizio di un’ evoluzione nel suo rapporto con gli ebrei. Pochi anni prima, col decreto di scioglimento della società «Amici d’Israel», erano state ribadite nette distanze tra cattolici ed ebrei, pur condannando l’antisemitismo razziale, e solo in seguito Pio XI si sarebbe dichiarato «spiritualmente semita». Nel 1933 si lasciò che gli ebrei si difendessero da soli, anche per non dare al governo un ulteriore pretesto per repressioni violente sui cattolici. Il ripiegamento su se stessa e la tutela della propria organizzazione strutturale e dottrinale furono ritenuti dalla Chiesa tedesca un modo valido per evitare il soggiogamento al potere civile. L’osservazione di quanto accadeva nel mondo protestante, profondamente lacerato e diviso di fronte al nazismo, sembrò confermare la validità di tale decisione.

Nel Suo studio Lei mette a fuoco vicende poco conosciute, come i processi per scandali finanziari e sessuali del clero, che il regime nazista usò come mezzi di pressione sulla Chiesa tedesca.
Ad aggravare la precaria condizione dei cattolici tedeschi si aggiunsero le diverse ondate di processi contro il clero per motivi finanziari. Essi scaturirono inizialmente da indagini sul banchiere Hofius, per poi estendersi a tutti gli ordini religiosi impegnati in attività commerciali e finanziarie. Le indagini e i processi furono portati avanti con brutalità e senza alcun riguardo riuscendo a comminare pene sproporzionate rispetto alla gravità dei fatti. Radio e giornali dipinsero i membri del clero come criminali e defraudatori mentre le campagne denigratorie furono funzionali a minare ulteriormente la credibilità del clero e a sottrarre i giovani tedeschi all’educazione cattolica e alle scuole confessionali. All’interno dell’episcopato tedesco si crearono notevoli divisioni; l’arcivescovo di Colonia Schulte si disse scandalizzato dai reati commessi dal clero, mentre il cardinale Bertram mise in dubbio la credibilità dei processi. Tale pluralità di posizioni ebbe eco anche all’interno della Santa Sede: la Sessione della Congregazione per gli Affari Ecclesiastici Straordinari, voluta da Pio XI per riflettere sulla questione, lasciò emergere infatti una grande diversità di opinioni. La soluzione drastica della visita apostolica agli ordini religiosi, auspicata da una parte dell’episcopato tedesco, fu rifiutata da Pio XI e Pacelli che, quotidianamente informati degli esiti dei processi, si posero a sostegno del clero, pur condannando i reati e le infrazioni commesse.

A mettere in imbarazzo la Santa Sede fu il caso dell’ex nunzio a Monaco Vassallo di Torregrossa, la cui abitazione fu perquisita in cerca di prove dei suoi trasferimenti illeciti di denaro. L’ex nunzio, convinto di godere dei privilegi di immunità di un diplomatico vaticano, imbastì una strenua difesa del proprio operato, trovando inizialmente solidarietà nei Sacri Palazzi, dove regnava lo sconforto per le violenze perpetrate dai nazisti. La credibilità di Torregrossa, tuttavia, venne progressivamente meno quando, da più fonti, emersero vari indizi circa la sua colpevolezza. Abbandonata ogni velleità di protesta, la Santa Sede avviò pratiche ufficiose per consentire il suo rientro a Roma, evitando all’ex nunzio di venire processato. Contemporaneamente ai processi per reati finanziari, il clero tedesco si trovò investito da accuse di comportamenti sessuali immorali quali abusi su minori o nefandezze perpetrate all’interno dei chiostri. In questo caso il meccanismo di vigilanza vaticano fu più solerte: a seguito di richiesta dei vescovi tedeschi vennero semplificate le complesse procedure per inquisire e punire simili reati, alcune congregazioni vennero sciolte e furono inviati alcuni visitatori apostolici per verificarne la disciplina e eventualmente portare a Roma i colpevoli. L’impatto ecclesiale delle ondate processuali si dimostrò ingente poiché contribuì a dividere il cattolicesimo tedesco: una parte di questo si ricompattò attorno alla gerarchia, conscia della pretestuosità di molte accuse; altri invece, in preda allo scandalo, si allontanarono con freddezza. L’obiettivo del governo era quello di allentare i legami tra la gerarchia, il clero e il popolo cattolico: minata la compattezza organizzativa, sarebbe stato più facile attrarre i cattolici nello spettro di influenza dello stato nazista.

Cosa emerge dall’esame dei documenti vaticani riguardo alla gestione della sfida nazista?
La sfida nazista fu assunta con una crescente consapevolezza. A prendere in carico il dossier Germania fu soprattutto il Segretario di Stato Eugenio Pacelli. Recentemente, il ritrovamento di una mole ingente di materiale documentario presso l’Archivio storico della Seconda Sezione della Segreteria di Stato ha fatto emergere il grado di informazione della S. Sede nei riguardi di quanto accadeva in Germania. A partire da queste informazioni Pacelli strutturava le udienze con il Papa portando il proprio bagaglio di conoscenze: Pio XI dunque ne correggeva o ratificava le opinioni. Non è sempre facile individuare i processi decisionali: capire cioè chi, in una determinata occasione abbia preso la decisione. In alcuni casi è provato che Pacelli avesse posizioni più intransigenti rispetto al Pontefice. Nei confronti, invece, della curia romana e in particolare della Congregazione per gli Affari Ecclesiastici Straordinari, il tandem Pio XI-Pacelli prevale sulla collegialità dei cardinali. Entrambe le sessioni sulla Germania convocate negli anni Trenta – una nel 1935 sui processi contro il clero e l’altra nel 1937 sul caso Mundelein – sono occasione per sondare il consenso curiale nei confronti della politica di intransigenza verso il nazismo portata avanti da Pacelli e sostenuta da Pio XI.

Nel libro Lei ricostruisce per la prima volta la sistematica strategia diplomatica vaticana finalizzata a contrastare l’influenza nazista nel mondo: come si articolò tale attività?
Per poter contrastare il nazismo a livello transnazionale la S. Sede si appoggiò agli episcopati locali e alle nunziature apostoliche. La Segreteria di Stato si faceva mandare costanti informazioni sugli sviluppi dottrinali del nazismo nei vari Paesi, sollecitando a vigilare sulla pericolosità di questo movimento. Il contrasto avvenne in modo graduale e diverso a seconda dei Paesi: nella Saar, territorio essenzialmente tedesco, la S. Sede dovette tener conto delle aspirazioni nazionali dei cattolici locali ma al contempo mettere in guardia dal nazismo. Tuttavia in questo contesto le sollecitazioni della S. Sede non furono recepite dall’episcopato locale che si espose a favore del ritorno della provincia al Reich. L’’antinazismo comportò per la S. Sede anche un ri-orientamento nella propria politica internazionale: in seguito allo scoppio della guerra civile spagnola e soprattutto della conseguente vicinanza con la Germania nazista si pose il concreto problema del riconoscimento o meno della Spagna franchista. A frenare l’entusiasmo dei cardinali fu la constatazione di Pacelli circa l’inopportunità di comparire “nel blocco fascista (…) tra quelli che divinizzano Hitler”. Al contrario sul finire degli anni Trenta il Segretario di Stato allacciò intense relazioni con l’Inghilterra e gli Stati Uniti, nella convinzione che bisognasse stipulare un’alleanza morale contro il nazismo.

Quale ampio dibattito storiografico ha animato la questione dei rapporti tra Santa Sede e regime nazista?
Il dibattito ha risentito soprattutto del problema dei “dilemmi e silenzi” di Pio XII. A partire dagli anni ’60 il rapporto tra Chiesa e nazismo durante gli anni Trenta è stato spesso letto alla luce di quello che si ritenne fosse avvenuto durante la guerra. Solo a partire dal 2003, con l’apertura delle fonti archivistiche vaticane relative al Pontificato di Pio XI si è potuto fare luce sull’operato della S. Sede. La discussione tra gli studiosi ha riguardato soprattutto l’analisi dottrinale maturata all’interno del Sant’Uffizio e i motivi per cui la condanna del nazismo non avrebbe raggiunto l’efficacia desiderata. Entro questa cornice le principali interpretazioni hanno postulato una contrapposizione tra un Pontefice più rigido e un Pacelli più attento alle esigenze politiche. Un altro filone, portato avanti soprattutto da Thomas Brechenmacher, ha indagato i rapporti tra Chiesa ed ebraismo durante il Pontificato di Pio XI e ha cercato di rileggere l’operato della S. Sede senza rotture tra la dimensione “politica” e quella “dottrinale”. Tale approccio interpretativo è risultato più aderente alle fonti che abbiamo a disposizione.

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