
Quindi De Luca non è certo né il primo né l’ultimo autore novecentesco ad aver avuto un contatto diretto con la Bibbia. Ma, rispetto ad altri scrittori, egli rappresenta, a mio parere, un unicum, nel senso che per lui la Bibbia non è semplicemente fonte di ispirazione, ma un testo che occupa un ruolo centrale e al quale si accosta in modo originale. Centrale perché il suo rapporto con la Bibbia non è stato, e non è, episodico bensì duraturo. Ancora oggi, dopo quasi quarant’anni, De Luca, come una specie di monaco laico, comincia le sue giornate leggendo alcuni passi biblici. Lo fa perché della «scrittura sacra» (così la definisce) vuole trattenere per sé «una caparra di parole dure, un nocciolo d’oliva da rigirare in bocca». Ma il suo è anche un approccio originale perché, pur non essendo un biblista di professione, De Luca legge la Bibbia in ebraico, una lingua che ha studiato da autodidatta proprio per poter leggere il testo nella lingua in cui è stato scritto. Legge la Bibbia ebraica perché, come dice, gli interessa visitare un’origine e lo fa leggendola – oltre che traducendola – nella sua lingua originale.
Quando avviene l’incontro con la Bibbia?
Avviene nel 1983, quando De Luca si sta preparando con un gruppo di volontari a Cuneo per andare in Tanzania a realizzare insieme a loro un progetto di approvvigionamento idrico (ci resterà poco perché colpito dalla malaria). È il momento in cui De Luca si lascia alle spalle i quindici anni di militanza politica in Lotta Continua. Un periodo che lui definisce di “deserto” esistenziale, politico e letterario. E si sa che in tanti racconti biblici il deserto compare come il luogo degli incontri decisivi, delle svolte inattese, il luogo in cui ci si addestra alla libertà e alla responsabilità.
In una intervista De Luca dice: «mi sono trovato quel libro a portata di mano in un posto dove non c’era altro e ho cominciato a sfogliarlo». Parole che sembrano sottolineare il carattere casuale della scoperta. Ma poi aggiunge: «Ero stufo di letteratura, ero stufo di scritture e scrittori che mi raccontavano delle storie anche belle; quando ho cominciato a sfogliare la Bibbia mi è sembrata il contrario della letteratura». Qui c’è la sintesi di un incontro meno fortuito di quanto sembri. Evidentemente la Bibbia si è offerta a De Luca in un momento in cui egli era predisposto ad ascoltarla senza finalità utilitaristiche. Mi piace pensare che non sia stato lui a incontrare la Bibbia, ma la Bibbia a incontrare lui. Ne è nata una storia che continua tuttora.
In che modo lo scrittore napoletano si è accostato al testo biblico?
Direi in modo triplice: da lettore, da traduttore, da commentatore. Sono tre aspetti strettamente intrecciati l’uno all’altro.
Anzitutto da lettore. De Luca è cresciuto in mezzo ai libri. Come racconta in In alto a sinistra, ha dormito per tanti anni in una stanza foderata dei libri di suo padre. È quello che si definisce un lettore onnivoro. Anzi, lui si considera più lettore che scrittore, convinto com’è che i libri sono «l’unico posto dove l’esperienza che uno fa nel mondo trova le parole d’accompagnamento». Penso che effettivamente De Luca abbia trovato nella Bibbia queste “parole di accompagnamento”, non nel senso utilitaristico del termine, come se la Bibbia fosse una sorta di manuale del ben vivere, ma in senso esistenziale e antropologico. La lettura della Bibbia ha a che fare per De Luca con la dimensione del gratuito, tanto da paragonarla alla manna, di cui si vieta l’accumulo (come racconta il cap. 16 dell’Esodo). Una pratica di lettura sistematica, disciplinata e condotta in solitudine sul far del giorno, all’Ora prima, per riprendere il titolo di un suo famoso libro.
Oltre che lettore, De Luca è anche traduttore. E questo è forse l’aspetto più intrigante e al tempo stesso più problematico del suo rapporto con la Bibbia. Insieme a Guido Ceronetti e, più recentemente, ad Andrea Ponso, De Luca fa parte di quella ristretta cerchia di scrittori che hanno letto il testo biblico in ebraico e ne hanno tradotto dei libri. Si è messo, da autodidatta, a studiare l’ebraico, e successivamente lo yiddish, per soddisfare quella che definisce una «nostalgia dell’originale». Legge in ebraico perché vuole fare esperienza del carattere uditivo del biblico. È un aspetto che De Luca ci tiene a sottolineare nelle sue traduzioni, con cui vuole mettere in risalto il carattere udibile della lettera, che è viva proprio perché “risuona”, in senso metaforico, certo, ma prima ancora in senso fisico, un senso che passa inevitabilmente dai sensi.
Infine, c’è il De Luca esegeta. Una nuvola come tappeto è il testo che “inaugura” la serie dei commenti biblici, caratterizzati da microsaggi esegetici dedicati a temi e personaggi appartenenti perlopiù alla Bibbia ebraica. Ma non meno importanti all’interno della produzione biblica di De Luca sono quelle che definisco le “fiction esegetiche”, che non sono delle semplici parafrasi didascaliche del racconto biblico, ma piuttosto la creazione di racconti personaggi di finzione – e relativi personaggi – che, essendo pienamente calati nel mondo del testo, diventano delle vere e proprie esegesi narrative sul modello del midrash, il metodo di esegesi narrativa tipico della tradizione rabbinica.
De Luca si è dedicato, da autodidatta, allo studio dell’ebraico e dello yiddish: a quali esiti letterari e stilistici lo conduce la sua attività di traduttore?
Anzitutto bisogna dire che, oltre all’ebraico e allo yiddish, De Luca ha studiato e tradotto dal tedesco (Rainer M. Rilke), dal russo (Aleksandr Puškin) e dall’inglese (Jack London). Ma certo sono le sue traduzioni dall’ebraico biblico che hanno avuto maggiore risonanza, anche perché – bisogna pur dirlo – la Bibbia non è un libro qualsiasi e ha alle spalle una tradizione di traduzioni più che bimillenaria. Quindi mi soffermo su queste per dire, anzitutto, che De Luca non pretende di offrire la traduzione per eccellenza, la traduzione ultimativa. Per usare le sue stesse parole: «le mie traduzioni non vogliono essere capolinea di corsa, ma solo una fermata». Le definirei delle “pro-vocazioni”, cioè, così mi pare, degli inviti al lettore a fare un’esperienza di lettura e di ascolto del testo biblico, a percepire l’estraneità della lingua ebraica. Da qui la sua scelta di tradurre alla lettera (con tutti i rischi che ciò comporta) dall’ebraico in italiano. Il suo scopo non è tanto di rendere comprensibile il testo (per questo ci sono altre traduzioni più “ufficiali”) quanto di riprodurre, come se fosse un calco, la lingua in cui il testo è scritto. Una lingua straniante che mira a far assaporare, per quanto possibile, il “gusto” del testo ebraico. È chiaro che una scelta del genere obbliga De Luca ad accompagnare le sue traduzioni con un abbondante apparato di note e di introduzioni, senza le quali i lettori resterebbero sconcertati o quantomeno perplessi.
Il secondo tratto caratteristico delle traduzioni bibliche di De Luca è di mettere insieme la letteralità e la letterarietà. In altre parole, è una traduzione che rende il testo alla lettera e assume a sua volta una dimensione letteraria. In sostanza, il traduttore De Luca e il De Luca scrittore vanno di pari passo. Si potrebbe dire che la traduzione (letterale) della Scrittura diventa una scrittura (letteraria).
Tutto questo può dare l’impressione di un esercizio di stile fine a sé stesso. Senza dimenticare un problema di fondo, e cioè che il concetto di letteralità in riferimento alla traduzione biblica è assai problematico, perché in definitiva l’ebraico, oltre ad essere una lingua antica, è una lingua per la quale è difficile trovare equivalenze semantiche fuori dalla Bibbia stessa, e questo rende difficile cogliere e quindi tradurre in un’altra lingua l’intenzione dell’autore. Per dirla con una battuta, tradurre certi passi biblici richiede un atto di fede. Ciò non toglie però che leggere le traduzioni bibliche di De Luca sia, a mio parere, una esperienza letterariamente ed esteticamente molto stimolante, a patto però che non le si consideri come le uniche traduzioni possibili. Del resto, ogni traduzione, e tanto più quella biblica, è una sfida tanto affascinante quanto rischiosa.
De Luca ha sempre rivendicato il suo essere un «non-credente non-ateo»: come si risolve il paradosso deluchiano che lo vede innamorato delle pagine bibliche?
Questo è un aspetto su cui De Luca torna spesso nelle sue pagine e negli incontri a cui partecipa. Mi ricordo di aver assistito tanti anni fa a un incontro in una libreria cattolica (se non vado errato, era la San Paolo dietro al Duomo di Milano) durante il quale, in sede di dibattito, diversi dei presenti quasi volevano “convincere” De Luca che il suo dichiararsi non credente fosse, in realtà, una posa, un atteggiamento provocatorio, evidentemente dando per scontato che l’essere non credente sia incompatibile con la frequentazione assidua del testo biblico.
A me sembra che, in un paese come l’Italia in cui si oscilla tra clericalismo e laicismo, tra chi è più papista del papa e chi considera le religioni come un male da cui liberarsi prima possibile, De Luca sia uno dei pochi ad assumere una posizione schiettamente laica. Secondo lui, il mondo non si divide tra credenti e atei, ma tra persone in ricerca e integralisti, credenti o atei che siano. Per lui, la condizione di non credente non coincide con l’ateismo. E il fatto di definirsi e sentirsi non credente non gli impedisce di credere nella fede altrui, “credere” nel senso di prenderla sul serio, e, di conseguenza, di credere nel libro – la Bibbia appunto – che racconta una storia di fede che è pienamente calata nella storia (il Dio biblico agisce nella storia). De Luca afferma di leggere la Bibbia per vedere come funziona la «macchina da guerra del monoteismo». Direi che questa è una postura autenticamente laica, ma anche tipicamente biblica. E ciò per il fatto che, contrariamente a quanto spesso si pensa, la Bibbia non è un libro edificante, non è un libro per anime pie. Non è fatta per persone che hanno troppe certezze, tanto che ci sono diversi personaggi biblici che sperimentano continuamente, come succede a molti ancora oggi, il dubbio e l’abbandono, il credere e il non credere.
C’è un altro elemento che, secondo me, è peculiare dell’approccio deluchiano alla Bibbia. Il fatto che, anche se fatta da uno che si professa non credente, la sua lettura è sempre accompagnata da un grande rispetto per il carattere sacro del testo biblico. Carattere sacro che deriva alla Bibbia dal fatto che generazioni di uomini e donne si sono accostati a questo testo, dando vita così a una catena di lettori di cui lui stesso si sente parte. In altre parole, la lettura deluchiana della Bibbia, per quanto condotta da una prospettiva non credente e non teologica, si colloca in una linea di continuità con una tradizione di lettura – quella rabbinica in particolare – che aggiunge qualcosa di già contenuto nel testo ma che aspetta di essere detto.
In che modo la Bibbia influenza lo stile deluchiano?
Uno dei motivi per cui De Luca non ha tradotto libri del Nuovo Testamento è il fatto che sono scritti in greco, una lingua da lui considerata estranea alla cultura ebraica, una «contraffazione dell’originale». L’ebraico invece lo affascina anche per il fatto di essere una lingua molto concreta ed essenziale. È ovvio che lo stile deluchiano non ha soltanto una matrice biblica, ma risente anche dei molti autori, sia narratori sia poeti, che De Luca ha letto (come ho detto, lui si considera più lettore che scrittore). È però innegabile che il continuo contatto con il testo biblico in ebraico ha avuto una ricaduta sulla sua scrittura. Una influenza a livello di scelte lessicali, di sintassi e di retorica, ma anche a livello di pratica scrittoria.
De Luca parla della sua esperienza di vita e della sua scrittura come caratterizzate da una forte componente di fisicità. Quella deluchiana è una lingua fatta di materia, una lingua carnale e, direi, manuale, una lingua che attraversa i sensi. Una lingua che mantiene la concretezza e il tratto espressivo dell’oralità. Tutti elementi che caratterizzano la scrittura ebraica. L’ebraico biblico presenta una sintassi caratterizzata da frasi brevi, ma dense, con una netta prevalenza della paratassi. Ecco, la sintassi di De Luca non è molto diversa. Non caso dice: «le mie frasi non sono più lunghe del soffio che serve a pronunciarle».
Ma l’influenza della Bibbia si può vedere, come dicevo, anche a livello di pratica scrittoria. A proposito della sua scrittura De Luca fa una considerazione secondo me molto significativa. Dice: «nelle storie che scrivo, il narratore è la comparsa di una vicenda più grande che gli sta addosso e intorno». Penso che ciò che De Luca dice delle sue storie si possa applicare anche ai racconti biblici, all’origine dei quali non ci sono degli autori ma dei redattori, che sono poi, di fatto, i portavoce di una comunità. In sostanza, la vicenda narrata, cioè le grandi imprese di Dio nella storia, è più importante di chi la scrive. La Bibbia non conosce il concetto di autorialità, non le interessa mettere in risalto il soggetto della scrittura (il narratore) ma l’oggetto (Dio). D’altra parte, non si deve dimenticare che il racconto biblico comincia con quell’Essere-di-parola che è Dio, che crea il mondo con la parola, una parola che non dice ciò che fa, ma fa ciò che dice. Quindi una parola autorevole che cambia la vita. De Luca può dire di sé stesso di essere un redattore più che uno scrittore: «io sono nell’ombra di quella fiducia nei confronti della parola».
Luciano Zappella, dopo la laurea in lettere classiche, ha conseguito un Master di II livello in Bibbia e cultura europea. Docente liceale, si occupa in particolare di narratologia biblica, a cui ha dedicato un Manuale di analisi narrativa biblica (Claudiana, Torino 2014). I suoi articoli sul rapporto tra Bibbia e letteratura si possono leggere sul sito Bibbia Cultura Scuola (www.bicudi.net) da lui ideato e curato. Tra le sue pubblicazioni: Bibbia e storia (Claudiana, Torino 2012); Leggere la Bibbia in 100 passi, con P. Stefani (San Paolo, Cinisello Balsamo 2015).