“Il tuo capo è un algoritmo. Contro il lavoro disumano” di Antonio Aloisi e Valerio De Stefano

Antonio Aloisi e Valerio De Stefano, voi siete autori del libro Il tuo capo è un algoritmo. Contro il lavoro disumano edito da Laterza: quale svolta sta imponendo al mondo del lavoro l’evoluzione tecnologica?
Il tuo capo è un algoritmo. Contro il lavoro disumano, Antonio Aloisi, Valerio De StefanoIl mondo del lavoro cambia, spinto da tendenze legate alla digitalizzazione, alla demografia, alla globalizzazione, alla crisi climatica. Più in concreto, ogni giorno sperimentiamo questa trasformazione sulla nostra pelle. Cambia l’organizzazione, cambiano gli strumenti, cambiano i rapporti di forza. A dire il vero, essere in perenne evoluzione è una caratteristica intrinseca, e affascinante, del lavoro. Eppure, la velocità, la portata e la varietà di alcuni vettori dell’accelerazione in corso, quali automazione, intelligenza artificiale e piattaforme, ci pongono al cospetto di sfide in parte nuove, per le quali siamo scarsamente equipaggiati. Per orientarsi, sosteniamo nel libro, c’è bisogno di un cambio di passo. “Il tuo capo è un algoritmo” adotta una prospettiva inedita, rinunciando all’idea che lo stato del progresso tecnologico sia – come troppi sostengono – inevitabile. Sostiene che, per governare la trasformazione digitale, sia necessario scegliere non quanto, ma quale lavoro vogliamo.

Il caso del lavoro da remoto è in questo senso emblematico. Anziché disegnare schemi flessibili, improntati alla collaborazione e alla responsabilizzazione, molto spesso si replicano logiche gerarchiche di controllo che beneficiano dell’abbondanza di “software spia” e strumenti collaborativi, finendo di fatto per sprecare questa occasione. L’evoluzione tecnologica, infatti, porta a fare i conti con noi stessi – e più precisamente con le nostre priorità.

Nel libro scriviamo che “la tecnologia è un alleato imprescindibile, dalla fabbrica alla scrivania, dal magazzino all’ufficio. È essenziale, però, sfidarla continuamente sul terreno della convenienza sociale e politica, prima ancora che economica”. Il testo intende vuol far riflettere su come la tecnologia possa essere utilizzata per migliorare la vita e il lavoro, a patto di non lasciare che il settore del tech si auto(de)regolamenti pretendendo di reggere le decisioni pubbliche quale unico arbitro del nostro destino. Vogliamo anche raccontare come i nuovi strumenti di lavoro ci permetteranno di risparmiare fatica e noia, rimpiazzando lavori pericolosi, duri o ripetitivi. Allo stesso tempo, ci sforziamo di mettere in guardia su come alcune applicazioni tecnologiche tendano a essere usate per sottoporre tutti a regimi di sorveglianza invasiva e continua, anche sul lavoro (accrescendo il livello di stress e annullando gli spazi più intimi di riservatezza). Anziché semplificarci la vita, c’è il rischio che la tecnologia replichi errori del passato, mai davvero archiviati. Dagli algoritmi (usati per selezionare i candidati a una posizione lavorativa) che incorporano pregiudizi e disparità, alle piattaforme online della gig-economy (che in molti usano per ordinare una pizza in una sera di pioggia) che esercitano poteri robusti rinunciando alle responsabilità che ne conseguono, fino all’intelligenza artificiale usata per sorvegliare al millimetro il comportamento dei lavoratori, così comprimendo ogni spazio di autonomia e creatività. Ma non siamo condannati a questa realtà. Il testo offre gli strumenti per godersi il meglio dell’innovazione, senza abdicare ai valori fondamentali.

Quali rischi comportano per il lavoro umano l’elevata automazione e la sempre maggiore innovazione tecnologica?
Per troppo tempo siamo stati bombardati da tesi molto avventurose sul rischio che i robot ci rubassero il mestiere, lasciandoci disoccupati o sul lastrico. Solo per citare un caso emblematico, qualche anno fa, sulla copertina del New Yorker campeggiava a tutta pagina un robot dalle fattezze umane intento a fare l’elemosina a un mendicante barbuto o trasandato. Sullo stesso numero della rivista americana, tuttavia, si poteva leggere un lungo articolo dal titolo “La fabbrica oscura”, a firma di Sheelah Kolhatkar. Il pezzo passava in rassegna le diverse implicazioni dell’introduzione di moderni processi industriali nei luoghi di lavoro, e si concentrava, tra le altre cose, su un’analisi approfondita della relazione tra lavoro umano e macchine intelligenti. Il pezzo ruotava attorno alla testimonianza diretta di alcuni operai che hanno sperimentato picchi, crolli e poi risurrezioni, legati ai fenomeni di globalizzazione e digitalizzazione che hanno investito la manifattura statunitense. Nel complesso, l’articolo trattava si premurava di affrontare in maniera scrupolosa l’impatto dell’automazione sui posti di lavoro che sopravvivono alla crisi economica, alle delocalizzazioni e all’installazione di apparati automatizzati. Il messaggio è che non ci si deve far distrarre dal feticcio della “robocalisse”, lo scenario distopico che va tanto di moda. Il lavoro non finisce, semmai in larga parte cambia. Per questo servono competenze nuove, regole certe e investimenti corposi. È stato dimostrato da studi molto più attendibili di quelli allarmistici che un lavoro è fatto di tante mansioni diverse, di queste solo alcune possono essere sostituite da dispositivi automatizzati (quelle più monotone e ripetitive, sia manuali che di concetto). In molti casi, l’uomo mantiene una posizione di vantaggio imbattibile: destrezza, pensiero critico, flessibilità – sono doti umane che non possono essere “codificate” e per questo è pressoché impossibile insegnarle ai robot. Questa notizia ci rincuora fino a un certo punto. D’altra parte, come scriviamo nel libro, non è detto che l’automazione sia l’unico rischio che corriamo. Il lavoro precario, povero, svuotato del contributo astratto individuale è spesso più conveniente della stessa automazione di massa – che comporterebbe esosi investimenti su larga scala. Di questo dovremmo occuparci, anziché rincorrere i profeti di sventura. Il rischio è che, assunta a piccole dosi, l’automazione imperfetta svilisca l’apporto umano e renda le attività fungibili, appaltabili al ribasso. Esiste un filo rosso che collega la retorica della “fine del lavoro” e la perdita di qualità di molte mansioni. In una battuta, è più probabile che gli umani vengano condannati a fare i lavori che neanche le macchine si sognerebbero di fare. Ci sembra un terreno poco esplorato e con il libro proviamo ad accendere un faro sulla questione. Sarebbe interessante aprire un dialogo con i lettori su questa prospettiva.

Come cambia nell’era digitale il diritto del lavoro?
“Il tuo capo è un algoritmo” è un libro che parte da questioni di natura giuridica per occuparsi prioritariamente di temi che investono l’intera società e riguardano ognuno di noi. Come ammettiamo nel prologo, è un libro anche di diritto, ma parla la lingua di tutti e si avvale di esempi tratti dal quotidiano, di casi concreti (talvolta anche ironici) e di aneddoti ispirati a casi comuni. Se proprio occorresse incasellarlo in un genere letterario, ci piacerebbe considerarlo un dispaccio dal fronte del lavoro che cambia, senza alcuna velleità da manualistica. È vero, però, il diritto del lavoro è al centro della nostra analisi. Noi sosteniamo che il diritto un alleato dell’innovazione autentica, dacché fornisce soluzioni credibili ad esigenze genuine. Troppo spesso si sente dire che le regole esistenti finiscono per ammazzare la modernità nella culla. Eppure, lo stato di salute dei paesi in cui le istituzioni sociali sono solide è ottimo, si pensi alla Germania. Chi si lamenta delle regole poco al passo con i tempi, spesso ha in mente un modello in cui si compete in maniera sleale – i cui successi tardano ad arrivare.

Il caso del lavoro tramite piattaforma è in questo senso emblematico. Autisti, fattorini, traduttori, manutentori, giardinieri, camerieri, baby-sitter, spedizionieri, artisti, revisori. Per anni abbiamo dovuto subire le sirene del “lavoretto”, del passatempo in un regime di quasi gratuità. Passata questa illusione, si è fatto ricorso al tema della flessibilità oraria che un rapporto di lavoro avrebbe giocoforza annullato, a scapito dei lavoratori con esigenze discontinue e intermittenti. Il tutto all’ombra di un modello fortemente gerarchico e rigidamente standardizzato, in cui si annullano le tutele e trionfa la deresponsabilizzazione. Anni e anni di sofismi sbriciolati di fronte alle sentenze, compresa quella autorevolissima della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che sancisce che il controllo esercitato da molti sedicenti intermediari è in tutto simile, se non più penetrante, di quello che si manifesta in un rapporto di lavoro “classico”. Che dire? Nonostante gli allarmismi sull’obsolescenza del rapporto di lavoro sulla scia delle perturbazioni tecnologiche, nel libro sosteniamo che le istituzioni sociali possono benissimo coesistere con la modernizzazione. Non è vero che la flessibilità di decidere quando e se lavorare sia inconciliabile con il lavoro subordinato, tanto più quando a dominare sono algoritmi, manager in carne e ossa attivi via chat o via telefono e sistemi di valutazione affidati ai consumatori. Anche in questo caso, abbiamo perso troppo tempo. Di recente, nonostante confuse fughe in avanti, molte piattaforme hanno annunciato di voler ricorrere a rapporti stabili per garantire servizi di qualità, all’altezza delle attese e dei volumi che sono aumentati anche per via del lockdown da pandemia. Checché ne dicano le cheerleader dell’innovazione “che spacca”, è importante notare che moduli organizzativi flessibili sono perfettamente compatibili con il contratto di lavoro subordinato, come hanno dimostrato decenni di innovazioni aziendali e pronunce giurisprudenziali.

Per sua natura, il diritto del lavoro ha attraversato grandi mutazioni e non manca certo di adattabilità. Grazie alla sua anima flessibile è in grado di offrire strumenti in linea con i bisogni del contesto produttivo, anche in epoche mercuriali come quella attuale, mediando tra interessi contrapposti. In questo senso, nel libro offriamo un catalogo di soluzioni su cui è oggi urgente confrontarsi. Prima di tutto, attraverso l’azione collettiva. Sebbene vissuta come un relitto del passato, la contrattazione collettiva fornisce strumenti rapidi ed elastici per affrontare la trasformazione in atto, dal governo degli algoritmi alla gestione del tempo di lavoro passando per la formazione costante e le premialità rispetto ai risultati conseguiti. C’è bisogno però che tutte le parti scommettano su questa opportunità, costruendo strategie nuove e imparando a maneggiare le tecnologie.

Quale futuro per il lavoro?
Il nostro tentativo è proprio quello di uscire dallo stato di eccezionalità riconosciuto al tech. Il lavoro del futuro è senz’altro più tecnologico di quello presente, allo stesso tempo, le tecnologie del futuro saranno usate in modo più umano-centrico di come facciamo oggi.

Ne “Il tuo capo è un algoritmo” scriviamo che “la tecnologia e le sue conseguenze sono il frutto di azioni umane, o ancora di strategie aziendali, e in quanto tali dipendono strettamente dal tessuto sociale e regolamentare su cui si riverberano. La tecnologia e i suoi effetti possono, insomma, essere governate ed è bene che lo si faccia in fretta. Gli strumenti ci sono già, oppure si possono individuare in modo corale. L’importante è non dare l’innovazione per scontata né temere di contestarla, quando necessario, per indirizzarla verso il progresso a beneficio di tutti”.

Ciò che contrastiamo, infatti, è un utilizzo poco critico del digitale, tanto nel privato quanto sul posto di lavoro e, più, in generale nella società. Da un mercato del lavoro in trasformazione ci si aspetta un contributo in termini di inclusione, uguaglianza, accesso diffuso alle opportunità, concorrenza, ma anche efficacia nell’allocazione delle prestazioni sociali, nel contrasto alle frodi e al malaffare. Alle macchine va affidato il compito di liberarci dai lavori meno stimolanti e più faticosi. Agli algoritmi selezionatori l’aspirazione di riuscire ad assumere decisioni più giuste di quelle prese oggi, scrostando ogni scelta dalle scorie che minaccia­no la dignità umana. Alle piattaforme la capacità di favorire l’incontro di domanda e offerta di lavoro in modo intelligente e sostenibile, evitando la precarizzazione e l’impoverimento. Ci serve una tecnologia che sia in grado di produrre risultati migliori di quelli finora ottenuti a mani nude. Per realizzare in concreto la promessa emancipatrice che oggi tarda a materializzarsi. Questo è l’auspicio con cui concludiamo il testo, sperando di mettere queste idee a disposizione di un pubblico ampio e interessato.

Antonio Aloisi insegna Diritto del lavoro all’Università IE di Madrid, dove è anche Marie Skłodowska-Curie Fellow. È stato Max Weber Fellow all’Istituto Universitario Europeo di Firenze, ha insegnato all’Università Bocconi di Milano e ha svolto attività di ricerca presso la Saint Louis University negli USA. Ha collaborato a ricerche promosse da istituzioni internazionali e ha scritto articoli divulgativi per “il Mulino”, “Linkiesta” e “pagina99”.
Valerio De Stefano insegna Diritto del lavoro all’Università di Lovanio (KU Leuven) in Belgio, dove coordina anche un gruppo di giovani ricercatori. Ha insegnato presso l’Università Bocconi di Milano, ha fatto l’avvocato giuslavorista e ha lavorato presso l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, agenzia specializzata delle Nazioni Unite con sede a Ginevra. Ha scritto articoli divulgativi per “il Mulino”, “il Manifesto” e “lavoce.info”.

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