“Il traffico di specie protette. Prospettive critiche e interdisciplinari” di Anita Lavorgna

Prof.ssa Anita Lavorgna, Lei è autrice del libro Il traffico di specie protette. Prospettive critiche e interdisciplinari edito da FrancoAngeli: quali dimensioni ha assunto tale triste fenomeno?
Il traffico di specie protette. Prospettive critiche e interdisciplinari, Anita LavorgnaVa innanzitutto chiarito che fare stime precise sul fenomeno è estremamente complicato, come sempre accade nello studio di fenomeni sommersi. Sono però stati fatti alcuni studi che ci danno un’idea, se non altro, dell’“ordine di grandezza” del traffico di specie protette, che è ormai considerato tra i più proficui settori criminali del mondo, dopo il traffico di droga, di beni contraffatti, e la tratta di esseri umani. È stato stimato che il suo valore complessivo, quindi considerando anche forme di traffico che non ho affrontato nel dettaglio nel mio lavoro, come ad esempio il traffico di legname, vari dai 43 ai 195 miliardi di euro all’anno, valore che sale ulteriormente se si considerano le perdite di fatturato per i settori legali legati a questi commerci. Se ci focalizziamo invece solo sui traffici di flora e fauna di cui ho parlato nel mio lavoro, le stime parlano di un valore che varia dai 6 ai 20 miliardi di euro all’anno a livello globale.

Quali norme tutelano a livello internazionale le specie protette?
A livello internazionale, il punto di riferimento principale è sicuramente la Convenzione sul Commercio Internazionale delle Specie di Fauna e Flora Selvatiche Minacciate di Estinzione (Convention on International Trade in Endangered Species of Wild Fauna and Flora), generalmente nota col nome di CITES o Convenzione di Washington (dove è stata firmata). La Convenzione, entrata in vigore nel 1975, è un accordo tra Stati (183 ad oggi) con lo scopo di proteggere piante e animali a rischio di estinzione attraverso la regolamentazione e il monitoraggio del loro commercio internazionale.

Nel complesso, il “sistema CITES”, che è parte del programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, è abbastanza complesso, prevedendo non solo il divieto di commercio per alcune specie, ma soprattutto un sistema di certificati e permessi per potere commercializzare molte specie qualora sussistano determinate condizioni. Si pensi che la CITES regola più di 37.000 specie in totale, di cui più di 30.000 sono piante, sia di origine selvatica che non. Queste specie sono elencate in tre diverse Appendici alla Convenzione a seconda del livello di protezione che si ritiene adeguato per loro (il commercio internazionale è vietato; il commercio internazionale è limitato in maniera rigorosa; o il commercio internazionale può venire autorizzato tramite il rilascio di un permesso per esportazione o riesportazione).

Nel corso degli anni la CITES è stata spesso criticata e il sistema è sicuramente perfettibile, ma nel complesso ha dimostrato di riuscire a mitigare molti dei rischi legati ad un’eccessiva commercializzazione di specie selvatiche a rischio, e dei loro derivati.

In che modo le tecnologie della comunicazione hanno facilitato e ampliato la portata del fenomeno, rendendo ancora più difficile contrastarlo?
Ogni innovazione tecnologica, in un modo o nell’altro, ha un impatto sui mercati illegali: modificando le nostre routine, si creano nuove opportunità criminogene o di vittimizzazione. La commercializzazione di internet e l’avvento del web 2.0 hanno avuto un ruolo chiave nell’espansione e nello sviluppo del traffico di specie protette su larga scala, non solo facilitando l’incontro tra domanda e offerta, ma rendendo il mercato di specie protette un vero e proprio mercato “ibrido”, capace di svilupparsi sia nel mondo fisico che nel cyberspazio. Online, anche per specie di nicchia, è più facile trovare potenziali acquirenti o venditori (ad esempio interagendo in comunità virtuali di appassionati, o avvalendosi delle possibilità dell’e-commerce), in un contesto di sviluppo estremo del commercio internazionale. I fornitori internazionali hanno potuto abbattere certi costi, aumentando la redditività del mercato, ma anche rendendo i prezzi finali più appetibili per gruppi di potenziali acquirenti. Va notato che non si è assistito solo ad un’esplosione quantitativa del fenomeno, ma ha anche ad un cambiamento qualitativo di alcuni aspetti del traffico, in una evoluzione del mercato criminale in cui sono cambiate diverse fasi dell’attività di traffico di specie protette e le modalità attraverso le quali alcune di esse vengono svolte. Inoltre, è più difficile identificare certi attori online, dove è più facile operare in maniera più o meno anonima, così come può essere più difficile dimostrare l’intenzione criminale e costruire un corpo di prove per iniziare un caso legale. La percezione del rischio è cambiata, rendendo alcuni di questi mercati appetibili a nuovi attori.

In che modo il nostro Paese è implicato nel traffico di specie protette?
Anche l’Italia, sfortunatamente, è implicata in questo mercato illegale, come del resto lo sono molti paesi Europei, sia come paese di origine, che di transito e destinazione. Si pensi, ad esempio, alla raccolta di nidi nel traffico di specie di uccelli in via di estinzione, o alla cattura di certe specie ittiche, o di tartarughe. O all’importazione di pellame, rapaci, rettili, o piante rare.

Quali sfide, ma anche quali vantaggi, offre la ricerca interdisciplinare in materia di traffico di specie protette?
Anche se il mio lavoro, nel libro, si inserisce principalmente nella tradizione della criminologia ambientale (green criminology), è importantissimo riconoscere come una visione interdisciplinare sia sempre più importante per affrontare fenomeni complessi come quelli del traffico di specie protette. Nel progetto “FloraGuard” da me diretto e da poco concluso, ad esempio, nella mia squadra di ricerca si è lavorato fianco a fianco con colleghi provenienti da diverse discipline: non solo le scienze sociali con la criminologia (e tenga presente che la mia formazione è giuridica, un’ulteriore aggiunta all’interdisciplinarietà!), ma anche l’informatica e l’ecologia. Certo, trascendere i confini disciplinari così come tradizionalmente intesi è una bella sfida: cambiano il linguaggio, la forma mentis, il modo di approcciare certi problemi, talvolta la prospettiva epistemologica. Non nego che queste collaborazioni possano essere complicate, come complicato è poi “esportarle”, ad esempio per quanto riguarda le pubblicazioni scientifiche, in un sistema accademico che spesso guarda con sospetto le discipline “diverse da sé”. Ma è una sfida che vale la pena portare avanti, pur senza negare, ovviamente, il valore delle singole discipline anche prese singolarmente. Sono modi diversi di fare ricerca, che vedo come complementari, ci permettono di “fare luce” su aspetti diversi dello stesso problema. Nel caso di “FloraGuard”, senza i colleghi informatici non avremmo avuto accesso a dati importanti, e non avremmo potuto sperimentare nuovi modi per identificare traffici sospetti online; senza i colleghi di ecologia, non saremmo stati in grado di distinguere certi fattori di rischio e le implicazioni di certi traffici, non avremmo nemmeno avuto il “linguaggio giusto” per osservare certi mercati illeciti; senza le competenze criminologiche/sociologiche, non sarebbe stato possibile interpretare certi dati in maniera approfondita, o sarebbero mancate le competenze metodologiche per analizzare alcune comunità virtuali al centro di certi mercati illegali.

Cosa è possibile fare per prevenire e fermare il traffico di specie protette?
Purtroppo non c’è una formula magica, ma ci sono degli interventi che possono aiutare.

Sicuramente vi è la necessità di soluzioni a lungo termine per prevenire le fasi iniziali di ogni forma di traffico illecito, incluso quello di specie protette, già nei paesi di origine, con azioni volte a ridurre l’offerta non solo aumentando la consapevolezza delle popolazioni locali, ma anche offrendo opportunità economiche alternative dove necessario.

Se ci focalizziamo sul lato della domanda, credo che il fattore chiave resti quello dell’aumento della consapevolezza pubblica del problema – ma una consapevolezza, si noti, basata sui dati e scevra di luoghi comuni: ormai tutti più o meno sanno che il commercio di avorio è problematico, ma quanti si domandano se la piantina infilata in valigia di ritorno da un viaggio esotico, o gli ingredienti di un certo integratore alimentare, sono parte del traffico di specie protette?

Specialmente nel corso degli ultimi anni sono state portate avanti delle campagne di sensibilizzazione (si pensi, ad esempio, alle teche e ai poster presenti in molti aeroporti, anche in Italia, per allertare i viaggiatori circa l’illegalità del commercio internazionale di specie protette), ma la loro efficacia non è stata testata. Inoltre, queste rappresentazioni tendono a portare avanti un immaginario del traffico di specie protette come legato (solamente) a determinate specie iconiche di animali e dei loro derivati. Sarebbe invece fondamentale lavorare in maniera sistematica con le associazioni commerciali e le aziende con interessi diretti nel traffico di alcune specie protette o a rischio di diventarlo, come ad esempio nel settore cosmetico, e con gruppi di collezionisti, al fine di progettare e attuare approcci più specifici di prevenzione o riduzione del danno. Per sensibilizzare la popolazione, si potrebbe insistere di più su alcuni rischi, come quelli sanitari, legati al traffico illecito di certe specie, o lavorare in tandem con zoo, giardini botanici e altri luoghi di conservazione ex situ per promuovere azioni di informazione per il pubblico.

Inoltre, gli sviluppi nel settore dell’informatica e in particolar modo dell’intelligenza artificiale stanno certamente migliorando la raccolta e l’elaborazione di informazioni, facilitando il lavoro sia di ricerca che di intelligence. Tuttavia, per quanto strumenti computazionali possano rivelarsi sempre più utili per allocare le scarse risorse (umane) preposte al contrasto del traffico di specie protette, questi strumenti non forniscono una vera e propria soluzione al problema. Una migliore formazione, almeno di base, sul traffico delle specie protette, fornita non solo ai corpi specializzati, ma a tutte le forze dell’ordine per facilitare l’identificazione di casi sospetti si rende necessaria. Anche le professioni legali andrebbero meglio formate su queste tematiche.

Dal punto di vista della regolamentazione, a mio avviso sarebbe utile riconoscere esplicitamente che nel traffico di specie protette vi sono diversi livelli di illegalità e di severità delle azioni compiute e delle loro conseguenze. Il fatto che il sistema CITES e i suoi adattamenti e implementazioni generalmente non riconoscano chiaramente, ad esempio, tra un illecito amministrativo e illeciti con gravissime conseguenze ambientali rende il sistema estremamente pesante e complesso; se ipoteticamente si perseguissero tutti i casi sospetti si rischierebbe l’ingorgo del sistema e, in ogni caso, non ci sarebbero mai realisticamente abbastanza risorse disponibili per farlo.

Anita Lavorgna è Professoressa Associata di Criminologia all’Università di Southampton, dove insegna e svolge attività di ricerca sulla criminalità informatica, organizzata e sui danni sociali digitali, spesso in un’ottica comparata. Nella sua ricerca, di carattere internazionale e interdisciplinare, la Prof.ssa Lavorgna unisce criminologia, studi socio-legali e web science. Dal 2018 al 2021 ha diretto il progetto di ricerca “FloraGuard: Contro il commercio illegale delle piante in via di estinzione”, finanziato dal Consiglio per la Ricerca Economica e Sociale del Regno Unito.

ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER
Non perderti le novità!
Mi iscrivo
Niente spam, promesso! Potrai comunque cancellarti in qualsiasi momento.
close-link