“Il tifo violento in Italia. Teppismo calcistico e ordine pubblico negli stadi (1947-2020)” di Fabio Milazzo

Dott. Fabio Milazzo, Lei è autore del libro Il tifo violento in Italia. Teppismo calcistico e ordine pubblico negli stadi (1947-2020), edito da FrancoAngeli: quando e come nasce il fenomeno della violenza negli stadi?
Il tifo violento in Italia. Teppismo calcistico e ordine pubblico negli stadi (1947-2020), Fabio MilazzoIl fenomeno della violenza calcistica ha accompagnato il calcio fin dalle sue origini. Pur con alcune differenze sui periodi più cruenti (prima della Grande guerra o successivamente), gli studiosi che si sono occupati del fenomeno sono abbastanza concordi su questo. Ma è dopo il secondo conflitto mondiale che si registra un aumento esponenziale degli episodi. Diffusi e pronti a esplodere alla minima scintilla, gli incidenti rispondevano al bisogno dei tifosi di partecipare attivamente al confronto che si svolgeva sul terreno di gioco. Il contesto maschilista in cui si disputava la partita, e in cui la tecnica era subordinata al confronto fisico e allo spirito agonistico, favoriva l’aggressività e la perdita di controllo delle folle, secondo dinamiche che la psicologia delle masse e la sociologia della devianza avevano cercato di spiegare. Obiettivi privilegiati di questa violenza estemporanea erano soprattutto gli arbitri e la squadra avversaria. Frequenti le invasioni di campo e le sassaiole, meno diffusi, ma non del tutto assenti, gli scontri tra gruppi di tifosi avversari. In generale il fenomeno non destava particolare allarme sociale ed era ritenuto “fisiologico” e correlato all’eccitazione prodotta dal confronto tra le squadre in campo. Anche le istituzioni non guardavano ai frequenti incidenti che accadevano negli stadi come a un problema specifico, ma, nei casi di particolare gravità, adottavano misure e politiche in uso nelle piazze o nei casi di sedizioni. Caroselli con le jeep per disperdere la folla, uso degli idranti e dei candelotti lacrimogeni, interventi pesanti e, in circostanze non infrequenti, utilizzo delle armi da fuoco. Fu proprio in una di queste circostanze, durante gli incidenti che funestarono la gara di serie C tra Salernitana e Potenza del 28 aprile 1963, che venne ucciso il tifoso salernitano Giuseppe Plaitano. L’episodio scosse l’opinione pubblica e generò per qualche settimana un movimento d’opinione che mise sotto accusa l’agire delle forze dell’ordine, senza però generare cambiamenti significativi nelle politiche adottate negli stadi. Qualche anno prima un’altra tragedia aveva funestato il calcio e animato il dibattito pubblico, si trattava della morte di un ragazzo di 17 anni, Giordano Guarisco, schiacciato dalla folla che cercava di entrare allo stadio per assistere alla partita tra Milan-Fiorentina del 30 novembre 1958. Al di là delle discussioni sulle carenze organizzative, in tale circostanza si cominciò a porre sotto osservazione il pericolo delle bande di teppisti pronte a radunarsi ed a organizzarsi in occasione dei grandi avvenimenti sportivi, per forzare deliberatamente le porte d’ingresso. La focalizzazione su un segmento specifico del pubblico segnava, anche sul piano mediatico, un mutamento importante nella rappresentazione della violenza calcistica.

Quale cambiamento ha segnato l’avvento degli ultras?
L’avvento degli ultras, alla fine degli anni Sessanta, ha rivoluzionato le pratiche del tifo in Italia. Fenomeno solo in parte legato all’esperienza degli hooligans inglesi, se ne discosta per molteplici aspetti, assumendo una fisionomia propria, legata alla storia d’Italia. In relazione a quest’ultimo aspetto, va sottolineato come l’avvento del tifo estremo rientri di diritto tra le esperienze del “lungo ‘68” italiano. È infatti il Paese agitato dalle rivendicazioni sociali, la frattura generazionale, il movimentismo dei giovani, la partecipazione collettiva a un clima di trasformazioni culturali ed esperienze inedite, in molteplici segmenti della società, a rappresentare il contesto di incubazione per il movimento ultras. In particolare è il desiderio di protagonismo dei settori giovanili dei club e dei circoli di tifosi, nati tra gli anni Cinquanta e Sessanta, a scatenare la rivoluzione del tifo estremo. La rottura evidenziava la consapevolezza di rappresentare qualcosa di diverso rispetto agli altri membri del club, ritenuti troppo compassati e autori di un tifo giudicato insoddisfacente. Le nuove formazioni sono composte perlopiù da ragazzi uniti dall’età, dalla passione per il calcio, da un sistema di valori forgiato nelle strade e per marcare la differenza rispetto agli altri spettatori occupano una propria zona di stadio: la curva. Rispetto al tifo dei club, i giovani ribelli restano in piedi per tutta la partita, incitano la propria squadra al ritmo dei tamburi, con cori sempre più elaborati, vanno in trasferta regolarmente, assumono uno stile aggressivo e non rifiutano il contatto fisico con gli altri gruppi. Anzi, la violenza, da subito, assume un ruolo centrale per i tifosi estremi, non soltanto all’interno delle curve, sancendo l’affermazione degli esponenti più carismatici, ma anche nel domenicale confronto con le altre tifoserie. Prende così corpo un campionato parallelo a quello giocato in campo, che vede le diverse tifoserie confrontarsi, e scontrarsi, per stabilire la supremazia tra le diverse sigle. È una rivoluzione che sancisce una rottura epocale nelle pratiche del tifo e che interessa aspetti culturali, identitari, organizzativi e sociali.

Cosa hanno rappresentato, per l’evoluzione del fenomeno, gli anni Ottanta?
Nel corso degli anni Ottanta il fenomeno del tifo estremo si era ormai diffuso territorialmente e quasi tutte le squadre, anche nelle serie minori, avevano gruppi ultrà propri. Il movimento aveva inoltre assunto una precisa identità subculturale e di quest’ultima faceva parte a pieno titolo la violenza: gli incidenti si ripetevano con sistematica regolarità e a una aggressività rituale simbolica si affiancava una violenza che non era più indirizzata solo al direttore di gara, ai giocatori o ai dirigenti avversari, ma che aveva come bersaglio i sostenitori avversari. Nel libro utilizzo l’espressione di «terribili anni Ottanta», volendo con ciò contraddistinguere il lungo e tragico periodo che va dalla morte del tifoso laziale Vincenzo Paparelli, durante il derby del 28 ottobre 1979, all’omicidio del tifoso genoano Vincenzo Spagnolo, il 29 gennaio del 1995. Un arco di tempo di oltre quindici anni, segnato da tragedie emblematiche come quella dell’Heysel, ma anche da una violenza pervasiva, diffusa, che ha funestato non soltanto le domeniche, ma anche gli incontri infrasettimanali – basti pensare ai gravi incidenti alla fine della partita di Coppa Uefa tra Inter e Austria Vienna il 7 dicembre 1983. La frequenza degli episodi era tale da generare assuefazione e da non risparmiare quasi nessuna tifoseria, in un tragico bilancio in cui vittime e assalitori si scambiavano rapidamente di posto. Gli scontri spesso innescavano spirali di violenze che sfociavano in veri e propri regolamenti di conti tra bande, con episodi che segnavano la geografia urbana in tempi e luoghi anche molto distanti rispetti a quelli in cui si disputavano le partite. Come avvenne l’8 agosto 1991, a Rimini, durante una lita scoppiata tra alcuni ultras dell’Inter e del Napoli in vacanza. In quel caso la vittima si chiamava Luca Scio, aveva 16 anni, apparteneva agli Skins dell’Inter, e venne colpito mortalmente con un colpo di cacciavite. Ma si poteva morire anche sui treni, come accadde al tifoso romanista Andrea Vitone, scomparso il 21 marzo 1982, nel rogo di uno scompartimento ferroviario di ritorno dalla trasferta di Bologna. E se i nomi di Marco Fonghessi, Antonio De Falchi, Nazzareno Filippini, Salvatore Moschella, solo per citare alcuni, ormai sono perlopiù sbiaditi nella memoria collettiva, in quegli anni rappresentarono l’emblema della concreta possibilità di poter morire per essere andati a vedere una partita di calcio.

Come si è evoluta l’attenzione mediatica al fenomeno?
Inizialmente, ancora nel secondo dopoguerra, le intemperanze che avvenivano nel contesto calcistico venivano considerate perlopiù fisiologiche e, almeno in parte, legate alla psicologia delle folle e alla voglia del pubblico di svolgere un ruolo attivo nel confronto che si volgeva tra le squadre in campo. Per i casi più gravi i giornali scrivevano di “episodi di cronaca nera” e comunque tendevano a separare gli incidenti dall’evento sportivo. Il contesto culturale fortemente maschilista favoriva una certa tolleranza nei confronti di quanto accadeva negli stadi, ritenuti una sorta di “sfogatoio domenicale” per le frustrazioni accumulate durante la settimana lavorativa. Con l’avvento del tifo estremo il registro dei media cambiò radicalmente e il fenomeno venne sempre più rappresentato con enfasi e toni allarmistici. Alle intemperanze veniva dedicato sui giornali – ma anche alla radio e alla televisione – uno spazio fisso accanto alle cronache sportive e tutto ciò favorì la diffusione di un vero e proprio clima da allarme sociale. Gli stadi venivano descritti come luoghi insicuri e, ripetutamente, fecero la loro comparsa espressioni come «schiere di tifosi teppisti» e «barbari della domenica». La tragedia dell’Heysel, in tal senso fu paradigmatica, e sui giornali si parlò di «disastro», «inferno», «massacro», «orrore», «bagno di sangue». Gli ultras, invece, erano «delinquenti» da isolare e perseguire e veniva invocato il “pugno duro da parte delle istituzioni”, implicitamente ritenute troppo tolleranti. Stereotipi e processi mediatici improntati all’indignazione collettiva la facevano da padrone, a tutto discapito delle analisi approfondite e della reale voglia di comprendere origini e cause del fenomeno. Solo dopo l’uccisione del tifoso genoano Spagnolo si registrò un certo cambio di rotta e letture meno superficiali fecero la loro comparsa. Erano comunque analisi estemporanee, che non rappresentavano la norma, in un contesto di informazione ancora segnato dal prevalere dei toni allarmistici e delle narrazioni stereotipate.

Come si è articolata la risposta dello Stato?
Nonostante gli episodi di teppismo calcistico abbiano accompagnato le partite fin dall’origine, sul piano legislativo, almeno sino alla metà degli anni Ottanta, il fenomeno era scarsamente tenuto in considerazione. In generale, per la gestione dell’ordine pubblico, l’autorità di pubblica sicurezza aveva ampi margini di azione, secondo quanto previsto dall’art. 82 del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (Tulp), ma mancava una legislazione specifica. Fu la morte del tifoso laziale Paparelli a sollecitare una prima stretta repressiva, concretizzatasi nel divieto a introdurre striscioni inneggianti alla violenza, tamburi e altri strumenti del tifo. I controlli agli ingressi si fecero più serrati, ma in generale l’applicazione delle misure era disomogenea sul territorio nazionale. Solo lo shock generato dalla tragedia dell’Heysel spinse le istituzioni ad affrontare anche sul piano della normativa la questione. Gli anni Novanta furono così segnati dagli effetti della legge 13 dicembre 1989, n.401 e dalla legge 24 febbraio 1995, n. 45, che fondamentalmente regolavano il divieto di accesso alle manifestazioni sportive e le modalità della sua applicazione. Su questo solco, per arginare la violenza dilagante e una situazione percepita dall’opinione pubblica come fuori controllo, vennero adottati ulteriori provvedimenti, con carattere emergenziale e repressivo, che incrementarono restrizioni e divieti, tanto da sollecitare in più circostanze rilievi di incostituzionalità. Era il segnale più evidente di un’azione di corto respiro, sollecitata più dal clamore scatenato dagli episodi violenti che da un orizzonte articolato e di lungo periodo. L’utilizzo del registro repressivo, e la pressoché totale assenza di ogni istanza di dialogo con il mondo del tifo organizzato, favorì l’affermazione delle sigle più radicali all’interno dello stesso, quelle maggiormente interessate ad alzare il livello dello scontro con le istituzioni, per ragioni strumentali e motivazioni sovente legate all’estremismo politico. È una pagina ancora attuale e di cui, probabilmente, vedremo ulteriori sviluppi in futuro.

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