
L’approccio iconotestuale, già invocato, anche se in altri termini, da maestri di cultura del medioevo come Chiara Frugoni, restituisce all’oggetto d’arte il contesto simbolico e il valore “spirituale” che aveva al tempo in cui è stato realizzato, sulla base delle concezioni iconografiche e dei sistemi di significazione che noi possiamo ricostruire soprattutto attraverso i testi. Senza l’esplorazione di trattati filosofici e teologici, commenti biblici, grammatiche, iscrizioni, poesie, lettere, narrazioni e definizioni enciclopediche il linguaggio di quell’arte rischia di ridursi a semplice impressione estetica o descrizione materiale, perdendo la sua capacità di comunicare. Perfino i dati archeologici o economici non trasmettono informazioni applicabili al contesto culturale senza un tessuto testuale che li metta in connessione e dia loro il senso che presumibilmente avevano, all’epoca, in primo luogo per gli enti e le personalità che commissionarono le opere e ne progettarono il programma iconografico e poi, a cascata, per i suoi fruitori abituali o occasionali.
Quali concezioni dell’arte erano diffuse nel sistema culturale del Medioevo?
Il Medioevo, anzi meglio alcune delle correnti filosofiche più diffuse nell’epoca detta “medievale”, non aveva elaborato un concetto come quello moderno di “arte”, ma si atteneva inizialmente a un’accezione di ars nel senso originario di “tecnica”, dunque di processo di elaborazione dei materiali rispondente a determinate prassi secondo determinate finalità concrete. Il sistema delle arti, prima le sette arti liberali alla base del sistema scolastico, poi la sua estensione al tempo di Ugo di San Vittore (XII secolo), costituiva una forma di organizzazione dell’attività umana e di riflessione sulla gerarchia delle conoscenze e delle professioni, che portò alle definizioni tomistiche di corretta proporzione come esito apicale delle concezioni che oggi chiameremmo “estetiche”. A questo si affianca un’analisi più complessa del concetto di “immagine” come rappresentazione mentale in autori come Agostino o Alcuino di York, che nella fioritura filosofica del XIII secolo, e soprattutto in Roberto Grossatesta, definiscono l’idea alla luce delle teorie, di ascendenza neoplatonica, sul funzionamento della psiche e soprattutto ne analizzano l’applicazione al processo creativo, come avviene ad esempio per l’elaborazione mentale di un progetto architettonico. Ma una ricognizione basata su archivi elettronici ha scoperto passi finora non entrati nel dibattito sul tema, che modificano sensibilmente le nostre conoscenze sull’idea di “arte” nel Medioevo. Nel manuale ho potuto solo farvi qualche cenno, ma spero di poterle sviluppare in altra sede.
Cosa ci rivela il manuale di Teofilo riguardo al processo di autocoscienza dell’artista medievale?
Il manuale di Teofilo, risalente con ogni probabilità al XII secolo, è stato quasi ignorato in Italia fino alla traduzione di Caffaro di pochi anni fa e alle pagine che vi dedica il saggio di Tosatti, ma è oggi al centro, soprattutto in USA e Germania, di nuovi studi non ancora recepiti in Italia, e rappresenta per noi una miniera di informazioni anche sul livello di autocoscienza dell’artista medievale e sulle sue motivazioni, profondamente diverse da quelle più individualiste attestate in epoca umanistica e rinascimentale e comunque già da Giovanni Pisano. La narrazione classica della storia dell’arte è ferma al cliché di Cennino Cennini e dell’Umanesimo come prima epoca di evidenze di una consapevolezza del ruolo sociale dell’artista, ma la lettura di Teofilo è una rivelazione sensazionale che va valorizzata. Nella sua concezione l’artista impiega un dono di Dio che egli non ha il diritto di nascondere e che obbliga lo stesso Teofilo a condividere, come si direbbe oggi, le proprie cognizioni tecniche ”gratuitamente”, secondo la sua espressione, a maggior gloria di Dio ma anche per il progresso della società. In questo contesto l’arte, intesa soprattutto come artigianato artistico, è anche un rimedio contro la tentazione dell’ozio o dell’indolenza e quindi come strumento della salvezza dell’anima: Teofilo colloca questa acquisizione all’interno di una specie di storia dell’uomo, come farà Cennini all’inizio del suo manuale. Stabilisce poi un nesso biblico fra elaborazione teorica e applicazione pratica, sulla base di Ecclesiaste 1, 18 “Chi accresce la scienza accresce il lavoro” e definisce una sorta di colpa nel non voler imparare. Il connubio fra conoscenza intellettuale e pratica manuale è inscindibile e può partire dall’esperienza e dall’osservazione per trovare poi espressione scritta, dunque permanente, a beneficio di tutti, per evitare che le tecniche restino patrimonio di uno solo o della sua scuola in quanto legate ad una trasmissione solo orale. Addirittura difende l’importanza di conferire bellezza alla casa di Dio (dato che artisti come lui lavoravano soprattutto per le chiese), benché sia consapevole che la casa di Dio di cui parlano i Salmi sia in primo luogo quella dell’anima. E definisce prodotto dello Spirito Santo ogni realizzazione artistica, attribuendo così una dignità superiore al lavoro artistico. Anzi, alla fine del terzo prologo, che secondo alcuni potrebbe non essere dello stesso autore, illustra una sorta di eptalogo in cui a ognuno dei sette doni dello Spirito Santo corrisponde un momento o una funzione della creazione artistica. Ma quello che colpisce è il senso del ruolo pubblico dell’artista e la convinzione dell’importanza di una trasmissione non commerciale delle conoscenze, che può apparire anche più avanzata, in termini moderni, delle teorie umanistiche. Ma lascio agli storici dell’arte queste valutazioni.
Quali vicende segnarono il conflitto sul culto delle immagini?
Il conflitto sull’iconoclastia, durato nella sua parte medievale almeno quattro secoli, è la prova nella quale si forgiano le teorie dell’immagine non derivate dalla psicologia platonica o aristotelica ma dal confronto sull’utilità sociale (cioè religiosa in una società permeata dalla religione), delle immagini, sia nel senso di icone di culto sia nel senso di rappresentazioni figurative. È un problema che il cristianesimo condivide con le altre grandi religioni monoteiste perché deriva direttamente dal divieto, più volte espresso dalla Bibbia, non solo di creare idoli ma anche immagini di qualsiasi essere vivente, come sarà negli Hadit del Profeta (anche se non è scritto nel Corano). Il cristianesimo orientale e occidentale se ne emancipa, dopo una lunga contrapposizione con le manifestazioni artistiche della civiltà classica, attraversando scismi, anatemi, concili contrapposti, deposizioni, incarcerazioni, tentativi di assassinio e perfino guerre, in Grecia come nei territori italiani dei bizantini, perché il conflitto diventa occasione di scontro politico ed economico. Ma per sostenerlo, da una parte e dall’altra si sviluppa una riflessione teorica di altissimo livello, che nel libro cerco di riassumere mettendo a disposizione alcuni testi, fra cui sinossi ed estratti dei Libri Carolini dell’VIII secolo finora poco accessibili in italiano, che spero aiutino a capire come si sia arrivati, sul piano teorico, alla “liberalizzazione” iconografica dell’arte occidentale rispetto al pur nobilissimo schematismo di quella bizantina.
Quali forme assumeva il «fantastico» in epoca medievale?
Come ha scritto benissimo Del Corno, “il fantastico medievale è solo la dimensione, o una delle dimensioni, del sovrannaturale, inteso a sua volta come una delle forme del reale”. Per il pensiero medievale dopo Agostino, le forme viventi non-standard rientravano pienamente nel progetto di Dio e dunque non erano assolutamente estranee, anche se un difetto provvisorio di conoscenza poteva farle sembrare tali. Questo autorizza e incentiva la curiosità verso ogni specie vegetale e animale e ogni sembianza umana diverse da quelle abitualmente incontrate in Europa, e conoscibili nei resoconti di viaggio, nelle enciclopedie che ne raccoglievano gli esiti, in avventure esotiche come quelle di Alessandro Magno, nelle raccolte specifiche come bestiari o nei cosiddetti elenchi di “monstra”, cioè di cose prodigiose, esposte con gusto della scoperta e senza preclusioni né prese di distanza. Ma ogni cosa è sottoposta, attraverso il meccanismo dell’allegoria, all’interpretazione spirituale, morale o teologica, che conferisce a qualsiasi oggetto, episodio, personaggio significati ulteriori rispetto a quelli letterali e apparenti. Tutto il mondo di forme anche inquietanti dei capitelli romanici, delle gargouille e delle grottesche gotiche, delle decorazioni nelle miniature o dei bassorilievi sui portali, è debitore a questa impostazione e può essere compreso solo attraverso questi generi letterari.
Quale rilevanza aveva la simbologia biblica e teologica nell’arte medievale?
Questo aspetto, la cosiddetta pansemiosi, cioè la capacità di significazione infinita di ogni elemento del reale, è stato oggetto di insegnamenti di grandi maestri della storia dell’arte medievale come Mâle, Panofski, Grabar o Grodecki, e sul piano filosofico ha trovato in Umberto Eco un grande divulgatore, ma rischia di uscire dalla coscienza comune delle ultime generazioni perché richiede la conoscenza di un patrimonio testuale inesauribile e faticoso da esplorare, specialmente per chi si affaccia a questi studi. Nel Novecento, in reazione alla diffusione di metodi di analisi soprattutto documentari ed economici da una parte, estetizzanti e impressionistici dall’altra, mi pare ci sia stata una forte spinta alla comprensione dei presupposti teologici dell’arte medievale (basati soprattutto sull’esegesi della Bibbia), ma la difficoltà oggettive di acquisire questi presupposti, avvicinabili solo in latino e con strumenti specialistici e facilmente fraintendibili, ha originato negli ultimi decenni una sorta di controreazione che cerca di ridimensionare l’uso della simbologia biblico-teologica come porta di accesso all’arte medievale, spesso col pretesto che i fruitori popolari coevi non ne fossero a conoscenza o vi vedessero altro. Questo approccio, pur creando una distinzione artificiosa fra categorie sociali della fruizione e pur ignorando le mille modalità di circolazione non-scritta del patrimonio simbolico, può aiutare a valorizzare altri approcci interpretativi, ma resta il fatto che senza questi fondamenti è assolutamente impossibile comprendere la scelta e la composizione di molti soggetti di vetrate, miniature, bassorilievi. Nel libro cerco di mostrarlo attraverso esempi come il mosaico di Germigny, incomprensibile senza la lettura dei Libri Carolini¸ o le bellissime vetrate di Saint-Denis, interpretabili solo attraverso la teologia di Dionigi pseudo-Areopagita e soprattutto attraverso i commentari alla Bibbia. In quel caso ne abbiamo prova diretta e inconfutabile nei “diari” di cantiere dell’abate-architetto Sugerio, anch’essi leggibili in italiano solo da pochi anni.
Come si sviluppava l’iconografia politica medievale?
Questa è una domanda cui risponderà con maggiore competenza un storico dell’arte, ma certo la documentazione testuale, compresa quella degli Statuti comunali e relativa legislazione, ci aiuta a documentarne alcuni processi: molto spesso si partiva da una intenzione comunicativa legata a un santo o a un ideale morale o politico, e lo si organizzava in una narrazione di fatti o in una scelta di soggetti che nei casi più importanti, come il Duomo di Pisa o la Cappella degli Scrovegni, era certamente formulata da un intellettuale, quasi sempre di status e formazione ecclesiastiche. Ma sulle scelte influivano molto la tradizione iconografica, anche classica o germanica, le predilezioni stilistiche, i racconti che circolavano, la cui difficoltà di identificazione cerco di esemplificare attraverso celebri affreschi di Giotto sulla storia di Anna e Gioacchino o di Piero della Francesca sulla Vera Croce: in alcuni casi le loro fonti non sono quelle che si sono considerate sicure finora, perché una verifica sui testi, solitamente trascurati o dati per scontati, pone problemi sempre nuovi e suggerisce talora alternative meno conosciute. Per capirlo meglio in forma sistematica occorrerebbe esplorare, tradurre e studiare sul serio i circa diecimila passi letterari, quasi tutti in latino, raccolti fra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento da Knögel, Lehmann-Brockhaus e von Schlosser, e le altre migliaia non ancora reperite nelle fonti. Il modesto assaggio che ho proposto in questo libro, basandomi su mie ricerche testuali ma moltissimo su quanto hanno fatto gli esperti nel recente passato, vuole e può essere solo un sommesso invito ad aprire gli occhi, con strumentazione testuale professionalmente adeguata, su questa dimensione e acquisire coscienza di quanto essa sia necessaria alla comprensione e valorizzazione dell’opera che noi chiamiamo “d’arte” nel contesto sociale e culturale che l’ha generata per comunicare qualcosa che altrimenti rischia di sfuggirci per sempre.
Francesco Stella è Professore Ordinario di Letteratura latina medievale e umanistica e Fonti medievali per il patrimonio culturale presso l’Università di Siena. È membro dell’Academia Europaea e invited visiting scholar a Praga, Princeton, Heidelberg e Strasburgo. Nel 2020 ha pubblicato per Brepols Unconventional Approaches to Medieval Latin Literature. I The Carolingian Revolution; II Quantitative Criticism and Digital Philology.