
In quali forme la Cina ha elaborato storicamente il rapporto fra società e tecnologia?
Prima del XIX Secolo, la Cina ha mantenuto un rapporto molto distaccato con la tecnologia occidentale. La tesi centrale del volume è che in Occidente la matrice cristiana dell’immaginario tecnologico ci ha portati perlomeno dal XVI secolo a imbevere di pregnanza simbolica e immaginifica la nostra tecnologia, cui affidiamo la versione laica (e in certi casi anche quella religiosa) delle nostre speranze di trascendenza individuale. In altre parole, vediamo le macchine, nel bene e nel male, come veicoli con cui possiamo superare i nostri limiti (la locazione; la mortalità; la corporeità; la necessità del lavoro ecc.) e avvicinarci a quella natura primigenia, edenica, che il Cristianesimo ci insegna essere la nostra origine e il nostro punto di arrivo finale. Dal sedicesimo secolo ci raccontiamo quindi che è possibile costruire l’Eden sulla terra attraverso le macchine. In Cina, invece, una tradizione filosofica totalmente differente mantiene le macchine in una posizione subordinata rispetto ad altri fattori – ora la Natura, ora la politica, ora la legge a seconda della tradizione. Questo anche quando il Paese aveva raggiunto un livello notevole di automazione – per i tempi – di processi produttivi e agricoli, usando tecnologie idrauliche, diversi secoli prima della Rivoluzione Industriale in occidente. Tuttavia, è mancato quello scarto – che nel libro io riconduco a Francesco Bacone, fra gli altri – che ci ha condotti a immaginare la nostra salvezza legata allo sviluppo delle nostre macchine. Tutta la mitologia tecnologica della nostra cultura – incarnata da molta della nostra fantascienza, ad esempio – può essere ricondotta a questo: il terrore e la meraviglia che produce in noi l’idea che la macchina possa trascendere l’umano. Niente di questo è stato presente in Cina fino al trauma del Secolo dell’Umiliazione (1849-1949), che ha sparigliato tutte le carte e messo il Paese sul binario in cui è ancora oggi.
Da dove trae origine l’immaginario tecnologico cinese?
Una delle tesi portanti del volume è che l’immaginario tecnologico cinese contemporaneo abbia le sue radici ben salde nel trauma del Secolo dell’Umiliazione, ossia di quel periodo fra il 1848 e il 1949 in cui la Cina ha attraversato uno dei periodi più tragici della sua storia: sconfitta dalle potenze occidentali nelle Guerre dell’Oppio e dai suoi vicini giapponesi nelle guerre Sino-Giapponesi, con la propria integrità territoriale, politica e istituzionale fatta a pezzi, poi in preda a una sanguinosa guerra civile. Trattata come un Paese sottosviluppato dal resto del mondo, la Cina ha iniziato a guardare alla tecnologia e allo sviluppo tecnologico come chiave per riacquistare il proprio ruolo nel mondo. L’apparente fallimento del confucianesimo nel dare forma a una società all’altezza della sfida lanciata dal resto del mondo ha creato uno spazio riempito fin dal XIX secolo da scienza e la tecnologia. Oggi osserviamo il Paese animato da un misto di marxismo-leninismo, confucianesimo, nazionalismo e scientismo, ciascuno con presa diversa su livelli diversi della popolazione. Ma la matrice resta la volontà di una rinascita nazionale, che è anche la spinta modellatrice principale dell’immaginario tecnologico. L’idea della trascendenza individuale, invece centrale nel nostro immaginario tecnologico, è molto meno centrale in quello della Repubblica Popolare.
Come si è articolato lo sviluppo informatico in Cina?
Mi limiterò qui a dare alcune indicazioni molto generali, rimandando al libro per la loro esplorazione puntuale. La storia dell’informatica in Cina prende le mosse sostanzialmente alla fine degli anni ‘50 dalla collaborazione sino-sovietica, con l’informatica sovietica – orientata allo sviluppo di grandi macchine da calcolo ad uso ingegneristico e militare – a fare da traino tanto sotto il profilo concettuale che quello di trasferimento tecnologico. La rottura del rapporto con Mosca avviene nel 1961; al ritiro degli esperti russi si combina un sostanziale embargo tecnologico, due fattori che obbligano la Cina a tentare forme indigene di sviluppo informatico. Sebbene interessanti e coraggiosi, i tentativi di sviluppo cinesi nondimeno restano molto indietro rispetto all’evoluzione globale delle macchine da calcolo. La Rivoluzione culturale ha poi dato un ulteriore colpo allo sviluppo informatico cinese, con la chiusura di scuole e università. Solo con Deng l’informatica tornerà al centro della riflessione cinese, spostandosi dalle grandi macchine da calcolo alla diffusione dei microcomputer, e poi all’informatica reticolare. Deng e i suoi epigoni portano avanti fino agli anni ’90 una politica di leapfrogging, per cui la Cina cerca di saltare le fasi attraversate dagli altri Paesi posizionandosi direttamente nelle posizioni più avanzate. Una volta risolto il problema dell’input della propria scrittura, un’altra questione problematica che la Cina ha dovuto affrontare sin dal primo XX secolo sviluppando macchine da scrivere, lo sviluppo dell’informatica personale ha potuto accelerare nella Repubblica Popolare in maniera considerevole; ultimamente stanno emergendo tutta una serie di rapporti interessanti in questo senso, ad esempio l’acquisto da parte della Repubblica Popolare di personal computer basati sul processore Z80 prodotti nella Romania di Ceausescu. Con la metà degli anni ’90 la priorità diventano le infrastrutture telematiche, e anche qui la spinta è sostanzialmente istituzionale, con alcuni “Progetti d’Oro” – relativi al cablaggio, ai pagamenti, al controllo ecc. – che diventano obbiettivi politici, peraltro puntualmente perseguiti. Da lì inizia a prendere forma quell’insieme di infrastrutture e pratiche che hanno dato forma a quello che è oggi il più ampio mercato nazionale di utenti Internet, attualmente intorno ai 900 milioni di persone. In sostanza, lo sviluppo informatico in Cina si è articolato intorno a una spinta propulsiva istituzionale fortissima, che continua ancora oggi.
Quale ruolo riveste oggi la Rete in Cina?
La risposta a questa domanda è necessariamente multidimensionale. Mi soffermerò solo alcune facce di due aspetti: economico e politico. Da un punto di vista politico/economico, la Rete rappresenta oggi uno dei volani dello sviluppo cinese; fin dagli anni ’90 le élite hanno fortemente supportato lo sviluppo dell’e-commerce e dei pagamenti elettronici – due ambiti in cui la velocità di sviluppo della Repubblica Popolare ha superato ogni previsione, fra cui quelle, totalmente sbagliate, che volevano – abbiamo già accennato a questo – la “cultura cinese” (specificamente, nella forma l’affezione per il contante, la debolezza della sicurezza delle infrastrutture di pagamento, e la supposta centralità del rapporto personale con il venditore) come incompatibile con l’e-commerce. Queste previsioni venivano in realtà sulla scorta dei fallimenti di alcuni big player occidentali – in particolare eBay – nella penetrazione di quel mercato. In barba a questo genere di speculazioni, nel giro di pochi anni, la Cina ha invece invece completamente rivoluzionato la propria cultura dei pagamenti e degli acquisti. Oggi in Cina è sostanzialmente possibile pagare qualsiasi transazione per via elettronica, usando il proprio telefono cellulare.
Perché le élite hanno così investito nell’e-commerce? Possiamo individuare almeno due buoni motivi: una stretta fiscale, in un Paese in cui il fisco non è mai stato molto esigente, soprattutto con la classe media; in seconda battuta, la possibilità di sviluppo offerta dalla distribuzione online ad alcune zone del Paese: sono da manuale i casi dei “villaggi Taobao”, in cui la maggior parte dell’economia locale è orientata a vendere prodotti, per l’appunto, su Taobao. La Rete consente la circolazione dei beni su un’estensione territoriale enorme e profondamente diseguale come quella cinese, un obbiettivo che le élite avevano sempre bene in mente. Al di là della distribuzione delle merci, la Rete sta giocando anche un ruolo importante in settori più avanzati dell’IT: man mano che la data-driven economy diventa rilevante. La Cina possiede un vantaggio enorme nell’addestramento di alcuni tipi di algoritmi di machine learning, per via della facilità di accesso alle gigantesche masse di dati prodotte dai 900 milioni di utenti Internet del proprio mercato interno (senza contare quelli esterni).
Questo per quello che riguarda l’economia. C’è poi il coté politico. Non voglio parlare qui del tema del controllo della Rete – che è vasto e capillare, e le cui origini sono comunque discusse nel volume. Voglio invece sottolineare qui come la Rete rappresenti oggi il principale punto di contatto fra le istituzioni e la popolazione. Tuttavia, tale non va inteso solamente in chiave monodirezionale, come strumento di propaganda – come fanno molte letture riduzioniste occidentali. Le istituzioni centrali della Repubblica Popolare hanno invece investito parecchio nell’ultimo decennio molte risorse per articolare un canale di ritorno, che consenta un dialogo fra i cittadini e le istituzioni – soprattutto locali. Tutte le misure di “partecipazione” articolate sostanzialmente dal 2008 in avanti vanno in questa direzione. Ad esempio, ogni ufficio pubblico in Cina deve avere un account su Weibo con il quale comunicare con i propri cittadini – i quali per parte loro si fanno molto meno scrupolo di quanto si immagini in Occidente nel lamentarsi online. Allo stesso modo, la Cina articola soprattutto attraverso la rete è uno dei più vasti programmi di trasparenza ambientale del pianeta; non solo enormi masse di dati ambientali, fra cui le emissioni dei principali inquinanti, sono rilasciati online con cadenza oraria (o bioraria); ma ogni provvedimento disciplinare preso contro fabbriche o attività commerciale viene pubblicato online. È importante osservare quindi la multidimensionalità del rapporto fra la politica e la rete in un paese con una vasta differenziazione territoriale istituzionale è una tradizione di decentralizzazione rilevante come la Cina questo tipo di infrastruttura consente anche una più puntuale pressione del governo centrale rispetto ai centri di potere locali – siano essi i governi provinciali, le municipalità più importanti, o grosse aziende pubbliche o private. Questo problema del rapporto centro/periferia è una costante in Cina da millenni, e si muove continuamente da fasi di accentramento, in cui Pechino acquisisce potere (ad esempio Mao, ora Xi) a fasi di decentralizzazione in cui acquisiscono potere i territori (da Deng a Hu). La Rete, attraverso le misure di “trasparenza”, sta iniziando a giocare un ruolo importante nel consentire al centro di lasciare libertà economica alle località mantenendo però alcune forme di controllo politico. Ciò ha giocato un ruolo importante ad esempio nelle nuove politiche ambientali, rispetto alle quali il governo centrale sta riuscendo a far allineare i poteri locali ai propri obbiettivi in maniera molto più efficace del passato.
Come è destinata a evolvere, a Suo avviso, la tecnologia cinese?
Difficilissimo dare una risposta a una domanda così generica, e non sono molto bravo nel fare previsioni su temi così ampi. Posso però, anche qui, identificare alcuni fenomeni interessanti. Ad esempio, dal punto di vista dell’elettronica di consumo siamo passati nel giro di pochissimo tempo a una presenza sul mercato consumer di marchi orgogliosamente cinesi – Huawei, Xiaomi nella telefonia ad esempio; Lenovo nell’informatica desktop – e questa mi pare una traiettoria destinata ad intensificarsi nel tempo, man mano sale la qualità dell’output del Paese. Le recenti guerre commerciali degli USA contro TikTok e Huawei vanno lette dentro questa cornice: la Cina è passata nel giro di pochissimo dall’importare brand IT ad esportarli, e la crucialità delle economie che sono legate a tali marchi rende molto nervosi i governi di diversi Paesi. L’esportazione di IT cinese, con marchio cinese, rappresenta anche simbolicamente un importante traguardo per il Paese, che non solo ha recuperato il ritardo che nel libro viene esaminato ma si trova ora a competere ad armi sostanzialmente pari con aziende occidentali con tradizioni molto più antiche in quel settore. Il nazionalismo tecnologico cinese è qualcosa che finora è stato sostanzialmente rivolto all’interno del Paese, in chiave rafforzativa; sarà molto interessante osservare se e come si tenterà un suo export nel futuro.
Dal punto di vista dei temi più vicini agli assi portanti del volume, ossia lo studio degli immaginari, invece, resta da vedere quando la Cina riterrà di aver effettivamente ripreso il posto che ritiene le competa nella geopolitica mondiale: quello di superpotenza fra le superpotenze. Se mai arriveremo a quel punto – se cioè la Cina abbandonerà la narrativa del Paese umiliato che lotta per la propria rinascita – una importantissima spinta propulsiva dello sviluppo tecnologico verrà a mancare. Può darsi che essa venga progressivamente sostituita dall’orgoglio nazionalista – come avviene negli Stati Uniti – che però ha infinitamente meno forza. Vedremo quindi se il Paese entrerà in una fase di rallentamento tecnologico come quella che ha caratterizzato il suo sviluppo fra il XVI e il XX secolo. Ammesso che un processo del genere sia visibile nello spazio della mia vita, tenderei tuttavia a non scommetterci.
Matteo Tarantino insegna Media e Reti Sociali, Sistemi dell’Informazione e della Comunicazione e Media e Reti Digitali presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore