“Il suicidio. Eziopatologia, valutazione del rischio e prevenzione” di Stefano Callipo

Dott. Stefano Callipo, Lei è autore del libro Il suicidio. Eziopatologia, valutazione del rischio e prevenzione pubblicato da FrancoAngeli: quali pregiudizi e falsi miti allignano su suicidio e tentato suicidio?
Il suicidio. Eziopatologia, valutazione del rischio e prevenzione, Stefano CallipoIn Italia il fenomeno suicidario è ancora troppo poco conosciuto. Pochi sanno che tale fenomeno ogni anno nel mondo miete circa un milione di vittime, un suicidio ogni 40 secondi, e di questi circa 100mila sono adolescenti, e in Italia con le sue circa 4mila vittime costituisce una delle prime cause di morte nella fascia di età tra i 15 e i 25 anni. Il fenomeno suicidio ha quindi confini epidemiologici piuttosto inquietanti. Ci si chiede allora perché non se ne parla? La parola suicidio ancora oggi in Italia fa paura. Se pensiamo che è ancora forte lo stigma sociale per le persone che direttamente o indirettamente ne sono coinvolte. Se ne sa forse ancora troppo poco. Non dimentichiamo che il suicidio non affonda le radici soltanto nel contesto psicologico, ma anche in quello psichiatrico, sociale, culturale, biologico, genetico, per comprenderlo quindi necessita di una lente interpretativa multifocale. Ecco la scelta di pubblicare un libro che raccogliesse da un lato quanto la scienza suicidologica mette in campo – per chi non lo sapesse la suicidologia è una vera e propria scienza – ma anche strumenti idonei per comprendere la mente suicida. Un libro non rivolto soltanto ai professionisti del settore, ma a tutti coloro che vogliono entrare dentro il fenomeno per capire gli aspetti più profondi. Un libro rivolto anche ai cosiddetti “Altri significativi” ovvero i survivors, i parenti e gli amici del soggetto suicidato o suicidario.

In centinaia di congressi a cui ho partecipato o organizzato, sia come professionista sia come presidente dell’Osservatorio Violenza e Suicidio, ho ricevuto molte domande, dalle quali ho capito quanti falsi miti aleggiano intorno al fenomeno suicidario. E di quanto imbarazzo o inibizione c’è nella gente nel volgere delle domande. Le faccio un esempio di quanto ho sperimentato in prima persona. Mi trovavo nella meravigliosa cornice rinascimentale del Palazzo Strozzi a Firenze in un congresso chiamato per fare un intervento sul rischio suicidario. Finito il mio intervento è stato chiesto, per chi volesse, di volgermi domande. Ebbene poche persone hanno alzato la mano per rivolgermi quesiti. Dopo aver concluso la prima parte del mio intervento, prima di riprendere i lavori ho deciso di scendere al piano di sotto, nella pausa prevista, per andare alle toilette. Ho trovato lì ad aspettarmi numerose persone per volgermi una serie di domande, molte relative ad esperienze della propria vita. Questo per farle capire di quanto sia forte il tabù anche in questo aspetto.

Un’azione importante da fare, per noi professionisti del settore, è quindi cercare di combattere i falsi miti e i pregiudizi sul suicidio. Nella mia attività professionale e personale – il cui confine a volte è difficile da distinguere – ne ho constatati molti, alcuni dei quali li ho riportati nel testo. Uno di questi è: chi si suicida ha un disturbo di personalità o depresso? In realtà non tutti coloro che si suicidano hanno disturbi di personalità, i soggetti psichiatrici suicidari si aggirano intorno al 30% circa. Quanto alla depressione, molte persone che si sono suicidate erano depresse ma non tutti i depressi tentano il suicidio. Altro falso mito: chi si suicida non lascia supporre il proprio intento di suicidarsi. In realtà non esiste alcuna evidenza scientifica a supporto di tale tesi in gran parte dei soggetti, al contrario studi scientifici dimostrano che la maggior parte de soggetti che compiono l’estremo gesto lanciano dei segnali comunicando il proprio intento. Tali segnali possono essere verbali, diretti e comportamentali. Altro falso mito. Se qualcuno vuole suicidarsi non è possibile fermarlo. In realtà in gran parte dei soggetti che vogliono suicidarsi soggiace la speranza di essere salvati, una sorte di pendolo esistenziale dove il desiderio di morire si accompagna a quello di essere salvati. A volte saper cogliere pienamente tale pendolo può significare la differenza tra la vita e la morte.

Quali fattori determinano il rischio suicidario?
Nel rischio suicidario molte variabili entrano in gioco, dai fattori predisponenti, come il contesto familiare, l’isolamento, le caratteristiche cognitive del soggetto, i precedenti tentativi di suicidio, i disturbi psichiatrici, la sessualità, la violenza subìta, abuso di alcol e stupefacenti, e dai fattori precipitanti come molestie sessuali ai danni del soggetto di genere femminile, perdita di un caro come un genitore o un figlio, la rottura con il proprio partner, il licenziamento dal proprio posto di lavoro o il fallimento dell’impresa in cui si lavora, violenza assistita e/o violenza intrafamiliare. Come vede le variabili coinvolte non sono poche. Comprendendo tali fattori allora si comincia a capire che quando noi leggiamo sulle pagine dei giornali di un ragazzo che si è lanciato dal balcone per un brutto voto a scuola oppure di un uomo licenziato che si spara – per fare degli esempi – che il brutto voto a scuola piuttosto che il licenziamento non sono in realtà la vera e unica causa del gesto suicidario ma costituiscono l’evento precipitante di una situazione che si è costruita nel tempo. Nell’indagine del contesto del soggetto suicidario o suicidato (nel qual caso parliamo di autopsia psicologica, a cui ho dedicato parte di un capitolo, con la quale si ricostruiscono tutti quegli aspetti che hanno portato il soggetto a suicidarsi, attraverso delle tecniche strutturate) nulla deve essere trascurato. In tal senso non è raro scoprire una vera e propria “carriera suicidaria” nella quale a volte trovare apparenti incidenti che in realtà possono essere tentativi precedenti, o altro.

Cos’è l’effetto Werther?
Chi utilizza spesso i social o chi è spesso a contatto con adolescenti sa bene cosa significhi il processo emulativo, molto più frequente di quanti si immagina. Nel fenomeno suicidario esiste un particolare effetto emulativo, definito “Effetto Werther”. Il nome di tale processo si ispira al titolo del romanzo di Goethe I dolori del giovane Werther, un ragazzo che vive un forte tormento mentale per un amore non corrisposto. Per interrompere tale tormento decide di suicidarsi. Quando il romanzo fu pubblicato, nella seconda metà del settecento, in tutta Europa si verificò una serie di suicidi ad opera di uomini e di ragazzi, e sembra che alcuni di questi prima di suicidarsi si fossero persino vestiti come il giovane Werther. Tale epidemia di suicidi fu talmente vasta e incontrollata che in alcuni paesi fu proibita la divulgazione del romanzo e in alcuni casi furono addirittura ritirate le copie in commercio. Questo ci fa capire come in tali processi il ruolo emulativo sia importante. Anche oggi è importante diffondere in modo corretto le notizie di casi di suicidi, basti pensare che negli Stati Uniti sono state pubblicate delle linee guida per i media per la pubblicazione delle notizie di suicidi. In Italia siamo ancora ben lontani.

Quali dinamiche accompagnano il suicidio negli adulti e negli adolescenti?
Non è un caso che gran parte degli studi sul suicidio si concentrino sulla fascia di età adolescenziale, tale aspetto può essere dato perché spesso forme di grave malessere di un adulto possono avere origini in età evolutive precedenti. Ecco perché gli adolescenti costituiscono un campo prezioso su cui porre il focus attentivo. Nelle assunzioni di condotte suicidarie esiste una differenza tra adulto e adolescente. Le condotte suicidarie adulte tendono ad esprimere un’intenzionalità suicidaria più forte, privilegiando un metodo più letale – non a caso l’intenzionalità suicidaria può essere correlata alla scelta del metodo, tranne le realtà carcerarie – per fare un esempio l’arma da fuoco o precipitazione da grandi altezze. Gli adulti tendono a fare, per questi stessi motivi, meno tentativi rispetto agli adolescenti.

È possibile prevenire il suicidio?
Questa domanda permette di entrare proprio nel cuore pulsante del fenomeno suicidario. L’importanza dell’azione preventiva costituisce uno degli strumenti più efficaci per combattere il suicidio e il rischio suicidario. Con una corretta opera di prevenzione infatti molti suicidi possono essere evitati e molte vite salvate. Prevenzione non significa soltanto individuare i fattori di rischio e agire su essi ma significa porre in essere una serie di azioni che agiscano a monte cercando di evitare che il soggetto inizi a strutturare un’idea suicidaria o metta in atto un gesto impulsivo. Per questo la prevenzione del rischio suicidario deve agire su tre livelli, quello della prevenzione primaria, secondaria (che agisce sui soggetti che hanno già manifestato condotte suicidarie o parasuicidarie o che hanno già in qualche modo comunicato l’intenzionalità suicidaria) e quella terziaria, chiamata anche post-intervento.

Come si valuta il rischio suicidario?
La valutazione del rischio suicidario è una complessa operazione per la quale non si tratta soltanto di comprendere se un individuo presenta un rischio suicidario imminente, ma anche porre in essere una serie di valutazioni altamente strutturate che vanno dalla delicata fase anamnestica, ovvero il colloquio clinico, all’uso di un assessment specifico e l’utilizzo di altri strumenti volti alla raccolta sistematica di informazioni che vengono poi elaborate. Si tratta di un protocollo che permette allo psicoterapeuta o al professionista del settore di sistemizzare tali informazioni relative agli indicatori di rischio. Ovviamente tali dati andranno ad essere collocati in un contesto più ampio dove tutti gli indici raccolti saranno correlati e elaborati. Tra gli aspetti più importanti considerati nella valutazione del rischio suicidio di un individuo, più ancora dei test o strumenti di raccolta vi è la storia della persona in osservazione. La storia di un individuo ci dice tanto, perché l’uomo è oggettivamente definito “unico ed irripetibile”, così come sarà unica e irripetibile la storia di vita di ognuno di noi.

Il libro offre supporto anche ai cosiddetti “altri significativi”, familiari e amici delle vittime: come è possibile combattere lo stigma sociale e superare il dolore?
Quando chiesi di scrivere la prefazione al mio caro amico Prof. Domenico Chindemi, Magistrato e Presidente di Sezione della Suprema Corte di Cassazione, uno dei massimi esperti del diritto sanitario e del danno alla persona, con cui ci conosciamo da anni, non mi stupii quando, terminato di leggere il testo da me scritto, mi disse: “Stefano il libro che hai scritto è in realtà un inno alla vita.” Gli risposi: “Mimmo hai centrato esattamente il vero focus del libro. La vera essenza del suicidio è infatti esistenziale. Hai colto esattamente dove voglio portare il lettore. A riscoprire la vita”.

E se di vita si parla, ruolo importante, come già accennato all’inizio dell’intervista, è quello degli Altri significativi, un termine da me coniato per meglio esprimere la condizione e il ruolo dei parenti e amici del soggetto suicidato o suicidario. Il loro è un ruolo fortemente emotigeno, difficile e molto doloroso, costernato di emozioni contrastanti, dalla rabbia all’angoscia, alla tristezza, e sono anche chiamati ad elaborare un lutto che ha caratteristiche specifiche, più difficile da elaborare. Molti altri significativi continuano a covare per molto tempo rancore, sentimenti intrusivi di rabbia, sentimenti talmente egodistonici da mettere la persona stessa a volte a rischio suicidario. Sono figure preziose per le cosiddette autopsie psicologiche, perché con le loro interviste strutturate possiamo ricostruire aspetti e variabili che hanno portato l’individuo a suicidarsi. Sono persone che possono trascorrere il resto della loro vita a porsi domande a cui non troveranno mai risposte. Sono soggetti che hanno bisogno di un accompagnamento terapeutico che ridia senso alla loro vita, processo spesso non facile. Ricordo ancora lo sguardo di una mamma, uno sguardo forte e profondo che mi penetra dentro, che mi disse: “Dottore ma una mamma senza più una figlia che senso ha più per campare?” sono i momenti più forti e intensi della mia attività professionale.

Per comprendere ciò che vive nella mente di un soggetto suicidario è importante sapere che chi vuole suicidarsi non desidera la morte bensì fuggire dalla vita, allontanarsi e interrompere quel dolore mentale che non è più in grado di sopportare. Un dolore mentale così forte non permette al soggetto di prendere in considerazione alternative di fuga dal dolore se non quella del suicidio, riesce a vedere nel suo campo visivo soltanto quella e unica via di fuga. Un vero e proprio restringimento della capacità di generare alternative. Il lavoro che svolgiamo intende allentare il dolore mentale che attanaglia l’individuo, restituendogli la capacità di generare e valutare altre alternative, vere e salutotrope. Un lavoro impegnativo per il quale non si può correre il rischio di sbagliare, come in un’operazione a cuore aperto. Ecco perché i professionisti che si occupano del rischio suicidario devono avere una specifica preparazione. Dobbiamo sempre considerare che dietro una sofferenza mentale di una persona ve ne sono molte altre in gioco, quelle del suo contesto. Il libro “Il Suicidio”, edito dalla Franco Angeli, uscito da pochi giorni, fornisce strumenti e stimoli utili per dare senso alla propria vita, si tratta appunto di un vero e proprio inno alla vita, come ha saggiamente colto Domenico Chindemi.

Stefano Callipo è Presidente dell’Osservatorio Violenza e Suicidio, Psicologo Clinico, Giuridico e Psicoterapeuta ad approccio strategico. È docente della scuola dell’Accademia di Psicoterapia Psicoanalitica (SAPP) e in diversi istituti di formazione clinica e criminologica. È responsabile della Linea di Prevenzione del Rischio Suicidario della Cassa di Assistenza Sanitaria Integrativa (Sanimpresa). Il dott. Callipo è un volto noto in diverse trasmissioni televisive RAI UNO (La Vita in Diretta, Uno Mattina, Storie Italiane e altre), RAI DUE e Mediaset (Mattino 5). È autore di diverse pubblicazioni, diversi articoli in quotidiani nazionali e riviste. Tra le pubblicazioni: La valutazione del rischio suicidio in età adolescenziale in Il Suicidio in adolescenza (a cura di Formella e De Filippo 2011), La valutazione del rischio suicidario (2013), Violenza sulla donna e rischio suicidario in All’ombra di Caino (a cura di Cerrato e Nazio 2017), Prefazione in L’ago della bilancia (di Perna 2018), Prefazione in Philophobia e Philoterapia (di Veneruso 2019), Crisi e rischio suicidio nel mondo del lavoro (2013).

ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER
Non perderti le novità!
Mi iscrivo
Niente spam, promesso! Potrai comunque cancellarti in qualsiasi momento.
close-link