
di Boris Johnson
traduzione di Elisabetta Zoni
Garzanti
Pochi sanno che il Primo ministro britannico Boris Johnson è un classicista, materia nella quale si è laureato a Oxford con una tesi in storia antica. Ed è curioso che il campione della Brexit, nel suo libro Il sogno di Roma, edito da Garzanti, si interroghi proprio su come poterono popoli diversi «condividere una comune identità europea, quella romana, mentre per noi, oggi, questo obiettivo appare tanto difficile da raggiungere». Il libro, infatti è, a detta dell’Autore stesso, un tentativo di spiegare come i romani riuscissero a gestire le nazioni e i popoli che conquistavano: «Come poterono i romani creare questa sbalorditiva omogeneità, e pluribus unum? Quale lezione possiamo trarne? E perché, alla fine, è crollato tutto?»
Con uno stile vivace e provocatorio, pari a quello cui ci ha abituati da politico, Johnson ripercorre alcuni degli eventi più significativi della storia romana, rileggendoli in chiave moderna: così è, ad esempio, per la catastrofe di Teutoburgo, la clades variana, che costò la vita a forse 30.000 fra uomini, donne e bambini: «La catastrofe variana rappresentò una svolta nella storia mondiale: dopo il massacro nella foresta, i romani non tentarono mai più di colonizzare il territorio germanico oltre il Reno.»
Scrive Johnson: «Possiamo solo speculare sulle incalcolabili conseguenze della decisione di Roma di non spingersi oltre. Proviamo a immaginare come sarebbe oggi l’Europa se Tiberio avesse invece deciso di colonizzare la Germania fino all’Elba […]. Non sarebbe esistita la nazione tedesca, o almeno i suoi abitanti non avrebbero l’aspetto che hanno oggi, né utilizzerebbero la stessa lingua. I popoli della Germania oggi parlerebbero un idioma romanzo, proprio come quelli della Gallia e dell’Iberia. […] Non avremmo quindi, all’interno dell’Unione europea, quella profonda frattura culturale fra chi cucina con il burro e chi con l’olio d’oliva, fra chi beve birra e chi vino. […] Ma soprattutto, se le legioni avessero varcato il Reno, il fiume non avrebbe avuto un ruolo così tragico nella storia del nostro continente, e non sarebbe stato teatro di orribili massacri fra germanofoni e francesi. […] È proprio a causa di quei massacri che siamo tuttora impegnati nella grande impresa che è l’Unione europea, il cui scopo dichiarato, nel 1957, era che Francia e Germania si legassero indissolubilmente, tanto da non entrare mai più in guerra».
Il politico britannico non ha dubbi: «Roma è come uno specchio lontano in cui cerchiamo di rifletterci, confermando così il nostro status di successori.» E aggiunge: «l’idea di Roma è ancora lì, nell’inconscio della nostra civiltà occidentale. […] Si tratta, credo, di ciò che Jung definirebbe archetipo, una memoria collettiva sepolta di ciò che il nostro continente fu un tempo, e dei risultati eccezionali che i romani raggiunsero nella costruzione dell’unità, della prosperità e della pace per quasi 400 anni.»
L’Autore adduce numerosi esempi dell’influenza esercitata da Roma sulla storia successiva: si pensi al titolo che da sempre ha contrassegnato l’esercizio del potere, quello di Cesare, divenuto zar per il monarca russo e kaiser per l’imperatore tedesco. O si pensi alle aquile, alle colonne e agli archi cui da sempre il Potere ricorre per celebrare e raffigurare se stesso. L’aquila è diventata uccello simbolo del militarismo romano: «È l’uccello di Giove, la mascotte ideale per le legioni di Roma». Carlo Magno aveva le sue aquile così come gli zar: «Avevano due teste, una rivolta a est, l’altra a ovest. Il kaiser scelse una grande aquila nera dal becco rosso. Hitler aveva la sua versione nazista dell’Adler, e il giorno stabilito per l’invasione della Gran Bretagna portava, ovviamente, il nome in codice Adlertag, giorno dell’aquila.»
Osserva in maniera illuminante Johnson: «L’aquila è simbolo di forza e di un destino che si manifesta nella storia, e oggi è rimasto un solo paese che abbia ancora il fegato di mettere un uccello così aggressivo sul proprio emblema nazionale. Se vi recate a una conferenza stampa dell’uomo più potente del mondo, e il vostro sguardo cade sullo stemma che si trova sul suo leggio, non vi stupirete di vedere l’aquila di mare testabianca, una specie prettamente americana, che ghermisce i fulmini di Zeus/Giove con i suoi artigli. In questo caso il simbolo è appropriato: gli Stati Uniti sono di gran lunga la nazione più forte della Terra […]. Nell’eterna translatio imperii della storia, […] gli USA sono i nuovi eredi di Roma».
Il segreto della forza di Roma risiede nell’integrazione dei popoli conquistati che essa seppe promuovere. Johnson ne offre un esempio davvero significativo: l’anfiteatro di Lione, costruito intorno al 19 d.C., fu «inaugurato da un pezzo grosso locale, di nome Gaio Giulio Rufo […]. Bene, provate a ripetere questo nome, gustatene il sapore: Gaio Giulio Rufo. Non potrebbe essere più romano, vero? Suo padre, però, si chiamava Gaio Giulio Catuaneunio, e suo nonno Gaio Giulio Agedemopas. Il nome del suo bisnonno era Epotsorovido.»
E conclude: «Una delle ragioni per cui il sistema romano funzionò così bene e così a lungo è che le razze e le religioni diverse erano oggetto di curiosità e di rispetto, non di paranoie. Questo è un sogno che vale la pena riportare in vita.»