
Questa partecipazione alla Resistenza è stata condizionata dalle differenti vicende politico-militari. Nei paesi occupati dalla Germania nei quali era rimasta una rappresentanza legittima dello Stato, i cattolici tesero a confondersi all’interno delle istituzioni clandestine o patriottiche. È il caso della Polonia (che mantenne un governo in esilio e creò robuste istituzioni clandestine in patria), ma anche del Belgio o dei Paesi Bassi. Anche in questi paesi la presenza di un governo esule a Londra offrì la possibilità ai cattolici di agire – spesso in quanto militari – nei servizi informativi, di spionaggio o nelle reti di salvataggio dei piloti alleati abbattuti nei cieli europei. Il legame con la Gran Bretagna fu assai forte.
Diverso fu il caso della Francia, dove la costituzione della repubblica di Vichy sotto la guida di Pétain creò non pochi problemi di coscienza ai resistenti cattolici. Infatti, l’episcopato e il clero, oltre che alla maggioranza dei fedeli, applaudirono Pétain per il suo programma di rigenerazione morale e di rilancio della triade “lavoro, famiglia, patria”. I cattolici democratici e antinazisti dovettero così impegnarsi anzitutto per fermare lo scivolamento autoritario della Chiesa; al tempo stesso si confrontarono con l’autoproclamata leadership di de Gaulle.
Naturalmente, ovunque, pesarono le diverse cronologie e le diverse modalità dell’occupazione nazista. I tedeschi, infatti, si comportarono utilizzando sempre i propri criteri razzisti, in base ai quali i danesi e gli olandesi o anche i fiamminghi erano razzialmente simili ai tedeschi e perciò da trattare “bene” (a patto che non esprimessero forme di opposizione, beninteso!), mentre i polacchi, i russi e gli salvi in genere erano “Unteruntermenschen” (“Sottosottouomini”) da disprezzare e calpestare impunemente.
I cattolici (attenzione: non tutti, ma comunque una parte significativa) parteciparono alla Resistenza nelle diverse forme note: furono cioè presenti nella lotta armata vera e propria, nei servizi di informazione e di spionaggio, nella raccolta e custodia di armi, oltre che in tutte le forme di Resistenza disarmata, per il soccorso dei perseguitati, degli ebrei o di chiunque fosse in pericolo. In varie situazioni essi coltivarono anche una Resistenza di tipo morale e culturale, attraverso la stampa e la diffusione di idee avverse all’occupante e alla sua ideologia pagana.
Il Suo studio contrasta la tentazione ricorrente di applicare ai cattolici di allora le categorie odierne, come il pacifismo o l’obiezione di coscienza: che rapporto esisteva tra cattolici, fede religiosa e ricorso alla violenza?
Sì, il mio libro si inserisce nell’alveo di riflessioni che anche altri stanno conducendo. Mi riferisco in particolare ai recentissimi libri di Alessandro Santagata (Una violenza “incolpevole”. Retoriche e pratiche dei cattolici nella Resistenza veneta, Viella, 2021) e di Lucia Ceci (La fede armata. Cattolici e violenza politica nel Novecento, Il Mulino, 2022). Quel che ci accomuna è l’insoddisfazione per una storiografia (e anche per un sentire comune diffuso) che applica acriticamente le categorie di pensiero attuali al passato. Si tratta di una tentazione permanente, in base alla quale noi vorremmo che i protagonisti di un tempo agissero secondo i nostri schemi. Essi, invece, avevano i propri, di schemi!
Nel caso specifico, oggi ci piace immaginare i cattolici del 1939-1945 come dei buoni samaritani, chini sulle ferite dell’umanità, tendenzialmente pacifisti ed estranei all’uso delle armi. Ma non era così! Essi – in Italia e ovunque – erano stati educati secondo i criteri tradizionali della “guerra giusta” e dell’obbedienza alle legittime autorità. Era naturale pensare che il soldato cattolico non fosse colpevole, se anche sparava e uccideva, in quanto privo di ogni responsabilità, che ricadeva invece sui governanti. Su questi argomenti ha scritto delle pagine importanti Francesco Piva (Uccidere senza odio. Pedagogia di guerra della Gioventù Cattolica italiana. 1868-1943, FrancoAngeli, 2015).
Di più: la Grande Guerra del 1914-1918 aveva spinto in tutta Europa a identificare la causa della propria patria con quella della fede. Ovunque i vescovi avevano benedetto le armi! Il crescente nazionalismo (acritico) dei cattolici è stato una delle piaghe della Chiesa del Novecento. Ecco perché l’obiezione di coscienza non esisteva: anzi, il magistero, ancora fino al Vaticano II, condannerà l’obiezione di coscienza come scelta soggettiva e, in qualche modo, egoistica.
Dunque, in quanto all’uso delle armi non esistevano troppe remore, in giro per l’Europa. Il vero problema era un altro, ovvero quello dell’autorità legittima che dava l’ordine di sparare o di compiere sabotaggi. Ciò valeva soprattutto per la Francia e per l’Italia.
In Francia, come ho detto, il regime di Vichy aveva l’appoggio della Chiesa e perciò intraprendere la strada della Resistenza (armata o disarmata che fosse) implicava scontrarsi non solo con i tedeschi ma pure con un regime “nazionale” e “filo-cattolico” (almeno a parole). Però, soprattutto dopo le svolte del 1942-1943 anche autorevoli teologi accettarono l’idea della lotta armata. Ricordo che in quel lasso di tempo i tedeschi occuparono l’intero territorio francese, togliendo ogni parvenza di indipendenza a Pétain, mentre le leggi sul lavoro obbligatorio nelle fabbriche tedesche spinsero molti giovani francesi (oltre che belgi e olandesi), a darsi alla macchia. La Resistenza armata decollò a partire da allora.
Anche in Italia il problema si pose, seppur in modo diverso, vista la concorrenza tra il Regno del Sud e la Repubblica Sociale di Mussolini. Cattolici che erano stati ufficiali dell’esercito fecero qui valere il giuramento di fedeltà fatto al re. Altri discussero, si interrogarono, ma presero la decisione di difendere la patria con le armi, collegandosi tra l’altro ai miti del nostro Risorgimento (Curioso, questo: i cattolici erano stati “nemici” del Risorgimento e ora ne sposavano i miti).
Come si snodò la vicenda dei Resistenti cattolici nel Terzo Reich?
Ecco, in Germania e in Austria le cose ebbero caratteri diversi. Qui non esistette una Resistenza armata antinazista, per ovvii motivi. Sul ricorso possibile alla violenza ci furono discussioni anche all’interno di quei circoli di opposizione, come il circolo di Kreisau, dove maturarono collegamenti importanti con gli attentatori del 20 luglio 1944 nel fallito tentativo di uccidere Hitler. Sembrava infatti immorale fare ricorso a tali mezzi.
Tanto in Germania quanto in Austria gli oppositori al regime nazista agirono soprattutto con le proprie testimonianze personali. Qui, in effetti, possiamo trovare casi di vera e propria obiezione di coscienza, regolarmente pagati con la morte (quasi sempre tramite la ghigliottina). Penso anzitutto all’austriaco Franz Jägerstätter e al bolzanino Josef Mayr-Nusser (cittadino italiano, ma arruolato a forza nelle SS), ma anche a preti come il tedesco Max Josef Metzger (straordinario anticipatore dell’ecumenismo e del pacifismo integrale) o l’austriaco Franz Reinisch (che rifiutò, come Mayr-Nusser, di giurare fedeltà al Führer).
Non mancarono suore coraggiose, come suor Restituta Kafka, attiva in un ospedale viennese, arrestata e ghigliottinata per aver diffuso il testo di un canto di incitamento alla diserzione dalla Wehrmacht. Né vanno dimenticati i ragazzi della Rosa Bianca, che tuttavia costituivano un fantastico gruppo eterogeneo quanto ad appartenenza religiosa.
Molte donne furono coinvolte nell’opera di salvataggio degli oppressi. Ci sono figure straordinarie, che ricordo nel mio libro. Di recente (2019), il Bundestag ha varato una legge per onorarle, con iniziative da svolgere nell’arco di un quinquennio, fino al 2024.
Quali differenze e quali tratti comuni è possibile cogliere nella storia dei cattolici nelle Resistenze dei vari paesi europei?
Alcune differenze le ho già indicate. Esse dipendono dalle cronologie e dalle modalità dell’occupazione tedesca. Altre dal comportamento dei vescovi. In Polonia, essi subirono – insieme a tutto il clero – una tragica persecuzione, finalizzata alla snazionalizzazione dei polacchi. Ciò fu compiuto soprattutto dai tedeschi, ma anche i sovietici non scherzarono, in tutta la parte orientale del paese, da loro annessa (che oggi è l’Ucraina orientale, attorno a Leopoli). Nei Paesi Bassi i vescovi furono molto più coraggiosi di quelli belgi o francesi. E così via.
Quanto ai tratti comuni indicherei i seguenti. Anzitutto la capacità di muoversi su diversi piani, appunto quelli della lotta armata e della lotta non armata. Sapendo però che questa è una distinzione un po’ teorica, che facciamo noi posteri a tavolino. Nella realtà i confini tra i diversi tipi di azione erano piuttosto labili. Chi soccorreva e nascondeva un ebreo – magari in un convento o in una canonica – era anche disposto a nascondere una radio o addirittura delle armi. E chi combatteva con le armi non si tirava indietro se c’era da soccorrere un ricercato. Così si poteva impegnarsi nella stampa clandestina (che, specie in Francia, arrivava a tirature incredibili) e, al tempo stesso, organizzare il soccorso degli ebrei e spronare alla renitenza e alla Resistenza.
Un tratto comune mi pare anche il tentativo di “umanizzare” la guerra, se si può dir così (e ammesso che la guerra possa essere “umanizzata”). Ciò voleva dire cercare di evitare un sovrappiù di violenza (come la tortura o le uccisioni inutili o le vendette), ma anche calcolare per quanto possibile i rischi di rappresaglie sulla popolazione civile. In generale, i cattolici combattenti si distinguevano dai comunisti proprio per questi motivi così che, salvo eccezioni, rifiutavano la logica dell’attentato alle persone e preferivano quella del sabotaggio alle cose. Da qui anche le continue accuse di “attendismo”, che in realtà andrebbero valutate caso per caso. Del resto, anche la resistenza di matrice comunista ebbe le sue fasi. Noi non ci facciamo attenzione, perché la nostra Resistenza iniziò nel 1943, quando erano già trascorsi due anni dall’attacco tedesco all’Unione Sovietica. Ma altrove – penso soprattutto all’Europa occidentale – le cose andarono diversamente, perché dal 1939 al 1941 i comunisti rifiutarono ogni azione antitedesca, essendo condizionati dal patto Ribbentrop-Molotov dell’agosto 1939, che legava tra loro Berlino e Mosca.
Quali dimensioni assunse la partecipazione dei cattolici alla Resistenza italiana?
I cattolici italiani svolsero un’encomiabile opera di salvataggio dei perseguitati, specie ebrei, e quindi parteciparono in modo significativo alla Resistenza non armata. Penso a una figura esemplare come Odoardo Focherini, che può essere preso come uno dei simboli di questo impegno. Ma essi parteciparono in modo significativo alla Resistenza armata: vuoi come militari o ex militari inseriti nelle formazioni delle Fiamme Verdi (di chiara matrice alpina), vuoi come organizzatori di proprie bande autonome, vuoi anche come membri e perfino comandanti di brigate garibaldine. Va quindi eliminato un altro schema: che tutti i garibaldini fossero comunisti. Persino il futuro segretario della DC, Benigno Zaccagnini, fece parte di una brigata Garibaldi. Né mancarono comandanti di prestigio come il ligure Aldo Gastaldi “Bisagno” e il veneto Luigi Pierobon “Dante”. In alcune aree, come la Val d’Ossola e le zone attigue fu forte la presenza di formazioni dichiaratamente democristiane, con la presenza di uomini come Enrico Mattei e Giovanni Marcora.
Né possiamo dimenticare tutti quei giovani che animarono una Resistenza spirituale e culturale all’interno dei campi di concentramento dove erano stati portati come militari fatti prigionieri (i cosiddetti IMI, Internati Militari Italiani). Qui una figura di spicco è stata quella di Giuseppe Lazzati.
Il simbolo della Resistenza cattolica è considerato Teresio Olivelli, morto nel Lager di Hersbruck. Bisognerebbe riflettere di più sulla sua personalità, indubbiamente di altissimo profilo, ma un po’ anche mitizzata. Non fosse altro perché la sua azione resistenziale durò poco tempo, essendo stato catturato già nell’aprile 1944. Il suo caso è significativo, perché di solito si cita la sua bella Preghiera del ribelle e si ricorda il motto “Ribelli per amore”, dimenticando che il suo compito era quello di raccogliere e distribuire armi per la Resistenza lombarda. Questo fu il motivo del suo arresto e soprattutto della sua deportazione.
Chi furono le donne cattoliche resistenti nel nostro Paese?
Si trattava spesso di ragazze cresciute negli ambienti della Gioventù Femminile dell’Azione Cattolica e delle Universitarie cattoliche. Quindi giovani, motivate, spinte alla Resistenza dall’educazione ricevuta, da un incipiente spirito di indipendenza o dallo sdegno di fronte alle esecuzioni pubbliche ordinate da tedeschi e fascisti, come nel caso di Tina Anselmi. Un ruolo importante lo ebbero anche le suore, specie quelle presenti negli ospedali o nelle carceri (come a Milano, Torino, Vicenza, ecc.).
Si trattava di giovani coraggiose e anche decise. La veneziana Ida D’Este riteneva, per esempio, che non ci si dovesse far problemi per eliminare fisicamente una spia, visto che lo scopo era quello di salvare le vite dei partigiani. Tina Anselmi e Lidia Menapace furono convinte a portare le armi, con la speranza di non doverle mai usare.
Come quelle citate, altre giovani svolsero compiti di staffetta (“mestiere” molto più pericoloso di quel che si possa credere) e maturarono poi un impegno politico nel dopoguerra: Ada Alessandrini, Maria Eletta Martini e tante altre.
A Brescia le giovani cattoliche riunite da don Giacomo Vender organizzarono una rete di collegamento con i detenuti politici nel carcere cittadino: immaginate queste ragazze ventenni entrare nel carcere, sfilare tra le guardie fasciste e le SS, portare clandestinamente messaggi dentro e fuori le mura della prigione…
Mi piace concludere ricordando Norma Parenti, giovane sposa e madre residente a Massa Marittima. Era capace di aiutare tutti, partigiani di questo e quel colore politico. Soprattutto non poteva accettare i soprusi: nel giugno 1944 sfidò apertamente i fascisti organizzando la sepoltura di un giovane garibaldino il cui corpo era stato abbandonato sul sagrato del duomo. Poco tempo dopo, i tedeschi in ritirata la catturarono e la uccisero barbaramente.
Giorgio Vecchio è stato professore ordinario di Storia Contemporanea presso l’Università di Parma. Ha insegnato anche presso l’Università Cattolica e l’Università IULM di Milano. Presiede il comitato scientifico dell’Istituto Alcide Cervi e quello della Fondazione Don Primo Mazzolari. Tra i suoi libri più recenti: Storia dell’Italia repubblicana 1946-2018 (Monduzzi, 2019, con P. Trionfini); L’Italia smemorata. Pagine per salvare dall’oblio 150 anni di storia (MUP, 2020). Ha curato anche Mazzolari e la Prima guerra mondiale. Dalla trincea alla parrocchia (Morcelliana, 2019) e Il paesaggio violentato. Le due guerre mondiali, le persone, la natura (Viella, 2020, con G. Gotti).