“Il sessantotto sequestrato. Cecoslovacchia, Polonia, Jugoslavia e dintorni” di Guido Crainz

Prof. Guido Crainz, Lei è autore del libro Il sessantotto sequestrato. Cecoslovacchia, Polonia, Jugoslavia e dintorni edito da Donzelli. Quello raccontato nei saggi raccolti nel libro è l’«altro» ’68: cosa significò per l’Europa questo sessantotto?
Il sessantotto sequestrato. Cecoslovacchia, Polonia, Jugoslavia e dintorni, Guido CrainzAllora sembrò significare poco. I governi dell’Europa occidentale si limitarono a proteste formali, e lo stesso fecero i partiti comunisti dei differenti paesi: nel giro di pochi mesi, ad esempio, il Partito comunista italiano passò dal “grave dissenso” rispetto all’invasione della Cecoslovacchia alla piena accettazione della “normalizzazione” di Husack (e continuò a chiedere all’Urss, e a ricevere, finanziamenti in rubli). Quella “normalizzazione” -va ricordato- significò l’espulsione e la perdita del lavoro per 500 mila iscritti al partito comunista cecoslovacco (un terzo del totale), con 200 mila cechi e slovacchi costretti all’esilio, e con anni e anni di galera per moltissimi altri. Il leader della Primavera di Praga, Alexander Dubceck, destituito e umiliato, troverà lavoro come meccanico in un’azienda forestale della Slovacchia. Nel nostro libro lo studioso ceco Pavel Kolar, docente all’Istituto universitario europeo di Firenze, analizza molto bene i differenti fermenti culturali e politici che favorirono quell’esperienza, stroncata dai carri armati dell’Urss e di altri 4 paesi del Patto di Varsavia.

In Polonia la repressione contro gli studenti che invocavano forme elementari di libertà e di democrazia, e contro i docenti che li sostenevano, fu condotta dal Partito comunista all’interno di una campagna che assunse forti toni antisemiti e che portò all’esodo di quasi la metà dei 30.000 ebrei rimasti in Polonia dopo la shoah, e di docenti di levatura europea: basti pensare a Zigmunt Bauman, che scriverà l’introduzione al libro che raccoglie i documenti degli studenti (Contestazione a Varsavia, Bompiani 1969), o a Bronislaw Batzko, Wlodzimierz Brus, Leszek Kolakowski, e molti altri. Ne pagò le conseguenze anche un autorevolissimo membro del Comitato centrale del Partito come il filosofo Adam Shaff (proprio nel 1968 all’Università di Pavia feci l’esame di filosofia teoretica leggendo anche il suo libro Il marxismo e la persona umana e un suo testo in Morale e società, volume collettaneo, oltre a Dialettica del concreto del filosofo cecoslovacco Karel Kosic, perseguitato anch’egli dopo la sconfitta della Primavera). E il Partito comunista non fece neppure sentire la sua voce. Neppure l’Occidente nel suo insieme sembrò scandalizzarsi più di tanto per questo rigurgito di antisemitismo nella Polonia comunista, e fu presto dimenticato (oggi non se lo ricorda più nessuno). Di questi aspetti parla nel nostro libro Wlodek Goldkorn, e fra i documenti che proponiamo vi è un brano di quell’introduzione di Bauman, una testimonianza di grande interesse di Adam Michnik e un volantino molto bello degli studenti polacchi, Non c’è pane senza libertà.

A 50 anni di distanza, qual è il bilancio storico dei rivolgimenti, dei traumi e dei processi che segnarono la Cecoslovacchia, la Polonia e altre aree dell’Europa «sequestrata» dall’impero sovietico? Quali conseguenze ebbero i fatti di Praga?
Fu definitivamente chiaro allora che il “socialismo reale” non era riformabile, e presero avvio anche da lì alcuni esili e al tempo straordinari fili che porteranno al 1989. In Polonia attraverso il Kor (Comitato di difesa degli operai) di Michnick, Kuron e Modzelewski, protagonisti perseguitati degli anni 60, e Solidarnosc (cui il Kor si affianca). In Cecoslovacchia attraverso Charta 77 -promossa anche qui da voci importanti del ‘68 come Vaclav Havel. Havel sarà arrestato per l’ultima volta nel gennaio del 1989, portava fiori sulla tomba di Jan Palach, lo studente ventenne che si era dato la morte col fuoco vent’anni prima in piazza San Venceslao per chiamare il suo popolo a continuare la lotta. Nel dicembre dei quello stesso 1989 Havel sarà presidente della Repubblica Cecoslovacca e Dubcek sarà presidente del Parlamento. Inizia anche da quel ‘68, insomma, il percorso che porta al crollo del “socialismo reale” e ad un’Europa non più divisa, mentre nella storia complessiva dell’Europa non avranno praticamente conseguenze i ‘68 occidentali (pur molto importanti e positivi nella storia dei loro paesi, a mio avviso, per le grandi innovazioni culturali e sociali che favorirono). Per lo storico è di grandissimo interesse inoltre il caso della Jugoslavia, analizzato nel nostro libro in modo molto problematico e acuto da Nicole Janigro, perché mostra il convivere nei processi storici di pulsioni molto diverse. In questo caso, sommovimenti molto simili a quelli dell’Occidente convivono con il riemergere delle tensioni nazionalistiche che cresceranno sempre più nel declino della egemonia carismatica di Tito e porteranno a quella Esplosione delle nazioni cui proprio Nicole Janigro ha dedicato anni fa un libro bellissimo.

Perché i sostenitori di un «socialismo dal volto umano» di quei paesi non trovarono nei movimenti studenteschi dell’Occidente e nei partiti comunisti europei quel solidale sostegno che sarebbe stato necessario?
Per i partiti comunisti è facile rispondere: continuarono ad essere subalterni all’Unione sovietica, con tutto quello che significava. Il segretario del Pci, Enrico Berlinguer, attese il 1981 polacco, con il colpo di stato del generale Jaruzelski, per considerare esaurita la “spinta propulsiva” della Rivoluzione russa del 1917. E una caustica vignetta di Forattini gli farà dire: “Se i russi invadono la Polonia…straccio la tessera del 1956” (cioè quella che avrebbe dovuto stracciare dopo l’invasione dell’Ungheria). Per i movimenti studenteschi dell’Occidente è molto più difficile trovare una risposta, o sintetizzarla in poche righe, e posso solo rinviare al saggio di Anna Bravo che affronta questo nodo in modo estremamente stimolante e convincente.

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