“Il secolo dei tradimenti. Da Mata Hari a Snowden – 1914-2014” di Marcello Flores

Prof. Marcello Flores, Lei è l’autore del libro Il secolo dei tradimenti. Da Mata Hari a Snowden 1914-2014 edito dal Mulino: perché si può affermare che il Novecento è stato il secolo dei tradimenti?
Il secolo dei tradimenti. Da Mata Hari a Snowden - 1914-2014 di Marcello FloresPossiamo considerare il Novecento il secolo del tradimento perché è, probabilmente, quello in cui maggiormente questa accusa è stata utilizzata, quello in cui vi è stato il maggior numero di vittime giustiziate per questo reato ma soprattutto quello per cui il termine “tradimento” si è ampliato a dismisura fino a rendersi, verso la fine del secolo, quasi irriconoscibile e difficilmente utilizzabile, per lo meno in sede giudiziaria. Con la prima guerra mondiale sembra che l’accusa di tradimento riguardo ormai quasi esclusivamente il tradimento della patria, della nazione, dello stato cui si appartiene, lasciando così al passato l’idea del tradimento nel confronto del sovrano, delle famiglie regnanti, dei capi di stato. L’accusa di tradimento è ormai più astratta perché riguarda l’entità istituzionale cui si appartiene, di cui si fa parte (stato, nazione, patria), ma la guerra mondiale – in cui si confrontano ancora i tre grandi imperi multinazionali che verranno spazzati via al termine della stessa – mostra una prima forte contraddizione, che era già emersa nella seconda metà dell’Ottocento ma che adesso, in una situazione di conflitto, diventa esplosiva e difficile da controllare: a chi si sente leale e deve sentirsi fedele un cittadino? Allo stato di appartenenza o alla patria/nazione di appartenenza? Negli imperi multinazionali questo diventa un problema, come avverrà per i cittadini austroungarici del Trentino/Sudtirolo che, nella grande maggioranza, seguiranno le indicazioni “statali” andando a combattere per Vienna, ma in una minoranza significativa e appariscente sceglieranno la “patria” italiana: e il “tradimento” di Cesare Battisti metterà in luce questa contraddizione e anche la guerra ideologica e propagandistica che su questo aspetto si combatterà. La modernità ha ampliato e aumentato il numero di “identità” cui si vuole e si sente di appartenere, c’è un elemento di scelta individuale che può cozzare contro l’identità affidata burocraticamente a ciascuno nel momento della sua nascita. Già nel corso della prima guerra mondiale, e ancora di più dopo di essa, assistiamo al crescere di grandi ideologie di tipo universalistico che chiedono ai propri adepti e aderenti una fedeltà forte, spesso assoluta, addirittura superiore a quella nei confronti del proprio paese: e questo creerà nuovi conflitti di fedeltà all’interno di ognuno, lasciando che sia il singolo a decidere ma permettendo all’autorità, al potere, di condannare chi non accetta il primato dello stato come un possibile traditore.

Ai traditori Dante riserva il posto peggiore, la bocca di Lucifero. Qual è, se esiste, il valore storico del tradimento?
Il tradimento era considerato al tempo di Dante il delitto peggiore che si potesse commettere. Ed è proprio in quel periodo, per l’esattezza trent’anni dopo la morte di Dante, che in Inghilterra viene introdotta la prima legge chiara ed esaustiva sul tradimento, che – con qualche ritocco – è rimasta in vigore in quel paese (e ha costituito il modello per tutto il mondo) fino al XX secolo. Da allora in avanti la storia è stata un susseguirsi di lotte aspre per il potere, in cui la richiesta di fedeltà e l’accusa di tradimento (che comportava una morte orribile e la confisca di tutti i beni per tutta la famiglia) costituiva un’arma significativa per cercare di mantenere con sé gli alleati e di smembrare le alleanze dell’avversario. Con le grandi rivoluzioni di fine Settecento è lo stato, è il paese, a diventare il cardine della nuova identità collettiva e, in una situazione di guerra civile aperta o strisciante (come sono tutte le rivoluzioni), l’accusa di tradimento serve a identificare i nemici e a costringere i tiepidi a schierarsi da una parte o dall’altra.

Perchè la figura di Mata Hari è rappresentativa del secolo trascorso?
La figura di Mata Hari è particolarmente esemplificativa perché nel Novecento la figura della spia, che si è ormai imposta come una necessità in ogni paese e è presente in ogni stato sia come agente sia come minaccia, è quella in cui si può meglio identificare il tradimento nel momento di maggiore pericolo, e cioè la guerra, soprattutto se esso ha luogo non per motivi ideali ma per motivi di interesse e di denaro. Nel caso specifico l’accusa verso Mata Hari, chiaramente costruita su basi inesistenti e su labilissimi prove, è anche un modo per colpire la donna nel momento in cui la battaglia per l’emancipazione ha assunto un ritmo imponente tanto nella vita pubblica quanto in quella privata, per ricondurla in un alveo di “naturale” perfidia o doppiezza, di debolezza e condotta scandalosa, che assolve al tempo stesso gli alti gradi militari e politici che con Mata Hari avevano avuto rapporti assai stretti e verso cui si erano certamente lasciati andare con intimità e segreti pericolosi.

Nel dopoguerra si è assistito al tradimento diffuso: fascisti, nazisti e sconfitti vari hanno rinnegato il loro passato per ricostruirsi una nuova identità
Nel corso della seconda guerra mondiale vi è stato un intreccio molto complesso di “fedeltà” mantenute e di “lealtà” stracciate, che non rende facile l’identificazione oggettiva di chi ha tradito e chi no (del resto il tradimento è sempre un giudizio soggettivo, fatto a partire da un certo punto di vista: che è traditore per certuni è spesso un eroe per altri). C’è innanzitutto l’identità statuale-nazionale, che però è messa in discussione da coloro che non si ritrovano nei regimi totalitari cui capita loro di vivere e che la mettono in discussione aderendo ad altre identità (ideologiche, religiose) che sono in lotta aperta contro la prima. I “traditori” del nazismo – si tratti dei giovani membri della Rosa Bianca o dei militari che seguono von Stauffenberg nell’attentato a Hitler – lo fanno per adesione a principi e valori superiori a quelli dell’obbedienza a uno stato criminale. A maggior ragione ciò vale per i cittadini di quei paesi che sono occupati dalla Germania, e che vivono l’antagonismo col potere occupante sia in termini patriottici che in termini ideologici e ideali. Dal momento che si crea in Europa una situazione di guerra civile europea diffusa, è ovvio che l’accusa di tradimento è lanciata reciprocamente da entrambe le parti contro gli avversari (come era già emerso con chiarezza nel corso della guerra civile spagnola dal 1936 al 1939) e che sarà chi vince a poter avere la parola finale nello stabilire, anche nei tribunali, chi ha operato come traditore e chi è stato complice o collaboratore di una potenza straniera. La necessità, da parte dei vinti, di rinegoziare la propria identità col nuovo potere, scontando qualche condanna, aderendo con convinzione agli ideali democratici, mantenendo una riserva di fondo (più implicita e silenziosa che esplicita, in genere) su di essi e restando con “coerenza” fedeli agli ideali totalitari, ha costituito il grande problema dell’identità collettiva dell’Europa nel dopoguerra, che si è potuto risolvere solo quando è diventata adulta (nella metà degli anni ’60) la generazione nata al termine della guerra.

Il tradimento è stato un elemento caratterizzante della guerra fredda
Possiamo quasi dire che nella guerra fredda il tradimento raggiunge il suo apice, anche se non nelle motivazioni ufficiali delle condanne (a morte, all’ergastolo, a diverse anni) che – per timore di non poter rispondere ai criteri previsti, soprattutto nel mondo anglosassone, per connotare il tradimento – utilizzano in molti casi le accuse di sovversione, spionaggio, attività contro la sicurezza dello stato, ecc. Anche nei processi in cui, ad esempio, gli imputati non lo sono di tradimento (pensiamo al processo contro i coniugi Rosenberg negli Stati Uniti), i giudici insistono verbalmente nel chiamarli traditori e nel presentarli al pubblico come tali. Trattandosi di una guerra sostanzialmente ideologica, in cui più i toni sono forti e più ci si sente convinti di combattere il nemico, l’accusa di tradimento è continua e insistente, come avviene negli Usa negli anni del maccartismo e nei paesi del blocco comunista con i processi messi in piedi dallo stalinismo tra la fine anni ’40 e la morte del dittatore georgiano nel 1953. Spesso è sufficiente l’accusa, o il timore di essere accusati, a decidere di “parlare”, di coinvolgere altre persone, di cercare di discolparsi individualmente lasciando credere che l’accusa per altri possa restare valida. Ed è proprio il clima di sospetto permanente che si rigenera in continuazione attorno all’accusa o alla minaccia di accusare qualcuno di tradimento.

Viviamo nell’epoca del tradimento globalizzato?
No, penso che oggi viviamo nell’epoca globalizzata della fine del tradimento, perché l’evoluzione della società, la diffusione e l’ampliarsi di una cultura dei diritti, il sorgere e rafforzarsi di istituzioni e valori sovranazionali ha reso sempre meno possibile e coerente dare a qualcuno del traditore, visto che ognuno può scegliere e sceglie la propria identità e la propria fedeltà e lealtà non solo al proprio paese ma ai propri ideali, valori, scelte religiose e politiche. Questo almeno è valido soprattutto per l’occidente, perché in altri paesi si continua a utilizzare l’accusa di tradimento sul piano giudiziario per liberarsi di oppositori nemici. Da noi l’ultimo colpo a un’idea forte e radicata di tradimento l’hanno data i “pentiti” (da noi questo nome ha in parte un connotato ancora negativo, in altri paesi si usano altri termini che hanno connotato positivo), che hanno fatto superare una cultura dell’omertà che utilizzava l’infamia della delazione per reggersi e trasmettersi. A volte in nome di un ideale (sia pure criminogeno) tradito, come ha fatto Buscetta con la mafia, a volte in nome di una trasparenza di verità (come hanno fatto Snowden e Assange) che viene prima dell’obbedienza al regime politico o allo stato.

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