
Parlo di “stili” perché oltre ai media nella loro materialità ci sono le modalità d’uso che non sono sempre dettate dalle tecnologie, in parte sono frutto di scelte personali e di gruppo, consapevoli o meno, in parte trovano anche impulso nelle mode, ma si presentano come “stili” perché hanno spesso una dimensione a cavallo tra il pratico e l’estetico., Per limitarci a un solo esempio, pensiamo al peso che ha il gusto nel nostro uso di Whatsapp, al nostro bisogno di personalizzare questo canale di trasmissione con immagini nelle quali ci riconosciamo, per il loro contenuto e per la loro forma, al linguaggio che preferiamo usare, con tutti o più specificamente con l’uno o con l’altro interlocutore. D’altra parte, una comunità di utenti, per esempio via social, è spesso contraddistinta anche (che ci piaccia o meno) da uno “stile” condiviso. E le scelte di stile sono state una chiave del successo di aziende come Apple: ancora una volta, la dimensione tecnica, quella dell’efficienza comunicativa, quella estetica sono difficilmente separabili.
Parlare di “dinamiche” potrebbe sembrare ovvio, visto che da sempre mi occupo di media in chiave storica, cercando di tenere presente l’evoluzione di breve come di lungo periodo nel loro intrecciarsi. Ma non lo è, perché troppo spesso nello studio dei media come di tutti i fenomeni che hanno a che fare con la tecnologia (ricordiamoci però che i media non sono solo tecnologia) si tende a leggere tutti i processi in chiave lineare, dove la velocità del cambiamento può essere maggiore o minore ma va sempre in una direzione. In realtà le dinamiche dei processi socioculturali (e i media agiscono tra le persone, sono socialmente condizionati e condizionano la vita sociale) non sono sempre, né soltanto, lineari, possono essere attraversate da andamenti a volte ondivaghi, a volte ciclici, a volte regressivi oltre che progressivi: uno dei temi cruciali di questa nuova edizione per esempio è il peso che ha l’oralità nei media più “avanzati”, cosa che aiuta a spiegare la forza di forme apparentemente regressive come il diffondersi di dicerie, voci, paure: E si collega con altre mie ricerche di questi anni, in particolare quella sui miti contemporanei o “a bassa intensità” discussi in un libro del 2019. A differenza di molte ricerche di storia dei media la mia non lavora tanto sul succedersi dei singoli mezzi, quanto sulle dinamiche che di volta in volta li hanno generati, ma anche messi in relazione tra loro, fatti riemergere…
E poi, i paradossi. Proprio perché non lineare, la presenza dei media nella nostra società assume spesso la veste appunto del paradosso, dove la realtà apparentemente più evidente è contraddetta da una più profonda: per esempio, non ci siamo mai sentiti in contatto più “diretto” coi nostri simili, ma al tempo stesso questo contatto non ha mai avuto più bisogno di mediazioni tecnologiche. Ad esempio, sembra oggi che gran parte dell’universo della comunicazione sia “immateriale”, l’informazione è accumulata in “nuvole” e circola non solo senza fili ma senza neppure, spesso, che ci chiediamo quali sono le reti di cui ci serviamo; eppure tutto dipende da apparati enormi, complessi, fatti di grandi server e di vastissime reti di cavi, che fanno uno spaventoso consumo di energia.
Se ci chiediamo quindi quale sia il peso dei media nella società contemporanea, la risposta è che se è vero che tutte le società umane vivono di media, a partire dalle lingue parlate che sono uno dei media più straordinari elaborati dalla nostra specie, è vero anche che nel corso degli ultimi due-tre secoli la varietà dei media di cui facciamo uso si è andata enormemente articolando, e questo ha fatto sì che da un lato ci siano alcuni media che sono diventati più che mai in passato vere e proprie protesi della persona, continuazione che sembra “naturale” invece è del tutto artificiale della nostra bocca e del nostro orecchio, l’esempio più ovvio è il cellulare; dall’altro che anche nella vita economica le imprese oggi di maggior successo siano quelle che gestiscono il flusso informativo, offrendo canali d’accesso (come Google o Whatsapp), servizi, apparecchi… Questo peso è in buona parte nascosto, la fisicità degli apparati come dicevo non sempre si vede, molto di quello che circola in rete si presenta come gratuito, c’è chi sostiene che addirittura i media non ci sarebbero più perché tutte le forme di comunicazione passano attraverso un unico dispositivo, però mai come ora siamo stati connessi e di questa connessione abbiamo avvertito la necessità.
E i media nella loro proliferazione e nella loro potenza sono alla base di alcune delle principali caratteristiche della nostra vita attuale: alcune evidenti a tutti come la “globalizzazione”, altre meno evidenti quali la volatilità di un’economia che si presenta come fatta di beni immateriali più che di beni materiali, e altre ancora a cui si pensa decisamente pochissimo, come il venir meno di tutte le barriere che limitino l’accesso a contenuti dalle implicazioni anche psicologiche tutt’altro che innocue. Si parla molto di pedopornografia (la sola forma che resta vietata), molto meno degli effetti che altre forme di pornografia possono avere su un bambino di cinque anni, eppure questo può accedere a forme anche estreme così come accede a un cartone.
Il libro offre una lettura critica del Novecento della comunicazione: in che modo, attraverso i media, il secolo passato si proietta nella nostra quotidianità?
È difficile rispondere sinteticamente a questa domanda: il mio libro era intitolato in un primo momento “I media e l’eredità del Novecento”, ed è tutto dedicato al secolo dei media che ci ha preceduto oltre che ai primi vent’anni del nuovo millennio. Vorrei però ragionare qui su due-tre aspetti di questa “eredità del Novecento”.
Prima di tutto, si parla ogni momento di novità assolute, il web 2.0, l’industria 4.0, ma la storia non va a scatti, come espressioni del genere fanno immaginare, è fatta di diverse linee evolutive sovrapposte. Almeno due di queste hanno attraversato tutto il Novecento e ci condizionano tuttora in profondità. Una è tecnologica, ed è l’elettrificazione, cominciata a fine Ottocento e tuttora in corso: che ha cambiato le nostre esistenze non solo permettendoci un enorme risparmio di fatica fisica, non solo rendendoci terribilmente dipendenti dalle fonti energetiche e dal loro peso sull’ambiente, ma accelerando tutti i tempi della vita oltre che della comunicazione. Un’altra è economico-culturale ed è il ruolo economico crescente della pubblicità, che è l’altra faccia dello sviluppo dei media moderni, dalla radio alla stampa illustrata alla televisione, fino a quel traffico dei nostri dati che è la versione più recente dell’economia pubblicitaria: vengono venduti a chi ci vuole raggiungere con i suoi prodotti, i suoi servizi, spesso le sue mezze-verità o le sue bugie.
D’altra parte, il Novecento è stato il secolo dell’immagine in movimento, cinema, televisione, video, e in quel secolo siamo tuttora immersi: se la rete ci permette di accedere a immagini e documenti di tutta la storia, quell’immensa videoteca del mondo che è Youtube è fatta soprattutto di film e video, dal 1895 l’anno del cinématographe dei fratelli Lumière fino alle immagini riprese via telefonino poche ore fa. Il Novecento dei media è parte di noi non solo perché ne siamo gli eredi ma anche perché ci ricorda di continuo la sua storia.
Viviamo in quella che è stata definita “rivoluzione digitale”: quali le conseguenze sul sistema dei media e sulla società in generale?
C’è qualcosa di strano in quest’espressione, che merita una riflessione. Prima di tutto la parola “rivoluzione”: proprio quando il mito della rivoluzione politica sembrava definitivamente archiviato è emersa una retorica che spostava quel mito nel campo della tecnologia, dove nel frattempo si affermava l’idealizzazione più assoluta di tutto ciò che è nuovo. Certo l’applicazione dell’idea di rivoluzione al mondo economico-tecnologico è antica (l’economista Adolphe Blanqui parlò la prima volta di “rivoluzione industriale” nel 1837), ma bisogna stare attenti a che il termine adesso non abbia assunto un compito per così dire compensativo: quello di trasferire il sogno di cambiare il mondo dalla politica a un universo fatto di tecnologia e anche di economia. È anche per questo che l’idea di rivoluzione digitale è stata accompagnata a lungo da utopie politiche, dalle “autostrade della conoscenza” teorizzate dal vicepresidente americano Al Gore fino alla mitizzazione delle primavere arabe come “wikirivoluzioni” negli articoli del sociologo Zizek. Utopie a cui si sono sostituite negli ultimi quindici anni anche distopie, che fanno della rete la peggiore minaccia per la democrazia.
Parlare di digitalizzazione è più preciso che parlare di “rivoluzione digitale” proprio perché riduce il peso questa (ambivalente) connotazione ideologica. Ma è più preciso anche e soprattutto per un altro motivo: perché la digitalizzazione è stata ed è un processo di lunga durata, cominciato già negli anni Sessanta e che tuttora continua; e va avanti non secondo una logica lineare ma in modo esponenziale, come si vede dall’andamento stesso della quantità di informazione che circola nella rete e di quella che può essere elaborata in ogni dispositivo. La “rivoluzione industriale” di cui parlava lo storico francese durò pure molti decenni, ma sulla base di un unico modello di base, il trasferimento alle macchine (essenzialmente alle macchine a vapore) di compiti prima assolti dagli esseri umani. Con che cosa identifichiamo la “rivoluzione digitale”? Con l’avvento del personal computer? Con la nascita di Internet? Con lo smart phone? Con il cosiddetto web 2.0 espressione a sua volta mal definita, che pare riferirsi soprattutto alla capacità del web di fare circolare immagini in movimento?
Se parliamo di digitalizzazione, che l’aspetto che più conta è proprio il fatto che i cambiamenti sono molti, rapidissimi e continui; la digitalizzazione è stata accompagnata da un’instabilità che produce ricchezza ma anche incertezza, con conseguenze complesse per esempio per le identità professionali (che sono rese fragili non solo dalla precarietà ma anche dal fatto che i profili e le competenze mutano molte volte nel corso di una vita) e per la trasmissione del sapere tra le generazioni. All’orizzonte della mitica “rivoluzione digitale” si vede poi un altro mito, quello dell’intelligenza artificiale: che andrebbe vista anch’essa, più che come un prima e un dopo, come un processo già iniziato da tempo e certo ancora in corso. Per la digitalizzazione, come per il processo che va verso l’intelligenza artificiale, non si dovrebbe parlare di “conseguenze”, come se fossero realtà a noi esterne che agiscono dall’esterno sulla nostra vita: ci viviamo dentro, e il loro andamento dipende anche dalle scelte che più o meno consapevolmente stiamo facendo e faremo.
Quali processi hanno determinato e condizionato la storia della comunicazione nel Novecento?
Questa domanda va molto oltre i limiti del mio stesso libro… Direi che tutti i processi storici hanno partecipato nel condizionarla, e che d’altra parte l’evoluzione dei media ha condizionato a sua volta molti processi storici se non tutti. Ho già parlato di due processi sul piano della tecnologia, uno più antico uno più recente: l’elettrificazione e poi la digitalizzazione.
Ha sicuramente pesato sull’evoluzione dei media uno dei processi più forti e per certi versi misteriosi del mondo moderno, l’urbanizzazione, che certo si lega anche alla ridotta necessità di lavoro per la produzione agricola e alla crescente domanda di manodopera del mondo dei servizi, ma non è spiegabile solo in termini economici. In realtà proprio la potenza e il diffondersi dei mezzi di comunicazione moderni è tra le cause dell’attrattiva esercitata dalle città, soprattutto dalle grandi città che sono i luoghi “dove le cose accadono”; d’altra parte la vita urbana e la crescita stessa delle città è resa possibile dal funzionamento delle reti, infrastrutturali ma anche informative. Ha pesato anche l’affermarsi di un’economia centrata sulla produzione e i consumi di massa, dove i media sono tra gli oggetti stessi del consumo ma anche tra i veicoli essenziali della promozione commerciale.
Inoltre, se mettiamo il Novecento in prospettiva storica ci rendiamo conto che in questo secolo lo stato moderno coi suoi immensi apparati burocratici e militari è diventato la sola forma politica, che ha preso il posto dopo la prima guerra mondiale dei grandi imperi e che nella secondo metà del secolo si è imposta “naturalmente” anche nelle società in via di decolonizzazione. Che lo stato sia davvero la sola forma politica possibile ci sarebbe ampiamente da discutere, e più divento vecchio più ho nostalgia di un tempo in cui si ipotizzavano modelli diversi di gestione del potere. Certo è che lo stato moderno è stato un importante, strategico promotore delle reti di comunicazione, e ancora adesso le condiziona in modo considerevole sebbene sia ovviamente sottoposto a spinte globalizzanti che vanno oltre i suoi limiti; d’altra parte è stato ed è un massiccio consumatore di comunicazione, per fare funzionare i suoi apparati, sempre più capillari e che hanno bisogno di trasmissione sempre più rapida.
Credo che sia chiaro che ho appena sfiorato solo alcuni dei tanti grandi processi storici che si sono intrecciati con lo sviluppo dei media novecenteschi, molti altri sarebbero da considerare.
In cosa consiste l’«antropologia della ridondanza» da Lei descritta?
Tutta la prima parte del mio libro è dedicata a uno dei paradossi, almeno apparenti, della comunicazione contemporanea: il fatto che “la comunicazione non basta mai”, che cioè mentre nella produzione e nel consumo di beni fisici esistono dei vincoli materiali che fissano dei limiti, nel campo che ci interessa si è assistito e si assiste a una crescita che non sembra trovare punti di saturazione. Lo dimostra il moltiplicarsi degli strumenti e dei canali di cui disponiamo, lo dimostra l’andamento esponenziale della digitalizzazione che citavo prima. Disponiamo di sempre più informazione, ne chiediamo sempre di più. L’”antropologia della ridondanza” di cui parlo si lega da un lato al fatto di essere circondati di così tanti dati e contenuti, dall’altro alla dinamica stessa della crescita. Chiarisco intanto che tutta la prospettiva dei miei studi da diverso tempo può essere definita in senso lato antropologica, si interroga sia su come il cambiamento storico si innesti sui diversi aspetti della nostra umanità, sia su come alcuni processi profondi che toccano il nostro configurarci come specie trovi espressione nello sviluppo storico. È la prospettiva che ho seguito anche nei miei ultimi due libri, dedicati l’uno ai miti l’altro a uno dei mali propri dell’umanità, la viltà.
Tornando all’antropologia della ridondanza ricorderò qui prima di tutto che in un mondo saturo d’informazione si è sviluppata una tendenza nuova/antichissima, ad attingere man mano dati e contenuti dovunque ci si offrono, più che a cercarli dove si presentano strutturati in forma organica: di qui il ridursi del ruolo delle forme tradizionali di organizzazione del sapere, a cominciare dal libro e dalla biblioteca, e il ruolo crescente di servizi che organizzano immense masse di informazioni prestandosi a una consultazione rapida e perfino casuale. Ma vorrei ricordare che la velocità del mutamento ha anche favorito cambiamenti inattesi: ad esempio quella tecnica del montaggio che da quando fu inventata o scoperta all’inizio del Novecento w fino alla fine del secolo era stata proprietà, ben difesa, di una corporazione professionale, i montatori appunto, si è poi resa accessibile a tanti se non a tutti, man mano che programmi un tempo strettamente specialistico, una volta divenuti superati per gli usi più sofisticati venivano messi in rete a prezzo basso o gratis. Anche grazie a questo, il gusto e la tecnica del montaggio sono diventati sempre più diffusi, e una delle caratteristiche delle culture proprie di un’epoca di ridondanza è quella che porta a trattare tutti i contenuti come possibili tessere di puzzle che vengono continuamente scombinati e ricombinati, e personalizzati.
Mi fermo qui anche se l’antropologia della ridondanza di cui parlo può essere declinata anche in molte altre direzioni.
Il libro si sofferma sulla caduta dei divieti in materia di amore, sesso, corporeità e sulla progressiva perdita di senso dei vincoli derivanti dal giuramento: che rapporto esiste tra tali fenomeni e il sistema dei media?
La caduta dei tabù in materia di pornografia è uno dei fenomeni più peculiari del Novecento, anche perché in quasi nessuno stato è avvenuta in forza di una legge, in generale si è imposta in modo relativo spontaneo. E in tempi più o meno rapidi, nel caso italiano si è passati da vincoli rigidi alla caduta di ogni confine in pochi anni. Cercando di ricostruire questo cambiamento, ho seguito le tappe storiche del processo soprattutto ma non solo in Italia, e notato il suo intrecciarsi con una serie di trasformazioni nei media, in particolare nel continente europeo con la fine del monopolio radiotelevisivo di stato e con il moltiplicarsi di forme di comunicazione non soggette a censura; e anche con fenomeni più profondi, a cominciare dalla possibilità di un consumo privato di immagini anche in movimento centrate sul sesso. Oggi è difficile anche solo rendersi conto dello choc sociale che fu rappresentato all’epoca dall’esplosione di un mercato prima para-legale poi del tutto legale di immagini centrate sulla rappresentazione dell’eros, e anche capire il circolo che si innestò allora, tra la disponibilità di queste immagini e la loro progressiva banalizzazione che favoriva la richiesta di immagini insieme più “forti” e mirate. Da allora la pornografia è stata non solo una delle merci più diffuse in tutto il sistema dei media, ma anche uno “stile” che ha condizionato molta produzione mainstream; d’altra parte, la persistenza di barriere ancora fortemente difese tra immagini del tutto lecite e immagini “al limite” (si pensi al seno femminile) è uno dei motori del mercato della comunicazione, dalla stampa “scandalistica” a molta fiction anche televisiva, che vive della liceità di fatto della diffusione di contenuti che continuano ad avere il fascino del “proibito”. La liberalizzazione della pornografia, per restare all’Italia, è cominciata mezzo secolo fa, è esplosa con Internet ma resta tuttora in tensione con regole che non sono del tutto scomparse.
Più complesso il tema del giuramento, un fenomeno trasversale a molte culture, centrato se così si può dire sull’onore della parola, sulla scelta di assoggettare a un tabù le proprie promesse o i propri impegni. In questo caso ci troviamo di fronte a un esempio di una tendenza più diffusa del nostro mondo: quella allo svuotamento di rituali legati a un qui e a un ora, rituali che non sempre sono su base religiosa, come del resto non sempre lo è il giuramento. Fra le tendenze di un mondo saturo di comunicazione c’è anche quel fenomeno che R. Murray Schafer, il primo teorico del paesaggio sonoro, definisce schizofonia, il distacco del suono dalla sua fonte, in generale il distacco di ciò che viene detto dal luogo e dal momento in cui viene enunciato, parte del più generale distacco dell’esperienza comunicata da quella vissuta. La deritualizzazione e la nostalgia dei riti tradizionali e vincolanti sono parte essenziale dell’esperienza contemporanea, e lo svuotarsi dei tabù che accompagnavano il giuramento è parte di questa realtà.
Quali interrogativi restano aperti?
Non sarebbero domande da farsi alla fine… Quando si chiude un libro si comincia presto (almeno questa è la mia esperienza) a chiedersi quante cose si potevano dire che non si sono dette e quanti problemi rimangono irrisolti. Una seconda edizione così ampliata mi ha permesso di aprire prospettive nuove rispetto alla prima, per esempio a proposito di oralità e scrittura, del ruolo delle abitudini nella vita comunicativa. Ma certo molto altro credo sarebbe importante studiare. Ad esempio uno degli aspetti cruciali della cultura novecentesca, e della trasmissione che ne hanno fatto i media, è l’insieme costituito dalle canzoni (parole e musica) e dal ballo, un conglomerato culturale-mediatico-rituale che è stato oggetto di alcune ricerche specialistiche soprattutto di tipo musicologico e in piccola parte sociologico, ma è poco studiato sul piano antropologico e comunicativo. Non escludo, se mi basterà il tempo, di tornarci, e approfondire il breve capitolo sulla canzone che si trova nel Secolo dei media.
Le mie ricerche più recenti si sono in parte spostate, per esempio il mio libro sulla viltà cerca di affrontare il difficile problema da un lato della possibilità di mettere in prospettiva storica temi che attraversano tutte le culture, dall’altro di trovare nelle scienze dell’umanità la via non per uno studio del tutto privo di giudizi e valori ma per una riflessione anche etica, visto che la nostra è una specie fatta di bene e di male, e che le nostre società come intuì già Aristotele sono profondamente condizionate anche dal bisogno (sempre frustrato, sempre rinnovato) di distinguere il bene e il male. Si può recuperare anche nella riflessione sui media anche una prospettiva di questo genere? E come? O si rischia di oscillare tra un relativismo corrosivo come è stato definito che soggettivizza ogni giudizio, e la tendenza a fissare un’idea quasi metafisica di Male che viene condivisa ma spesso senza essere veramente oggetto di riflessione? Se lo studio della comunicazione e dei media non vuole essere una delle tante “fette” in cui il sistema delle discipline ha sezionato la nostra specie, dobbiamo porgli anche domande di questo tipo, sapendo che si tratta di domande scomode, e che rispondere richiede non solo molta ricerca ma anche molta riflessione.
Peppino Ortoleva è stato professore di Storia e teoria dei media all’Università di Torino. È profesór ajunto all’Universidad de los Andes di Bogotà. Ha tenuto corsi e seminari in numerosi paesi tra cui Australia, Francia, Portogallo, Spagna, Germania, Usa. Ha pubblicato oltre cento articoli e saggi scientifici in più lingue. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Miti a bassa intensità. Racconti, media, vita quotidiana e Sulla viltà. Anatomia e storia di un male comune, editi da Einaudi.