“Il santo realismo. Il Vaticano come potenza politica internazionale da Giovanni Paolo II a Francesco” di Matteo Matzuzzi

Dott. Matteo Matzuzzi, Lei è autore del libro Il santo realismo. Il Vaticano come potenza politica internazionale da Giovanni Paolo II a Francesco, edito da Luiss University Press: in che modo Giovanni Paolo II è stato protagonista di tutte le grandi partite politiche e diplomatiche che hanno coinvolto il Secolo breve?
Il santo realismo. Il Vaticano come potenza politica internazionale da Giovanni Paolo II a Francesco, Matteo MatzuzziGiovanni Paolo ha guidato la Chiesa cattolica per ventisette anni. Già questa constatazione fa comprendere quanto sia naturale il fatto che sia stato protagonista delle principali partite politiche e diplomatiche del tardo Novecento. Di più: Karol Wojtyla ha regnato nella fase in cui il Muro si stava sgretolando e la cortina calata sull’Europa pian piano si stava abbassando. Gli storici si interrogano da decenni su chi abbia dato – metaforicamente parlando – il colpo di piccone decisivo: c’è chi dice Reagan, chi Gorbacev, chi ancora Giovanni Paolo II. Io non lo so, credo che tutte e tre queste figure abbiano in qualche modo contribuito al crollo dell’Impero sovietico che di per sé mostrava già da tempo inequivocabili segnali di sfaldamento. È però indubbio che un Pontefice dell’Est europeo abbia inciso: la documentazione storiografica conferma che a Mosca e a Varsavia qualcuno andò nel panico quando sentì alla radio che il Conclave aveva scelto il giovane e dinamico arcivescovo di Cracovia. Leonid Breznev, in particolare, disse sostanzialmente che era un grosso guaio. Aveva capito prima di tutti che un Papa polacco avrebbe dato forza incommensurabile ai movimenti che impegnati per la libertà e opposti al comunismo. Giovanni Paolo II però è stato protagonista anche su altri fronti: penso alla “lotta” per la pace, con l’opposizione alle Guerre del Golfo (e in particolare all’ultima, quella del 2003 contro l’Iraq di Saddam Hussein), e per l’affermazione dei diritti umani. Mi riferisco alla certosina azione messa in campo relativamente al conflitto nell’ex Jugoslavia: il Papa chiarì che un intervento internazionale poteva essere legittimo se finalizzato a salvare vite e a evitare pulizie etniche. Insomma, è il concetto della “guerra giusta” che la Chiesa cattolica ha sempre accettato fino a Francesco, che ne ha negato totalmente la fondatezza. Anche questo, se vogliamo, è un segno dei tempi. Erroneamente, a mio giudizio, Wojtyla è stato definito “Papa filoamericano”: tale lettura è giusta se ci si ferma allo stabilimento di normali relazioni diplomatiche tra Roma e Washington o all’intesa amichevole con Ronald Reagan. Ma la questione è assai più complicata, come abbiamo visto sulle Guerre del Golfo. Giovanni Paolo II era un “no global” ante litteram e guardava con diffidenza al modello americano un po’ uniformante. L’America era “utile” in quanto rappresentava un ostacolo ai nascenti regimi di orientamento marxista, specie in America latina, ma non parlerei di adesione tout-court al modello statunitense. Tutt’altro. Wojtyla ha sempre sostenuto e incoraggiato la “particolarità” dei vari popoli. Niente a che vedere con i sovranismi contemporanei, ma l’identità per lui era una cosa seria. A ogni modo, il Pontefice polacco è andato incontro anche a grandi delusioni sul piano diplomatico. Due casi emblematici, a cominciare dalla Russia. Per anni si parlò di un suo viaggio a Mosca o quantomeno di un incontro con il Patriarca ortodosso. Niente da fare per le resistenze manifestate proprio dalla leadership patriarcale. Se fosse stato per Boris Eltsin, allora presidente, Giovanni Paolo II al Cremlino ci sarebbe andato già all’inizio degli anni Novanta. L’altra partita persa è la Cina. Al di là di qualche negoziato segreto e sotterraneo, nei ventisette anni di regno wojtylano i passi avanti con Pechino sono stati prossimi allo zero, nonostante l’avvento di Deng Xiaoping e delle sue riforme avesse fatto immaginare aperture sostanziali. Ci fu addirittura un peggioramento dei rapporti, se è vero che la Chiesa patriottica cinese (organo del regime) procedette all’ordinazione illegittima di diversi vescovi.

Quale bilancio può essere tratto del pontificato di Benedetto XVI?
Il pontificato di Benedetto XVI è stato breve e assai diverso, sul piano diplomatico, dal precedente. Ratzinger è uno studioso, un teologo che più che al papato pensava a un buen retiro sulle Alpi, circondato dagli amati libri e in compagnia del fratello sacerdote. Eppure, nei suoi otto anni di pontificato, ha lasciato tracce evidenti. La sua è stata una difficile “diplomazia della Verità” e cioè lontana mille miglia da ogni compromesso o da una visione di realpolitik. Per Benedetto XVI contava appunta la Verità della fede cattolica, il rispetto dei diritti umani e della libertà. Solo a queste condizioni si poteva negoziare e trattare. I risultati? Su molti fronti, scarsi. Penso ai rapporti freddi con le massime autorità sunnite (al Azhar su tutte) e agli incidenti con l’islam (la lezione di Ratisbona del 2006, le parole pronunciate nel 2011 dopo gli attentati alle chiese di Alessandria). In riferimento alla Cina, va registrato uno degli atti più importanti del pontificato, sebbene (e purtroppo) di scarso impatto mediatico: la “Lettera ai cattolici cinesi” del 2007. Un testo importantissimo perché il Papa squarciava un silenzio che durava da troppo tempo. In quel documento erano espressi sentimenti di vicinanza ai cattolici locali, si manteneva un lessico cordiale nei confronti del regime ma, ed è la cosa fondamentale, si ribadivano i punti fermi della Chiesa: primo, tutela della libertà religiosa. Secondo, i vescovi li ordina solo il Papa ed è a lui e a lui soltanto che devono obbedire. Niente appeasement, niente concessioni. Tant’è che Pechino fece in modo di far sparire la Lettera, che però circolò comunque. Insomma, se per “bilancio” si intendono conquiste diplomatiche, il bottino è magro. Ma va detto che Benedetto XVI non ha mai puntato a farsi spazio nel mondo, tant’è che al posto di un diplomatico come segretario di stato ha scelto un canonista, Tarcisio Bertone. Di certo va segnalata l’amicizia profonda con gli Stati Uniti di George W. Bush. Soprattutto sul versante della bioetica l’assonanza è stata totale. Memorabile fu in tal senso il viaggio di Ratzinger in America, con solenne ricevimento alla Casa Bianca, e – pochi mesi dopo – il caloroso omaggio che il Papa concesse a Bush giunto a Roma, con tanto di passeggiata nei Giardini vaticani. Se dobbiamo parlare di un Papa veramente “americano”, questo è stato senza dubbio Benedetto XVI, più che Giovanni Paolo II. Il cuore dell’azione del Pontefice tedesco era l’occidente e in primo luogo l’Europa da rievangelizzare. Ecco il suo cruccio: la terra delle grandi cattedrali medievali e delle meravigliose chiese barocche ridotta a un deserto per minoranze creative, come le ebbe a definire già alla fine degli anni Sessanta. Una profezia, visto che è proprio questa la situazione in cui si trova ad agire oggi la Chiesa nel Vecchio continente.

Nel libro Lei definisce Bergoglio «un Papa politico e attivissimo»: quali posizioni ha sin qui espresso, nel Suo ministero, Papa Francesco?
Papa Francesco è stato eletto per rivitalizzare e riformare la Chiesa. Non è un’intuizione giornalistica: nell’inverno del 2013 erano i cardinali stessi a dirlo. C’è chi parlava di “primavera” e profetizzava un futuro di cambiamenti e aggiornamenti. Francesco è un Papa politico: le sue prese di posizione sulle grandi questioni del nostro tempo, penso alle migrazioni e al cambiamento climatico, sono evidenti a tutti. Qualche giorno fa l’Osservatore Romano aveva in prima pagina una grande fotografia con delle ciminiere. Due grandi documenti del pontificato spiegano bene la definizione che ho usato, e cioè la “Laudato Si’” – che è un’enciclica che discute molto di ecologia, anche se non a tutti piace ammetterlo – e l’enciclica “Fratelli tutti” sul dialogo interreligioso. E poi i viaggi: se evidenziamo su una grande mappa i luoghi visitati da Papa Francesco ci accorgiamo che essi sono significativi e indicano una tendenza ben chiara: andare nelle periferie geografiche ed esistenziali del pianeta, dando poca importanza “al centro” ma preferendo mete che nella considerazione generale sono “minori”. Penso a Lampedusa e a Lesbo, all’Albania e al Caucaso. Ancora, lo Sri Lanka e il Bangladesh, il Myanmar, la Repubblica Centroafricana. Insomma, anche scegliere determinate mete è fare politica, soprattutto se da quei luoghi si lanciano appelli destinati a scuotere le coscienze di chi è chiamato a prendere decisioni politiche valide per la collettività. Ci sono poi i gesti eclatanti, primo fra tutti la “facilitazione” dell’intesa tra la Cuba castrista e gli Stati Uniti di Obama. Un’intesa propiziata dal Papa argentino, che prima di mettere piede sul suolo americano, nel 2015, volle recarsi proprio sull’isola caraibica. Ancora, l’abbraccio storico con il Patriarca di Mosca Kirill. Non tutto è oro, ovviamente: è sostanzialmente fallita l’opera di persuasione affinché il regime di Maduro in Venezuela venisse a patti con l’opposizione filo occidentale. C’è poi il capitolo cinese: qui è il trionfo della più pura Realpolitik. All’accordo per la nomina dei vescovi non è seguito un’analoga intesa diplomatica tra Pechino e la Santa Sede. Il ristabilimento di normali relazioni tra le parti è lontana, però qualche base è stata comunque gettata. Certo, il prezzo è alto: non una parola, da Roma, si è levata in favore dei manifestanti di Hong Kong. Ma anche questo, ribadisco, fa parte della politica realista: quel che conta è il fine. E il fine oggi ha un nome ben preciso: Cina.

Quali sfide attendono la Chiesa nel prossimo futuro?
La sfida maggiore è il rapporto con la crescente secolarizzazione. Le religioni non sono morte, tutt’altro: in Africa e in Asia il cristianesimo sta raggiungendo numeri mai visti prima nella storia. I problemi, da decenni, sono l’America latina preda delle sette e l’occidente. L’Europa, soprattutto nella sua parte centro-settentrionale, conta ormai chiese vuote e scarsità sempre più evidente di clero. Che fare? Una ricetta valida per tutte le realtà non esiste, sarebbe troppo facile. È chiaro che in una situazione del genere è facile che a trovare terreno siano i fronti più rigidi: da una parte chi vuole tornare alla più pura Tradizione, sostenendo che è la colpa è tutta del Concilio Vaticano II che avrebbe inaugurato una stagione di lassismo; dall’altra chi invece vorrebbe rivoluzionare la Chiesa, clericalizzando le donne attraverso il conferimento del sacerdozio e rovesciando la piramide che vuole il Papa al vertice della cattolicità. Un rovesciamento, si dice, nel nome della collegialità. Soluzioni opposte, molto ideologiche, che non si sa chi avrà il coraggio di portare avanti. Ottimismo o pessimismo? Vedrei il bicchiere mezzo pieno: la Chiesa esiste da duemila anni e ha conosciuto di tutto in questo lasso di tempo: persecuzioni, violenze, attacchi. Eppure è sempre lì. Di certo, Papa Francesco ha destabilizzato una situazione che a giudizio di molti era troppo statica: il tempo dirà se la destabilizzazione sia stata positiva (riattivando un corpaccione flaccido e assonnato) o se invece a essere alimentato sarà stato solo il caos. Lo si capirà probabilmente tra qualche anno, forse decennio.

Matteo Matzuzzi è nato a Udine nel 1986. Laureato all’Università di Padova in Politica internazionale e diplomazia, dal 2011 è al Foglio dove dal 2020 è caporedattore centrale. Vaticanista e responsabile della pagina settimanale “Una fogliata di libri”, ha appena mandato in stampa Il Santo Realismo. Il Vaticano come potenza politica internazionale da Giovanni Paolo II a Francesco, edito da Luiss University Press.

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