
di Ezio Raimondi
Einaudi
«È accaduto più d’una volta a Raymond Queneau d’osservare che la tradizione del romanzo occidentale, sino a Joyce, si può ricondurre a due poli, a due grandi tipi di racconto, rappresentati rispettivamente dall’Iliade e dall’Odissea. Ciò che importa nel primo, e viene insieme a definirlo, sono i personaggi immersi nella storia e le interferenze fra essi e la realtà storica; il secondo invece prende forma dalla storia di un individuo, il quale attraverso varie esperienze acquista una personalità, o afferma, ritrova la propria, appunto come succede a Ulisse: e bisogna anche aggiungere poi che il récit autobiografico costituisce quasi sempre un’Odissea, nel senso profondo di un’esistenza che ritorna su se stessa. A ragionare secondo coteste categorie, il personaggio di Renzo, nei Promessi Sposi, fa del romanzo una specie di Odissea, non solo in quanto egli è il «primo uomo» dell’azione con le sue avventure di «pellegrino», di «fuggitivo» e di «viaggiatore», ma anche perché le notizie che lo riguardano, come si leggerà nel capitolo XXXVII, sono fatte risalire ai suoi colloqui, alle sue confessioni con l’Anonimo: quasi che all’origine del preteso racconto secentesco stia, almeno per una grossa parte, il suo piacere di popolano che rievoca, di reduce che racconta la propria storia dopo averla persino immaginata in anticipo, mentre è ancora in corso. È proprio Renzo, oramai in salvo di là dall’Adda, a mormorare fra sé, in uno dei suoi monologhi di fantasia: «Che piacere, andar passeggiando su questa stessa strada tutti insieme! andar fino all’Adda in baroccio, e far merenda sulla riva, proprio sulla riva, e far vedere alle donne il luogo dove mi sono imbarcato, il prunaio da cui sono sceso, quel posto dove sono stato a guardare se c’era un battello».
Naturalmente, l’odissea di Renzo rientra negli schemi del romanzo storico e si inquadra benissimo, integrata da quella di Lucia, nell’archetipo romanzesco di uno Scott, quale lo descrive oggi un Fiedler non senza un’acre ironia: «Perplesso dapprincipio sulle proprie ambizioni o sulla vera identità e sul carattere di chi lo circonda, spesso calunniato e incompreso egli stesso, l’eroe deve fuggire, generalmente in mezzo a qualche famoso conflitto storico che raggiunge giusto allora, appropriatamente, il suo culmine. Nel frattempo l’eroina è stata rapita o se n’è andata di propria iniziativa, per motivi rivelati solo nelle ultime pagine. I due rimangono separati più a lungo possibile; ma finalmente vengono riuniti grazie all’intervento di qualche insigne personaggio o di qualche famigerato fuorilegge uscito dalla foresta (o possibilmente da entrambi). Per opera dei medesimi i loro problemi vengono risolti, i loro nemici sconfitti, e ogni imbroglio è infine chiarito. Il bene rifulge come bene, e trionfa; il male appare come tale, ed è sconfitto». Ma un romanzo composito come i Promessi Sposi, proprio mentre riprende intrecci e combinazioni della tradizione narrativa, li trasferisce sempre in un contesto di tutt’altra natura, che li deforma, li modifica radicalmente sotto il lume malizioso di una sottile polemica antisentimentale e antiromanzesca, che si rifà alla consapevolezza acutissima del male, del peccato, dei sofismi delle passioni e dei pregiudizi nell’«abisso del cuore umano». Ma «abisso del cuore umano» è una formula pascaliana delle Osservazioni sulla morale cattolica, nei Promessi Sposi si parlerà soltanto del «guazzabuglio del cuore umano»…
Anche il tema dei due giovani perseguitati dal malvagio acquista, così, un’impronta assai diversa, con funzioni strutturali che non possono non essere percepite da chi considera il racconto nel suo movimento d’insieme. Infatti, se i primi otto capitoli presentano i personaggi ancora uniti di fronte alla «sventura», come direbbe il Propp, che li colpisce e li obbliga a partire, il IX e il X seguono Lucia a Monza, nel convento di Gertrude; poi con l’XI, attraverso il nesso con il suo antagonista, si retrocede a Renzo, il quale rimane al centro della storia, dentro e fuori di Milano, sino al XVII, trasformandosi quindi per i due capitoli successivi in una specie di fantasma che rimbalza fra i discorsi dei potenti e scompare insieme con padre Cristoforo, lasciando il posto a don Rodrigo e all’innominato. Il capitolo XX ritorna a Lucia, alle sue disavventure e agli incontri che ne derivano, conclusi dopo la grande parentesi del XXVIII dall’immagine domestica di don Abbondio nel XXX. A questo punto, qualora si interpretino i capitoli XXXI e XXXII come un antefatto necessario di ciò che accade subito dopo, riprende il tema di Renzo, di nuovo a Milano, in mezzo alla peste, in cerca di Lucia; e si arriva cosi al capitolo XXXVII, che segna il ricongiungimento dei personaggi superstiti, oramai sulla via della conclusione, del cosiddetto lieto fine.»