
di Alberto Beretta Anguissola
Carocci editore
«Non basterebbero dieci vite per leggere tutti i romanzi che furono pubblicati in Francia nel XIX secolo, e anche se ci si limitasse a tener conto di quelli degli autori più significativi, non si riuscirebbe, nell’arco di una sola vita, a impadronirsi pienamente dell’argomento, anche perché, quando si fosse arrivati all’ultima pagina dell’ultimo libro in elenco, si sarebbero dimenticati quelli letti per primi, e si dovrebbe ricominciare daccapo, in un eterno e disperato mito di Sisifo. Occorre perciò procedere a campione, come fanno i sondaggisti, sperando di riuscire a selezionare un ventaglio di opere sufficientemente rappresentativo. Un vero e proprio metodo scientifico per operare la scelta non esiste ed è quindi necessaria anche un po’ di fortuna. Comunque sia, inevitabilmente alcuni di coloro che leggeranno questo libro vi troveranno delle lacune, degli aspetti trascurati, dei difetti, e avranno ragione.
Questo inconveniente è messo in particolare evidenza dal metodo che è stato qui adottato. La maggior parte delle storie della letteratura francese è costruita utilizzando una macrostruttura basata su due elementi variamente miscelati tra loro: la successione dei vari “ismi” (prima la dialettica tra Romanticismo e Classicismo, quindi il secondo Romanticismo più contestatore e libertario, poi il Realismo, il Naturalismo, e infine il Decadentismo e il Simbolismo) e la specifica individualità dello scrittore, sia sul piano biografico sia su quello della sua particolare ispirazione poetica (le sue “ossessioni”, le idee politiche, filosofiche e religiose, le immagini ricorrenti, le strutture narrative e sintattiche). Questo approccio consente di formulare delle sintesi con una certa facilità e di elaborare delle definizioni critiche che aprono, se non proprio tutte, almeno molte porte. Si tratta ad esempio di fornire al lettore, in poche pagine, l’essenza (o forse sarebbe meglio usare il termine “sostanza”) di Balzac, a prescindere dagli “accidenti”, cioè prescindendo dagli snodi concreti delle storie ch’egli inventa. Tutt’al più si individueranno diverse essenze: il realista, il visionario, il reazionario, l’anticapitalista ecc. Dopodiché in poche pagine Balzac è sistemato e il critico/storico può passare a definire un altro autore o un altro “ismo”. Sennonché, come ben sanno tutti coloro che nella vita hanno tentato di scrivere un romanzo, l’unica cosa veramente fondamentale sono gli accidenti.
Alcuni saggisti di grande valore hanno elaborato interessanti sintesi esaminando il rapporto tra la visione del mondo di un singolo autore o di un’intera corrente letteraria e le strutture sociali ed economiche prevalenti in quel periodo. Così facendo, hanno ad esempio interpretato il Romanticismo o il Decadentismo come reazioni nostalgiche degli intellettuali emarginati a causa delle trasformazioni imposte dai nuovi rapporti di produzione. Conosco saggi letterari sull’Ottocento nei quali la parola più frequente è “borghesia”, come se quei romanzi o quelle poesie fossero stati scritti solo per far dispetto ai banchieri. Questa impostazione consente di trattare l’argomento in questione in modo brillante una volta per tutte. Ma chi rinuncia per principio a queste e ad altre scorciatoie è costretto a prendere in esame uno per volta, con infinita pazienza e in modo sempre incompleto, migliaia di singoli snodi narrativi, originali invenzioni diegetiche, ritratti di personaggi, illuminanti frammenti di conversazione, avventurosi successi o fallimenti, singole gioie, disperati dolori, divertenti aneddoti e non banali analisi psicologiche.
Come nella storia dell’arte prevale spesso l’attenzione allo stile (questo è gotico, questo invece è ancora un po’ romanico, questo è manierista, quest’altro è quasi barocco), a prescindere dal significato specifico dei quadri o degli affreschi, così nella saggistica letteraria prevalgono generalmente due tipi di interesse, quello stilistico-formale (le poetiche delle varie scuole e le caratteristiche ricorrenti delle soluzioni linguistiche adottate dai vari autori) e quello contenutistico (le idee). Poco o nulla si dice per tentare di spiegare che cosa divide i grandi dai meno grandi scrittori e, all’interno della produzione dei primi, quello che fa la differenza tra i capolavori e i libri non fondamentali. Stendhal è sempre Stendhal, sia quando scrive la Chartreuse sia quando scrive Armance o Lamiel. Lo stile è più o meno lo stesso nel primo romanzo e negli altri due, la Weltanschauung è identica; grosso modo identica è anche la particolare miscela di entusiasmi romantici e sobrietà antiretorica da codice civile; le “strutture” narrative si somigliano molto. Ma il primo romanzo è degno di stare accanto all’Odissea e al Don Chisciotte perché costituisce un mito dell’età moderna, gli altri due no. Che cosa manca a Lamiel e ad Armance rispetto alla Chartreuse? Dove risiede il punto debole?
Non nello stile, non nelle idee, non nell’appartenenza all’uno o all’altro “ismo”, non nella struttura. Utilizzando i cinque termini fondamentali della retorica antica, che tanta rinnovata fortuna hanno avuto negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, potremmo dire: non nella dispositio, non nell’elocutio, non nella memoria e nemmeno nell’actio. E allora dove? Nell’inventio! Quello che rende la Chartreuse un formidabile capolavoro è il fatto che, quando Beyle la progettava, la scriveva o la dettava, la Musa gli ha ispirato delle soluzioni narrative geniali, degli episodi indimenticabili, delle analisi psicologiche intelligenti, e gli ha consentito di inventare dei personaggi a tutto tondo che al lettore sembra di aver veramente incontrato nella vita, come se fossero degli ex compagni di scuola oppure degli archetipi indistruttibili al pari di Nausicaa e Sancho Panza. Nel caso di Armance e di Lamiel la Musa è stata meno generosa.
Questo libro, di cui sono il primo a riconoscere i limiti, è in realtà piuttosto ambizioso. Non mi spingo fino a usare la formula coniata da Rousseau – Je forme une entreprise qui n’eut jamais d’exemple (“Progetto un’impresa che non fu mai tentata prima”) –, però è anche vero che non sono molti i libri così impostati. Ho cercato di parlare in modo non troppo inadeguato del romanzo francese dell’Ottocento senza mai usare le parole borghesia, Romanticismo, Naturalismo e Decadentismo, perché in realtà nessuno è più decadente di Zola e perché la borghesia era già prevalente ai tempi di Dante Alighieri. Non ho mai raccontato fatti e fatterelli, amori e dolori della vita degli autori. Ai vari capitoli corrispondono altrettanti temi – amore, infinito, guerra, vittime, Dio, denaro, morte e scienza – ma non mi sembra di aver seguito la strada della critica tematica. Quando evoco o cito una pagina o qualche riga dei romanzi in cui compaiono guerre, scienziati, preti e innamorati, non ne approfitto per illustrare e discutere le idee degli autori a riguardo ma lo faccio solo per mostrare quali spunti narrativi più o meno originali quegli scrittori hanno saputo inventare. I temi e i problemi che forniscono i titoli dei capitoli sono o vorrebbero essere dei semplici contenitori in cui infilare le pagine più belle o più curiose della narrativa di quel secolo. Insomma: questo libro vorrebbe essere un’antologia di testi che meritano di essere letti, riletti e ricordati, divisi non per autore, non secondo le scuole, le controscuole, i manifesti e le combriccole, non secondo l’ordine cronologico, ma per argomenti. Da questo punto di vista, tra un’invenzione di Balzac e un’analoga invenzione di Zola non c’è un diaframma invalicabile. In un certo senso tutti gli scrittori possono essere visti come contemporanei tra loro. […]
Scherzando, potrei dire che questo libro sarà forse utile agli aspiranti scrittori che si rendano conto di essere un po’ scarsi nell’inventio (oggi ce ne sono molti), ai quali l’immaginazione stenta a fornire spunti narrativi divertenti o appassionanti. Troveranno qui quanto di meglio i narratori francesi dell’Ottocento hanno saputo inventare.
“Perché solo otto capitoli?”, si chiederà qualcuno. Ci sarebbero tanti altri scaffali in cui sistemare scene ed episodi di romanzi interessanti, che qui non sono neanche nominati. È vero. Avrei potuto scrivere dei capitoli sul cibo, sulla moda, sugli sport, sulle malattie, sui viaggi e altro ancora. Ma proprio perché gli argomenti possibili sono innumerevoli, arriva il momento di fermarsi.»