
La Partition rappresentò in effetti la concretizzazione pratica della teoria di Jinnah: nell’agosto 1947 egli otteneva per la sua “nazione musulmana” l’affrancamento dal dominio imperiale di Londra e la creazione di uno Stato indipendente e separato da una compagine statale a maggioranza induista, come sarebbe accaduto se si fosse mantenuta l’unità territoriale dell’India britannica, a lungo rivendicata dal Congresso di Gandhi e Nehru. Come è noto, la spartizione del Raj costò lo spostamento di milioni di civili e si svolse in un clima di acuta violenza che provocò un impressionante numero di vittime, sia tra gli indiani che tra i pakistani.
Nonostante il dramma che accompagnò la nascita dei due Paesi, la fine del Raj rappresentava un fatto di portata epocale, bene inteso anche da Roma: era l’inizio della fine dell’ordine coloniale europeo. In questa cornice, India e Pakistan erano visti come Paesi che avrebbero potuto suscitare enorme influenza nella restante parte del mondo sottoposto ancora a tutela coloniale. Il Pakistan, in particolare, avrebbe potuto influenzare il mondo islamico, verso cui l’Italia nutriva un profondo riguardo; mentre l’India si presentava come il campione assoluto dell’anticolonialismo, dell’antirazzismo e di un rinnovato spirito panasiatista, quello che, per intenderci, porterà alla Conferenza di Bandung nel 1955 e che vedrà New Delhi tra i principali protagonisti. L’interesse principale da parte italiana era comunque quello di inserirsi economicamente in questi Paesi – trattandosi di protagonisti non più marginali e subordinati dello scenario internazionale – e stabilire rapporti cordiali con le loro nuove classi dirigenti al fine di ricercare le più ampie forme di collaborazione,
Per quanto riguarda la rivalità tra India e Pakistan – dato costante delle relazioni tra questi due Stati, emerso fin dalla Partition e aggravato dalla mancata risoluzione del problema del Kashmir – l’Italia puntò ad evitare prese di posizioni favorevoli all’uno o all’altra, mantenendosi pressoché neutrale; soprattutto per non compromettere le relazioni amichevoli che si riuscirono a stabilire con entrambi. Si cercò chiaramente di coordinare questo approccio con i tentativi di pacificazione promossi dai principali alleati occidentali, specie per quanto riguarda la risoluzione della questione kashmira. Questa linea rifletteva lo scarso peso specifico del potere politico dell’Italia nel Subcontinente Indiano e l’interesse a privilegiare in quest’area geopolitica, abbastanza lontana dal settore prioritario della politica estera italiana, l’ambito delle relazioni economiche.
Quale politica adottò l’Italia di De Gasperi verso India e Pakistan a partire dal conseguimento della loro indipendenza?
Negli anni di De Gasperi, il Subcontinente indiano era veramente lontano dalle priorità dell’Italia, dovendo il governo di Roma gestire la difficile situazione interna ed internazionale ereditata dalla sconfitta bellica. Va detto, però, che l’Italia ricercò fin da subito collaborazione ed appoggio diplomatico dall’India e dal Pakistan. I due Paesi dell’Asia meridionale avevano ereditato infatti dall’Impero britannico lo status di vincitori della guerra ed erano dunque entrati di diritto all’ONU. Avrebbero dunque partecipato attivamente alle deliberazioni riguardanti questioni altamente importanti per l’Italia, quali la revisione del trattato di pace, il problema delle ex colonie africane, l’ammissione italiana all’ONU. Più complicato, e si può ben comprendere, fu chieder loro appoggio sulla questione dell’affidamento all’Italia dell’amministrazione fiduciaria nelle sue ex colonie africane. Ad ogni modo, l’accettazione definitiva del principio di autodeterminazione dei popoli libici e somali, impressa nel 1949 dalla “svolta postcoloniale” di De Gasperi e Sforza, portò ad un generale mutamento d’atteggiamento da parte italiana, sempre più incline a ritenere fondate le rivendicazioni di indipendenza dei popoli asiatici e mediorientali dinanzi al persistere del colonialismo europeo.
Iniziò così a delinearsi una fase di maggiore collaborazione coi due Paesi, in particolare col Pakistan. L’India, anche per non irritare troppo i Paesi comunisti e mostrarsi neutrale ed equidistante nei confronti dei due blocchi della Guerra fredda, tendeva a mantenersi esteriormente circospetta verso i Paesi che avevano aderito all’Alleanza atlantica: da un lato, l’assunzione del ruolo di guida nella lotta contro il mantenimento delle posizioni coloniali europee, dall’altro, l’espansione del comunismo fino alle pendici dei suoi confini himalayani, dopo la vittoria di Mao Tse-tung in Cina e la riconquista cinese del Tibet, indusse Nehru a non lanciarsi troppo apertamente nelle braccia delle potenze occidentali, anzi a sostenere spesso le posizioni internazionali di Mosca e Pechino. L’India puntò quindi a ritagliarsi nel nuovo scenario internazionale un ruolo autonomo e di mediazione, specie in quegli anni gravidi di tensione provocata dalla guerra di Corea, anche se il profilo politico di Nehru non veniva ben compreso dalle principali potenze occidentali e talora era vissuto con inquietudine.
L’età degasperiana segnò, comunque, l’avvio delle prime forme di collaborazione economica con entrambi i Paesi e l’ingresso delle compagnie italiane, pubbliche e private, nei loro programmi di sviluppo e ammodernamento. Nell’autunno del 1952 inoltre il sottosegretario agli Esteri, Giuseppe Brusasca, compì la prima visita a New Delhi e a Karachi, seppure in vesti non ufficiali. Fu la premessa di un più ampio interesse italiano ad accrescere il livello di presenza in Asia e che troverà espressione nella fase successiva.
Quali tratti assunse la politica estera italiana nei confronti di India e Pakistan negli anni del centrismo post-degasperiano?
La fine dei governi De Gasperi coincise con l’aprirsi di una nuova stagione del confronto bipolare: quella del cosiddetto “disgelo” e poi della “coesistenza pacifica” seguita alla morte di Stalin e alla fine della Guerra di Corea. L’Italia era rientrata a pieno titolo nelle alleanze occidentali e aveva siglato i primi trattati di integrazione europea. Nel giro di qualche anno avrebbe dato una sistemazione provvisoria alla questione di Trieste e sarebbe stata definitivamente ammessa all’ONU. Si sarebbe quindi completamente riabilitata sul piano internazionale.
La classe di governo che dominò la scena politica italiana degli anni ‘50, tra cui spiccano figure come Pella, Scelba, Segni, Piccioni, Gronchi, Martino, Fanfani, ecc., iniziò a pensare a come espandere l’influenza italiana nei Paesi d’oltre Mediterraneo e in particolare a come ritagliarsi un ruolo che consentisse all’Italia qualche spazio d’autonomia nella gestione delle relazioni con i nuovi Paesi emergenti dell’Asia, del Medio Oriente e dell’Africa.
La lotta contro le potenze coloniali europee andava ricompattando questi Paesi: all’ONU si consolidò un blocco afro-asiatico anticolonialista, detto di “Terza forza”, che spesso trovava l’appoggio dei Paesi comunisti. Nehru era uno degli ispiratori e leader riconosciuti di questo blocco e cercava di trasmettergli uno dei tratti fondamentali della sua politica estera, quello del non-allineamento in alcuna delle alleanze militari della Guerra fredda. Nell’aprile 1955, ventinove leader di questi Paesi del “Sud del Mondo” si ritrovarono riuniti nella storica Conferenza di Bandung, in Indonesia. Molti, a dire il vero, erano già entrati nel quadro di qualche alleanza internazionale: oltre ai neutrali, tra cui spiccavano l’India, l’Indonesia e l’Egitto di Nasser, figuravano infatti sia Paesi filo-occidentali (il Pakistan ad esempio) che comunisti (la Cina). A ben vedere poi la solidarietà afro-asiatica più volte declamata era spesso soltanto una chimera. Vi erano differenti situazioni di rivalità tra questi Paesi, e proprio il caso indo-pakistano appare significativo. Sebbene quindi non mancassero delle contraddizioni e, sul piano della concretezza politica, anche dei limiti oggettivi dinanzi a questo slancio comunitario afro-asiatico, il tentativo di promuovere il non-allineamento suscitò un notevole scalpore internazionale ed ebbe un importante effetto sia sul piano psicologico che simbolico. Si trattava infatti dell’ecumene ex-coloniale che rivendicava la propria esistenza di fronte alle principali potenze e la possibilità di discutere dei problemi internazionali da un proprio punto di vista, unitario e comunitario, per cercare di sfuggire a logiche neocolonialiste o di rinnovato asservimento.
Per l’Occidente il pericolo più grave ed immediato era che molti di questi Paesi finissero comunque nell’orbita del comunismo di Mosca o Pechino: gli Stati Uniti premevano in quegli anni per costituire blocchi anticomunisti ben definiti anche in Asia e Medio Oriente, talora lasciandosi coinvolgere nelle guerre per il mantenimento di posizioni coloniali, come nel caso dell’Indocina. Alcune potenze europee infatti, come la Francia e la Gran Bretagna, stavano lottando ancora per il mantenimento dei propri imperi, eccitando notevole insofferenza da parte di molti Paesi asiatici, specie quelli della “Terza forza”, memori della secolare subordinazione coloniale subita.
In questa situazione, l’Italia, resasi ormai conto dell’irrimediabile perdita di legittimità del colonialismo europeo, maturò una visione critica dell’atteggiamento occidentale verso questa parte del mondo. Da qui, l’elaborazione di un profilo italiano d’intervento: l’Italia iniziò a presentarsi come un Paese occidentale differente, comprensivo verso le istanze di autonomia e di indipendenza dell’Asia, del Medio Oriente e dell’Africa. Era una questione molto delicata per il governo di Roma, verso cui si mostrò estremamente cauto, soprattutto per non suscitare sospetti e diffidenze da parte dei propri alleati europei. D’altronde il momento particolarmente difficile che stava attraversando la politica asiatica dell’Occidente gli offriva la possibilità di inserirsi in quel contesto, con un proprio ruolo: quello di venire incontro e di mediare, a beneficio degli obiettivi generali dell’Alleanza atlantica, con le esigenze di questi Paesi ed evitare il loro scivolamento verso il campo comunista. L’Italia iniziò quindi a presentarsi in tale veste nei confronti dei Paesi asiatici, ma anche al cospetto di Washington. L’obiettivo era chiaramente anche quello di favorire dove possibile la propria influenza e la propria penetrazione economica e commerciale.
Erano queste le idee che circolavano al Ministero degli Esteri tra il 1955 e il 1956 al tempo del “lungo viaggio in Asia” di Gaetano Martino, il primo di un ministro italiano “al di là del Canale di Suez”. Fu proprio la crisi egiziana, con la posizione anti-francese ed anti-britannica assunta da Washington, ad accrescere la propensione italiana ad agire in tale direzione, talora anche in modalità che potevano apparire spregiudicate. Arriviamo così alla fine degli anni ’50, fase del “neoatlantismo” di cui furono protagonisti Fanfani, Mattei, Giorgio La Pira insieme ad alcuni settori della diplomazia, in gergo definiti “Mau Mau”. Anche l’India entrò più specificamente negli interessi del governo italiano, considerata un valido e prestigioso partner per collaborare nel settore mediorientale, soprattutto per i buoni rapporti intessuti da Nehru con i leader del mondo arabo. Va detto, comunque, che le componenti più atlantiste della classe politica e diplomatica italiana cercarono fin da subito di moderare una situazione che spesso era passibile di provocare contrasti con gli alleati. Ed anche in India questo moderatismo sortì i suoi effetti: diverse volte si misero in programma visite ufficiali a New Delhi da parte delle massime autorità del governo, specie da Fanfani, ed altrettante volte furono rimandate sine die. Incideva anche un’altra necessità, spesso avvertita dai diplomatici italiani: quella di dover mettere in programma contestuali visite in Pakistan qualora si organizzassero viaggi in India, per non suscitare le delusioni dell’altro “paese amico” e in ottemperanza alla politica di “non preferenzialità” dell’Italia verso i due Stati asiatico-meridionali.
Come si svilupparono le relazioni tra l’Italia e il Subcontinente Indiano nei primi ‘decenni per lo sviluppo’?
Nonostante le difficoltà, l’Italia stabilì una presenza economica molto importante sia India che in Pakistan. Nelle principali città indiane si diffusero FIAT 1100, lambrette e vespe, e molte collaborazioni importanti nei più svariati rami industriali, anche nel settore energetico. Accordi di cooperazione nel settore cinematografico e culturale consentirono a molti registi ed intellettuali italiani, tra cui Roberto Rossellini, Alberto Moravia, Elsa Morante e Pier Paolo Pasolini, di affacciarsi in questo enorme e fascinoso Paese per condurre documentari, film, reportage giornalistici, facendo conoscere al pubblico italiano l’India, quanto meno nella loro interpretazione di una realtà sociale e culturale profondamente complessa.
Tuttavia a fronte di un’energica opera di inserimento in India perorato per tutti gli anni ‘50, si giunse negli anni ‘60 ad una “fase riflessiva”. Il Subcontinente Indiano stava divenendo l’area principalmente beneficiaria dei programmi di aiuto ed assistenza occidentali che si intensificarono soprattutto a partire dall’amministrazione Kennedy. L’India, in particolare era gravata da percentuali di crescita della popolazione di molto superiori e quelli della crescita economica, e gli enormi sforzi di sollevamento promossi con i “piani di sviluppo” non riuscivano a risolvere la questione di un reddito pro capite che con l’aumento demografico si veniva estremamente parcellizzando, elevando a dismisura i livelli di povertà.
L’Italia si inserì nelle organizzazioni multilaterali di “cooperazione allo sviluppo” ed “aiuto”. Era certamente un traguardo prestigioso farsi riconoscere donor internazionale ed entrare nei “club dei ricchi”. Più difficile fu tuttavia corrispondere agli oneri economici che ne derivavano, specie nelle modalità e nell’entità richieste dalle amministrazioni democratiche americane degli anni Sessanta, le quali erano fortemente persuase dall’idea di contenere il comunismo internazionale attraverso un poderoso sforzo economico da parte occidentale per la promozione dello sviluppo nel Terzo mondo. L’Italia, da parte sua, non aveva ancora risolto i problemi di sviluppo nel suo di Mezzogiorno e non era perfettamente nelle condizioni di destinare aiuti a Paesi come l’India senza che si potessero ottenere in cambio benefici per le industrie o il commercio italiano. D’altronde, i dirigenti indiani avevano optato per un’economia socialista ed autarchica, che non favoriva le prospettive di profitto delle compagnie private. L’India venne quindi un po’ marginalizzata dalle priorità strategico-economiche dell’Italia. Peraltro, dopo la guerra tra India e Cina del 1962, il non allineamento internazionale perse slancio e soprattutto ne conseguì un declino della leadership di New Delhi sul movimento dei non-allineati. Con Indira Gandhi al potere l’India assunse la fisionomia di potenza più realista, orientata all’accrescimento del proprio peso politico e militare, soprattutto nella sua dimesione regionale, e negli anni ’70 si avvicinò politicamente all’Unione Sovietica.
Col Pakistan sembrano invece esservi stati rapporti economici più costanti e relativamente prolifici, soprattutto nel settore della costruzione delle infrastrutture di base del Paese. Un momento di particolare raffreddamento dei rapporti si verificò con l’instaurazione del regime militare di Zia ul-Haq, di ispirazione fortemente autoritaria ed islamista: con profonda desolazione venne seguito il processo e la condanna a morte dell’ex primo ministro Zulfikar Ali Bhutto, che aveva consolidato per tutti gli anni ‘70 buoni rapporti con l’Italia. Poi il Pakistan divenne un Paese di prima linea nel contesto della guerra sovietica in Afghanistan, e dunque della Guerra fredda, e si dovette trovare il modo per soprassedere alla cattiva impressione e alla pessima reputazione sortita da quel regime.
In che modo il governo italiano guardava e si rapportava al Terzo Mondo e ai suoi gravosi problemi?
Dinanzi all’emergere tumultuoso di numerosi Stati indipendenti in Asia, Medio Oriente ed Africa, molti dei quali con immani problemi di ordine economico, sociale, istituzionale e di sicurezza, tutti iniziarono ad interrogarsi su come confrontarsi con queste nuove realtà internazionali. L’eredità del colonialismo si rifletteva soprattutto nella struttura economica trasmessa a questi Paesi, solitamente organizzata per essere fonte di materie prime a basso costo destinate alla madrepatria. In molti casi la decolonizzazione non rappresentò la fine dell’interdipendenza asimmetrica tra le ex madripatrie e i nuovi Paesi emergenti e, se mai, la cristallizzò in un divario sul piano politico e soprattutto economico. Le dinamiche e soprattutto il potere ordinativo del mercato internazionale prendevano il posto di tutte le altre forme di dominio. Da questo punto di vista gli Stati capitalisti del mondo occidentale godevano nei Paesi di nuova indipendenza di un vantaggio incomparabile.
Fu per questo che iniziò a delinearsi una dialettica originale tra Nord e Sud del mondo, tra i Paesi “ricchi” (o sviluppati) e i Paesi “poveri” (o in via di sviluppo): questi ultimi iniziarono ad organizzarsi unitariamente per sollecitare condizioni più eque nel campo del commercio internazionale e dello sviluppo, attraverso una serie di conferenze nell’ambito dell’UNCTAD (United Nations Conference for Trade and Development), da cui scaturì il Gruppo dei 77, una sorta di sindacato intergovernativo del Sud del mondo, che andò rivendicando il bisogno di costruire un “nuovo ordine economico” per la risoluzione dei problemi del commercio e dello sviluppo. Il coalizzarsi di tanti ed autorevoli leader mondiali intorno al tema dello sviluppo economico non poteva essere più ignorato.
Negli anni del centro-sinistra l’Italia ingaggiò un dibattito molto articolato sulla questione del Terzo mondo e della povertà anche come conseguenza della risonanza che questi temi stavano avendo, ad esempio, nel mondo cattolico, in quel clima di rinnovamento e di apertura missionaria portata avanti dal Concilio Vaticano II (è del 1964 il primo viaggio di un papa – Paolo VI – in India). Anche la critica di parte comunista era in Italia all’ordine del giorno, dalla visione dell’aiuto allo sviluppo come la “forma nuova del neocolonialismo”, all’attenzione nei riguardi dei movimenti di liberazione nazionale e dei governi che continuavano l’esperienza della “rivoluzione globale”. Il governo italiano aprì dunque un dibattito sulla politica da attuare nel Terzo mondo ed interessò pure la diplomazia. Le posizioni al suo interno erano molto diverse: c’era chi credeva all’utilità della politica degli aiuti e vi erano gli scettici; alcuni ritenevano di dovere investire risorse nei Paesi più grandi e promettenti dell’Asia, altri in America Latina e c’era chi invece sollecitava politiche d’intervento estremamente limitate al Vicino Oriente e al Nord Africa.
I risultati concreti di questo dibattito restarono però ambigui: le aree attigue al Mediterraneo africano ed orientale e il Corno d’Africa furono in effetti quelle privilegiate dagli aiuti finanziari italiani. Ma l’Italia non riuscì a dotarsi di istituzioni specializzate per la politica di aiuto né a rendere tali politiche autonome da quella di promozione delle proprie esportazioni. Al di là del riconoscimento della necessità politica e dell’opportunità economica di avere un approccio bilaterale agli aiuti, sembrò mancare un solido rapporto tra una volontà politica che rimaneva incompiuta e un interesse economico che si dirigeva verso altre destinazioni. Negli anni Sessanta era la spettacolare espansione del commercio italiano nella CEE e quello meno spettacolare, ma significativo, con i Paesi dell’Europa Orientale, a caratterizzare le relazioni economiche internazionali dell’Italia alla fine degli anni ‘60. Neppure la crisi petrolifera del decennio successivo mutò di molto il trend erratico e declinante degli aiuti dell’Italia verso il Terzo mondo, ed anzi lo peggiorò.
Il settore della cooperazione restò comunque un aperto campo d’azione, all’interno del quale si incontrarono diversi attori sociali e politici, come il volontariato cattolico, le Ong, le grandi aziende pubbliche e private, le amministrazioni locali, i partiti etc., che contribuirono a dare un’identità internazionale al ruolo dell’Italia in questa parte del mondo. Gli anni ’80 rappresentarono una svolta: proprio ai fini di un rilancio della propria credibilità internazionale l’Italia segnò un cambiamento di rotta nella politica di cooperazione, con aumenti significativi del livello di assistenza ed il conferimento di una più organica strutturazione giuridica.
Giuseppe Spagnulo è uno studioso (Ph.D) e cultore in Storia delle relazioni internazionali e in Storia contemporanea presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università “Aldo Moro” di Bari. Di recente ha pubblicato Un giovane liberale del Sud. Michele Cifarelli e la vita politica italiana dal fascismo alla stagione europeista (1938-1954), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2018. Ha scritto inoltre vari saggi su temi riguardanti il Subcontinente Indiano e la storia della politica estera italiana, nonché articoli e recensioni su vari blog e riviste nazionali, tra i quali “La nostra storia” del Corriere della Sera, “Nuova Rivista Storica” e “L’identità di Clio”.