“Il rischio politico. Istruzioni per governare l’incertezza” di Cecilia Emma Sottilotta

Il rischio politico. Istruzioni per governare l’incertezza, Cecilia Emma SottilottaProf.ssa Cecilia Emma Sottilotta, Lei è autrice del libro Il rischio politico. Istruzioni per governare l’incertezza edito da LUISS University Press: cosa si intende con l’espressione «rischio politico»?
Effettivamente quest’espressione è diventata in tempi recenti un vero e proprio “asso pigliatutto”. Alcuni esempi: all’indomani delle elezioni politiche del 4 marzo 2018, la stampa internazionale inizia a parlare di elevato “rischio politico” per l’Italia. Nei mesi successivi, lo stesso termine, rischio politico, veniva usato per descrivere, nell’ordine, la principale causa dell’innalzamento del differenziale di rendimento tra i titoli di Stato italiani e tedeschi, ovvero il cosiddetto “spread” ; il fattore che spiegava l’andamento negativo di Piazza Affari; e ancora, una minaccia alla posizione finanziaria del Monte dei Paschi di Siena, in grado di gettare una luce negativa sulla ripresa della quarta banca del Paese in ordine di grandezza. Anche a livello internazionale in tempi recenti non sono mancati i riferimenti a “rischi politici”, per descrivere situazioni anche molto diverse tra loro, come ad esempio la vulnerabilità dei mercati internazionali rispetto alle politiche commerciali e migratorie promosse negli USA dall’amministrazione Trump, le implicazioni della crisi istituzionale scatenata in Spagna dal referendum del 2017 per l’indipendenza della Catalogna, l’ascesa del partito di sinistra radicale Syriza in Grecia, una delle cause della crisi valutaria attraversata dalla Turchia nella primavera del 2018.

In linea generale (ma come spiegato nel libro, in letteratura così come nella pratica esistono innumerevoli definizioni e misure) il rischio politico può essere definito come “la probabilità che decisioni politiche, eventi o altre condizioni influenzino significativamente la redditività di un attore economico o il valore atteso di una determinata azione economica”. In effetti, che si tratti dell’indebitamento eccessivo di alcuni Paesi all’interno dell’eurozona, di sviluppi geopolitici inattesi in Medio Oriente o di potenziali battute d’arresto negli scambi internazionali per via dell’introduzione di politiche protezionistiche, della “Brexit” o del successo elettorale inatteso di un leader “populista”, la valutazione e la misurazione del rischio politico sono problemi ricorrenti e attuali per attori appartenenti al mondo del privato quali le aziende multinazionali, ma anche per i governi. Un esempio recente e concreto: non molto tempo fa sono stata invitata a parlare di Turchia e Ucraina durante un evento organizzato da un’associazione di professionisti operanti nel settore dell’industria ceramica. C’era una certa preoccupazione per quanto riguarda questi due paesi, che sono strategici per l’approvvigionamento di materie prime quali argille e feldspati, e due scenari diversi ma ugualmente preoccupanti: da un lato la svolta “autoritaria” di Erdogan e l’instabilità della lira turca, dall’altro il trascinarsi di un conflitto a bassa intensità nel Donbass. Il messaggio emerso dalla discussione in quell’occasione è chiaro: nessuna impresa, che sia piccola, media o grande, può permettersi di fare a meno di un’accurata valutazione del rischio politico per le proprie attività.

Quanto è alta la probabilità che eventi di natura politica influenzino negativamente le attività economiche e commerciali delle aziende che investono all’estero?
Dipende da tantissime cose: dal tipo di attività che l’azienda svolge all’estero, dal paese che “ospita” l’investimento, Anche elementi come le dimensioni di un’azienda o il settore in cui opera hanno un impatto fondamentale rispetto al calcolo del rischio. Men­tre un’azienda manifatturiera alla ricerca di nuove opportunità può ave­re numerose opzioni in termini di mercati di riferimento, in altri casi la libertà di scegliere un mercato meno rischioso potreb­be essere limitata. Ad esempio, le scelte delle imprese nel settore estrat­tivo in termini di posizione sono ovviamente limitate dall’esigenza di si­tuarsi vicino ai giacimenti di materie prime. Anche alcune caratteristi­che dell’impresa, come la sua nazionalità, meritano attenzione in quan­to gli effetti del “Paese d’origine” in­fluenzano in modo decisivo l’esposizione al rischio dell’azienda stessa. Esistono vari esempi di come la nazionalità di un’impresa possa costituire una fonte di rischio politico. I ventidue membri della Lega Araba hanno boicottato le compagnie israeliane e le merci Made in Israel sin dal 1948. Sebbene il boicottaggio sia stato in effetti applicato in modo incoerente nel tempo, e nonostante il suo impatto complessivo possa essere considerato limitato, non c’è dubbio che una potenziale iniziativa con un partner residente in uno dei Paesi della Lega Araba spossa essere molto più rischiosa per un’azienda israeliana che, ad esempio, un’azienda americana o britannica. Analogamente, a seguito dell’annessione della Crimea da parte della Federazione Russa nel marzo 2014, l’Unione Europea ha preso di mira le persone e le entità russe con sanzioni economiche intese a costringere le autorità russe a desistere nel loro sostegno ai ribelli separatisti nelle province orientali dell’Ucraina. Questo ha generato dei rischi di natura, appunto, politica, tanto per investitori russi che per investitori provenienti da altri paesi e attivi nella Federazione Russa.

In generale, quello che si può dire è che oggi viviamo in un mondo in cui gli equilibri politici e geopolitici sono in costante cambiamento. Quando più aumenta l’incertezza, tanto più aumenta la preoccupazione di chi opera all’estero e si trova a dovere fare i conti con eventi come crisi di governo, picchi nei flussi migratori, esplosione di conflitti a bassa intensità, e così via. Il (non semplice!) lavoro dell’analista di rischio politico è precisamente quello di tradurre l’incertezza, che è di per sé non misurabile, in valutazione del rischio, ovvero un’analisi ragionata accompagnata da stime di probabilità rispetto a un determinato evento ed alle sue possibili ricadute sull’investitore di riferimento.

Quali problemi solleva la valutazione e la misurazione del rischio politico?
Sarebbe più facile chiedere quali problemi non solleva la valutazione e la misurazione del rischio politico! Molte organizzazioni come ad esempio la SACE producono indici e misure che mirano a “misurare” il livello di rischio nei vari paesi, ovvero la probabilità più o meno alta che dall’ambiente politico possano derivare danni per la mia attività di business. Il problema è che il rischio politico non è mai una questione oggettiva: dipende tutto dalle caratteristiche dell’organizzazione le cui attività potrebbero essere danneggiate o minacciate a causa di eventi di natura politica. Ciò che per alcune aziende (o anche interi settori) costituisce un rischio, per altre può invece risultare un’opportunità. In generale si può dire che la previsione, definita in senso lato come un insieme di attività volte a stimare la probabilità di eventi futuri, è al centro dell’analisi del rischio politico.

È interessante notare che gli sforzi per sviluppare tecniche per prevedere l’impatto di eventi futuri prima di iniziare una nuova impresa hanno una storia lunga e interculturale: ad esempio, l’oracolo di Apollo a Delfi fu per secoli un’istituzione centrale dell’antica Grecia, con la Pizia, la sacerdotessa del dio, che fungeva spesso da “consulente”, offrendo consigli ai postulanti che percorrevano lunghe distanze per ottenere le sue opinioni sul futuro, ma anche L’ I Ching, anche noto come Il Libro dei Mutamenti, uno dei libri più influenti e antichi della letteratura cinese, è stato usato in passato come strumento decisionale rispetto a questioni che riguardavano spesso grandi affari di Stato e importanti investimenti.

Nel libro analizzo e discuto alcune tra le molteplici tecniche usate per prevedere eventi politici, ovvero estrapolazione statistica, teoria dei giochi e simulazioni, previsione politica basata sul giudizio di “esperti”, tecnica Delphi, sondaggi di opinione e mercati di previsione, analisi di scenario. Ciascuno di questi metodi ha pregi e difetti: l’importante è capirne il funzionamento, le potenzialità e i limiti.

Fino a che punto ci si può fidare della capacità di previsione di esperti e analisti politici?
Il tema del giudizio degli “esperti” è spinoso, anche perché numerosi esperti o presunti tali al giorno d’oggi ricevono moltissima attenzione da parte dei mezzi di comunicazione. Una delle ragioni per cui l’opinione dei “guru” è ancora apprezzata e commercializzabile oggi è proprio la loro capacità di fornire analisi vaghe la cui validità non può essere messa a confronto con i successivi sviluppi nel mondo socio-politico. Nel libro racconto un caso eclatante, ovvero un best-seller scritto nel 1985 dall’economista Ravi Batra che si intitolava “La grande depressione del 1990”. Concentrandosi sugli aspetti dannosi del capitalismo, il libro affermava che una devastante crisi economica avrebbe colpito il mondo occidentale nel 1990, una previsione che presto si rivelò completamente sbagliata: anzi, l’espansione economica degli anni Novanta ha rappresentato di fatto il più lungo periodo di crescita economica nella storia degli Stati Uniti!

Paradossalmente, se la profezia di Batra fu chiaramente un fallimento predittivo, dal punto di vista commerciale fu un enorme successo; una circostanza che dimostra che il successo nel settore dell’ “industria degli opinionisti” non dipende necessariamente da un passato di previsioni affidabili e accurate. Al contrario, la costante richiesta di opinioni da parte di esperti sembra essere potenziata da ciò che lo studioso John Scott Armstrong chiama la “teoria dei creduloni”: “Non importa quante prove esistano che non esistono veri veggenti, i creduloni saranno sempre pronti a pagare per mantenere i veggenti!”. Insomma, è molto raro che chi sbaglia nel fare una previsione poi venga chiamato a rispondere dei propri errori. D’altronde promuovere la responsabilità nell’analisi del rischio politico non è un compito facile. L’intero settore della consulenza in questo campo tende a essere piuttosto secretivo, in quanto, comprensibilmente, la maggior parte delle società di consulenza non sono disposte a divulgare le proprie metodologie per ragioni di strategia commerciale e di concorrenza. Come notato da un professionista del settore che ho intervistato per realizzare il libro, non ci sono incentivi a promuovere la responsabilità esterna, soprattutto da parte di società di consulenza con una reputazione consolidata: è ragionevole aspettarsi che esse non gradiscano alcuna forma di valutazione pubblica del loro operato. Come osservato da un altro professionista, si potrebbe sostenere che la responsabilità delle principali società di consulenza di rischio politico – almeno nei confronti dei propri clienti – è testimoniata dalla loro stessa sopravvivenza nel tempo in un mercato competitivo, nel senso che, se le valutazioni prodotte risultano essere imprecise, l’analista è comunque tenuto a spiegarne le ragioni, anche se ciò accade a porte chiuse. Non tutto è perduto insomma. Il messaggio importante che emerge da un’attenta analisi dello stato dell’arte nel campo della previsione politica è che non bisogna confondere la cosiddetta “expertise” con la capacità di fornire previsioni accurate: per ottenere previsioni accurate è necessario avere tanto competenze di merito quanto di “stima di probabilità”, ma allo stesso tempo il giudizio degli analisti politici non può essere ridotto alla stima di probabilità perché ha un ruolo ben più ampio: quello di modellare domande e problemi.

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