“Il riposo dell’imperatore. L’otium da Augusto alla tarda antichità” di Massimiliano Papini

Prof. Massimiliano Papini, Lei è autore del libro Il riposo dell’imperatore. L’otium da Augusto alla tarda antichità, edito da Laterza: innanzitutto, che significato aveva, nella cultura romana, il termine otium?
Il riposo dell'imperatore. L'otium da Augusto alla tarda antichità, Massimiliano PapiniOtium è un vocabolo che, non chiaro etimologicamente e traducibile con difficoltà, include un ampio spettro di interessi e attività non riducibili al dolce far niente e ha aspetti molteplici a seconda dei ruoli degli individui e dei punti di vista di chi giudica. Alcuni aggettivi, positivi e negativi, specificano la voce già di per sé polivalente: dulce, honestum, moderatum, pingue, tranquillum, bonum, malum, desidiosum, ignavum, ignobile, iners, luxuriosum, occupatum, triste. L’otium a Roma è spesso guardato con diffidenza, perché sentito come antitetico all’ideologia dell’impegno e al primato degli affari (negotia) al servizio della collettività; siccome la reprimenda è sempre in agguato, così l’otium, anche nelle sue forme più accettabili, ha sempre bisogno di legittimazione al cospetto dei più tradizionali modelli etico-politici. Ma non era facile tenerne a bada il desiderio. Poteva capitare che, se sfrenato, l’otium collidesse più del dovuto con i valori ancestrali; di qui il rischio di pericoloso scivolamento verso debolezze quali ignavia, inertialuxuria.

L’otium è dunque l’opposto dell’operosità e dell’impegno; ma l’otium che ritempra e non fa svanire la virtù è talvolta desiderabile dagli attivi, così ché, dopo una rapida pausa, più freschi possano riprendere a lavorare. Per esempio, nel II secolo a.C. i grandi amici P. Cornelio Scipione Emiliano e C. Lelio, il console del 140 a.C., vagando per le spiagge di Caieta e di Laurentum, raccoglievano conchiglie e testacei: per loro era come tornare bambini. Inoltre, il giureconsulto Q. Muzio Scevola, genero di Lelio e testimone di quelle pause, si dice che se la cavasse nel gioco della palla, un diversivo dalle attività forensi; sembra poi che egli, dopo aver bene e a lungo dato norme di diritto civile e pratiche religiose, giocasse a dadi e a dama. Come nelle cose serie egli s’atteggiava da Scevola, così negli svaghi si comportava da homo, cui la natura nega un ininterrotto affaccendarsi. Di questa abitudine parla lo storico di età tiberiana, Valerio Massimo, il quale aggiunge un punto di riferimento paradigmatico: persino Omero aveva accordato ad Achille di rilassarsi con la cetra. Stazio, poeta dei decenni finali del I secolo, in un’epistola in versi esorta l’amico avvocato Vitorio Marcello a deporre l’assiduo lavoro e a lasciare la calura d’inizio estate di una Roma ormai svuotata a favore di Praeneste (Palestrina), AriciaTusculum, Tibur (Tivoli) e le rive del fiume Aniene: fa bene il riposo prima del ritorno alle solite incombenze, perché dopo gli otia aumenta la virtus, il che si giustifica di nuovo tramite l’esempio di Achille, il quale, dopo aver cantato di Briseide (una poesia d’amore) e appena deposta la cetra, con più ardore pugnò contro Ettore.

Come trascorrevano le loro giornate gli imperatori lontano da Roma?
Stando ad alcuni resoconti più o meno stringati trasmessi per esempio da Svetonio nelle vite dei Cesari o dallo storico Cassio Dione, la routine quotidiana e domestica degli imperatori considerati buoni è ordinatamente scandita da riposi, letture e pratiche ludiche (i bagordi invadono le giornate di quelli cattivi, al punto da fagocitare le attività più connaturate al ruolo).

Augusto dopo il pasto di mezzogiorno così com’era, con indosso vestiti e scarpe, si riposava un po’ con una mano sugli occhi, mentre dopo cena si ritirava per lavorare su una specie di divano per leggere e scrivere, dove restava fino a notte fonda, finché non avesse disbrigato tutte o quasi le pratiche del giorno prima. Poi s’addormentava, ma non per più di sette ore, e neanche ininterrottamente, perché si svegliava tre o quattro volte: in caso di insonnia, chiamava dei lettori o dei novellieri, per rimettersi a dormire sin oltre l’alba.

Vespasiano s’alzava sempre presto, persino in piena notte; letta l’intera corrispondenza e i rapporti di tutti gli ufficiali di corte, faceva entrare gli amici e, durante il saluto, lui stesso si calzava le scarpe e si vestiva. Dopo aver compiuto ogni affare, andava a passeggio in lettiga e poi prendeva un po’ di riposo tenendo al proprio fianco una delle tante concubine; dalla sua camera passava in bagno, poi nel triclinium e in nessun altro momento, a quanto dicono, era d’umore migliore e più indulgente, così che il personale di casa coglieva subito l’occasione per indirizzargli richieste.

Settimio Severo, almeno in tempo di pace, di notte faceva qualcosa fino all’alba. Allora passeggiava in ascolto degli affari attinenti al governo dell’impero e amministrava la giustizia sino a mezzogiorno, salvo che per qualche solenne festività; e andava a cavallo per poi lavarsi dopo alcuni allenamenti ginnici. Si coricava dopo un pranzo parco, da solo o in compagnia dei figli. Alzatosi, si dedicava a ulteriori doveri e passeggiava esercitandosi nella lingua greca e latina. Verso sera, si lavava e cenava con chi avesse presso di sé, perché approntava banchetti sontuosi con altri commensali solo in circostanze speciali.

Gli imperatori periodicamente si rilassavano specie nelle loro proprietà fuori Roma, nelle quali gli impegni però non cessavano. Rispetto alle ville dei privati, queste potevano risaltare per estensione, funzioni delle strutture e livello degli apparati decorativi; ma le conoscenze archeologiche al riguardo risultano spesso incomplete (e le ricostruzioni moderne talora possono ingannare), e le fonti letterarie sono scarne perché è raro che si soffermino a descriverne alcune parti se non in casi eccezionali. Perciò è difficile ricostruire la giornata-tipo di un imperatore in villa, se non in un caso eccezionale, riferibile all’autunno di un anno compreso tra il 139 e il 145 e noto grazie alla corrispondenza tra il retore Frontone e l’allievo Marco Aurelio, figlio adottivo di Antonino Pio e allora ventenne. Giunto insieme alla famiglia imperiale in un complesso tardo-traianeo/proto-adrianeo ereditato da Antonino, a 60 km circa da Roma, nella valle del fiume Sacco tra Signia e Anagnia, in località Villamagna. Marco riferisce di essersi alzato presto, di aver studiato dall’ora nona della notte alla seconda del giorno (dalle tre del mattino alle otto) e passeggiato dalla seconda alla terza ora (dalle otto alle nove) in sandali davanti al cubiculum e di esser poi andato con calzari e mantelletto a salutare il signore, ossia Antonino. Segue una caccia in cui padre e figlio sentirono dire che erano stati presi dei cinghiali, senza averne visto neppure l’ombra. Dopo aver scalato un’altura abbastanza ripida, ritornano nella domus dopo mezzogiorno. A questo punto, è tempo di libri per Marco, circa due ore disteso a letto a leggere con attenzione due orazioni di Catone ritirate dalla biblioteca di Apollo sul Palatino. Dopodiché, si mette a scrivere un breve pezzo da dedicare alle Acque o a Vulcano (cioè da gettare nell’acqua o nel fuoco), con esito infelice, ammette: non ha avuto successo, perché il risultato è il modesto saggio di un cacciatore o di un vendemmiatore, come coloro che fanno risuonare intorno alla sua stanza le loro grida festose, odiose e sgradevoli alla stregua di quelle avvocatesche. La lettera termina con il cenno a un raffreddore, causato da una passeggiata in sandali o dall’aver mal scritto (una battuta, come a dire che la tiepida ispirazione lo ha raffreddato). Un’altra epistola, pare del giorno seguente, offre un ulteriore ragguaglio. Dopo aver dormito più del solito, dall’undicesima ora alla terza (dalle cinque di mattina alle nove) un po’ scrive, con esito meno mediocre del giorno prima, un po’ legge il De agricoltura di Catone: una lettura consona in campagna, in quanto Catone elogia la nobiltà dell’agricoltura, anche perché, secondo la mentalità romana tradizionale, rappresenta la fonte di guadagno che più di ogni altra appare dignitosa. Dopo aver curato la gola con acqua e miele, raggiunge il padre per assisterlo durante il sacrificio per una divinità non esplicitata. Per il lunch, verso le dieci, mangia un po’ di pane e vede altri divorare crostacei, cipolle e pescetti ripieni; segue la vendemmia in cui tutti fanno una bella sudata, gridando come i rustici, il che gli fa balenare alla mente un’ennesima citazione di Novio. Poco dopo l’ora sesta (mezzogiorno) tornano nella domus e segue un po’ di studio infruttuoso. A questo punto, Marco conversa con la mammina – così la chiama, con il diminutivo – seduta sul letto intorno a cosa stiano facendo Frontone o la sua piccoletta, la figlia Cornelia Grazia. Ma durante queste chiacchiere, suona il gong ad annunciare il passaggio del padre nel balneum. Dopodiché, la famiglia mangia nel frantoio intorno alle 16?) e con piacere si mette ad ascoltare i contadini scambiarsi frizzi.

Quali forme di otium adottarono gli imperatori, e come e in che misura questo influì sulla costruzione e sulla valutazione delle loro figure?
Gli imperatori potevano praticare tante forme di otium: per esempio, leggere e scrivere (anche poesie leggere), pescare, giocare a dadi. Quanto anche l’otium non ricada nella sfera propriamente privata ma possa inserirsi nel repertorio delle virtù imperiali da elogiare è dimostrato al meglio da un esempio. Una volta eletto console suffetto dal settembre all’ottobre del 100, secondo la consuetudine, il 1° settembre, Plinio il Giovane, nipote di Plinio il Vecchio, tenne una lunga orazione di pubblico ringraziamento a Traiano, il Panegirico, davanti a quel senato a suo parere finalmente tornato a gestire la cosa pubblica, dopo esser stato costretto sotto Domiziano a riunirsi per non far nulla o a ratificare crimini. Poco dopo (nel 101?), Plinio volle poi rielaborare più ampiamente quel discorso che trabocca di elogi sperticati ma che si professa alieno dall’adulazione e piuttosto frutto di amore sincero. Egli ritrae Traiano come un indefesso lavoratore, che pur avrebbe potuto fruire di momenti di otium o quies; ma no, lui non si risparmia nell’ascoltare i desideri delle province e le suppliche delle città e nell’accogliere legazioni. Ebbene, specie i capitoli 81-82 sono dedicati all’otium, parimenti positivo, ma riscattato perché convertito o quasi in una fatica (labor), non per caso una delle virtù con il maggior numero di occorrenze nel Panegirico (sedici). La sua è una faticosa attività; ma, per quanto oppresso dagli impegni, dietro a una richiesta specifica egli a nessuno rifiuta la gloria della quies, concede l’otium come il migliore di ogni bene e non fa rimanere a forza chi abbia esercitato una carica. Una volta in pari con gli incessanti negotia, ecco che per il principe cambiare occupazione diventa una sorta di ristoro. La sua ricreazione? Una graditissima fatica: perlustrare le selve, stanare le fiere, affaticandosi a cercarle e a prenderle, valicare le cime di montagne e avanzare in totale solitudine su per orridi greppi, visitare boschi sacri e adorarne le divinità, senza accompagnamento, a piedi e senza armi. Tutto ciò, in passato, era sia esercizio e diletto della gioventù sia allenamento dei futuri generali. Sarà pure un elogio idealizzato, ma l’imperatore fu un apripista: la caccia continuò a essere praticata dai successori. Nella visione di Plinio, Traiano gradisce inoltre testare la forza per mare, al timone, gareggiando nel frangere le onde e mitigare venti contrari: non casualmente, in uno dei rilievi della colonna Traiana egli è effigiato a bordo della nave ammiraglia, di cui regge il timone, un rimando alla metafora del buon governo e al principe che ha preso in mano il gubernaculum della salvezza pubblica. Il plauso rifulge maggiormente a contrasto con un richiamo esplicito a Domiziano, incapace di sopportare la quies del lago Albano e il sonno e il silenzio di quello a Baiae; questi non sapeva tollerare il movimento dei remi e il loro rumore senza esser colto da paura e stava fermo e inerte su un naviglio attaccato a un cavo per farsi trasportare: che sciagura, s’indigna Plinio, vedere un principe nella scia di un altro pilota, alla stregua di una nave fatta prigioniera. In breve, sono proprio gli svaghi a fornire le indicazioni più fededegne su gravità, probità ed equilibro di un uomo. Perché chi è mai così dissoluto da non mostrare, quando occupato, qualche parvenza di contegno? Gran parte dei prìncipi non trascorreva l’otium a giocare a dadi, in impudicizie e nel lusso, tuffandosi nei vizi appena allentati gli impegni? Insomma, l’otium ci rivela.

Come mutò, nei differenti periodi e con indoli diverse, l’otium imperiale?
Le forme di otium degli imperatori sono molteplici e dipendono dalle loro indoli (ed età). Qualche esempio. Tiberio aveva un’inclinazione per gli indovinelli mitologici specie di tema omerico rivolti agli amati grammatici, secondo interessi correnti nell’erudizione storico-letteraria della prima età imperiale (chi era la madre di Ecuba? che nome aveva Achille tra le fanciulle? che cosa avevano l’abitudine di cantare le Sirene?). Di Nerone è nota la passione per la cithara. Dopo aver appreso nell’infanzia la musica (per i Romani non confacente a un personaggio autorevole e alla dignità civica), non appena salito al potere, chiamò presso di sé il citaredo più in voga del momento; per giorni e giorni dopo cena stette seduto accanto a lui, esercitandosi senza tralasciare alcun accorgimento per conservare e potenziare la voce, prendendo di nuovo sul serio la propria formazione, sin troppo. Inoltre, appassionatissimo di cavalli, un entusiasmo ereditato dal nonno e dal padre, Nerone fu ossessionato dai giochi del circo dalla più tenera età; tifoso della fazione dei Verdi, agli esordi del principato si dilettava ogni giorno con quadrighe d’avorio su un tavolo da gioco e lasciava i ritiri nella smania di assistere a tutti i ludi equestri, inclusi i meno titolati, prima di nascosto e poi apertamente. Di conseguenza, gli venne il desiderio di cimentarsi di persona come auriga di quadrighe con un buon pretesto, in quanto memore di come le gare equestri fossero state esercitate da re e antichi condottieri per divenire oggetto di canti celebrativi dei poeti sacri ad Apollo e di cerimonie sacre agli dèi. Domiziano aveva la mania agli inizi del regno di prendersi qualche ora di solitudine, acchiappando mosche per infilzarle con uno stilo molto acuminato, così che alla domanda di un tale se il Cesare dentro si trovasse in compagnia di qualcuno, si tramanda la battuta spiritosa di Q. Vibio Crispo, un amico di Vespasiano: «Nemmeno una mosca»: un passatempo che nelle fonti ostili a quel principe assurge a segno di sadismo e di follia. Ancora, Adriano sin da giovane amò la caccia, al punto che tale attività con lui superò la sfera dell’otium. Non fu una sorta di compensazione per una politica estera non orientata verso le conquiste o, in modo più vago, un’espressione di cultura e civilizzazione; piuttosto, la caccia finì per esser accolta nel canone delle virtù imperiali quale espressione di virtus. Le notizie degli autori antichi sulle forme di otium degli imperatori sono numerose, ma la loro attendibilità richiede di volta in volta un vaglio critico, filologico e storico. Le conoscenze ricavabili dai dati archeologici sono altrettanto preziose perché aggiungono molte informazioni e non si limitano a materializzare le fonti scritte. Certo, tra aneddoti, stereotipi, semplificazioni e travisamenti antichi, lacune nelle conoscenze e moderne congetture, non di rado la verità storica sembrerà inafferrabile; ma, per riprendere una frase di Marguerite Yourcenar nei taccuini di appunti delle Memorie di Adriano, «accade della verità storica né più né meno come di tutte le altre: ci si sbaglia, più o meno».

Massimiliano Papini è professore di Archeologia e Storia dell’arte greca e romana presso la Facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza Università di Roma. Archeologo classico, con interessi per numerose tematiche del mondo antico greco e romano, è specializzato nello studio delle arti figurative (è recente il suo coinvolgimento nell’indagine dei bronzi scoperti nel santuario del Bagno Grande a San Casciano) e dal 2012 è membro corrispondente dell’Istituto Archeologico Germanico. Oltre a saggi su riviste specializzate e cataloghi di mostre e alla curatela di più opere, ha pubblicato numerose monografie: per Laterza Città sepolte e rovine nel mondo greco e romano (2011) e Fidia. L’uomo che scolpì gli dei (2014).

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