
Quale impatto ha avuto la Brexit sulle dinamiche elettorali e il sistema partitico britannici?
Ancora nelle elezioni politiche del 2017, la Brexit non era un tema elettorale rilevante, visto che entrambi i maggiori partiti avevano concordato di dare avvio ai due anni di negoziati con l’Ue previsti dal Trattato di Lisbona. La Brexit è cruciale, invece, nelle elezioni del 2019, che si tengono in un contesto radicalmente diverso. Il trionfo elettorale di Johnson alle urne, otto mesi dopo il voto europeo, evidenzia la maggior capacità dei conservatori di unire il fronte di coloro che avevano votato per Brexit al referendum, mentre il campo dei remainer è diviso tra laburisti, liberal-democratici, verdi e altre formazioni minori.
Anche il profilo elettorale dei due maggiori partiti è molto cambiato. Grazie alla posizione decisa di Johnson sulla Brexit (e alla sua leadership istrionica), all’impopolarità di Corbyn (percepito come ‘distante e metropolitano’ nei collegi marginali dell’ex ‘muro rosso’), nella mappa delle ultime elezioni – soprattutto in Inghilterra – spicca sempre di più il cleavage urbano-rurale. La mappa elettorale inglese vede piccoli spazi urbani rossi in una marea blu di zone rurali conservatrici, con una dinamica visivamente più forte di quella emersa in altri paesi con il voto populista nell’elettorato rurale (o periferico), a bassa scolarizzazione, ostile a immigrazione e globalizzazione.
Nel 2019, il Labour ha perso voti soprattutto nelle aree dove il ‘Leave’ aveva ottenuto più del 60% nel referendum. L’esito elettorale è stato il frutto combinato del logoramento del gioco parlamentare, della scommessa di Johnson di portare a termine il processo di Brexit, oltre che della impopolarità di Corbyn, anche all’interno del partito laburista. Secondo un sondaggio effettuato dopo il voto, l’impopolarità di Corbyn superava leggermente il tema Brexit come principale ragione della vittoria dei conservatori: più della metà degli elettori che avevano disertato il Labour citava Corbyn come motivo principale.
Il Regno Unito, dopo essere stata a lungo una delle democrazie più stabili e prevedibili, negli ultimi anni ha sperimentato una elevata volatilità, con l’incapacità dei sondaggi di prevedere l’imminente esito elettorale. È, però, anche vero che la sopravvivenza del sistema elettorale maggioritario – nella difesa del quale convergono le convenienze dei due maggiori partiti – è un potente meccanismo che rende alquanto improbabile una trasformazione radicale del sistema partitico che, nonostante Brexit, continua ad essere imperniato sulla competizione tra conservatori e laburisti, quantomeno nella competizione elettorale nazionale per il parlamento di Westminster.
Come è cambiato il rapporto tra potere esecutivo e legislativo in seguito all’uscita dall’Unione Europea?
Gli anni del processo di uscita dalla Ue sono stati caratterizzati da fortissime tensioni tra l’esecutivo ed il parlamento, culminate nella sospensione dei lavori parlamentari – o prorogation – voluta da Boris Johnson nell’agosto 2019. Ci siamo chiesti, però, se questo scontro sia stato il risultato di cambiamenti strutturali nel rapporto tra il potere esecutivo e quello legislativo, o piuttosto il portato di una particolare contingenza – il governo di minoranza guidato da Theresa May – venuta a crearsi negli anni della Brexit.
La più recente ricerca empirica ha dimostrato come il parlamento non sia un attore irrilevante nel processo decisionale. Riesce infatti ad esercitare una certa influenza ‘preventiva’ sull’agenda e le proposte legislative del governo. I governi si confrontano poi con un crescente ribellismo parlamentare. Infine, non c’è più una stabile maggioranza conservatrice alla Camera dei Lords, rendendo le votazioni più incerte.
Su questo quadro in evoluzione, si sono innestati gli anni della Brexit, che hanno visto il parlamento – ovvero una maggioranza composta dalle opposizioni e da parte del partito conservatore – scontrarsi con il governo sulle strategie negoziali, le modalità di scrutinio parlamentare, i tempi dell’uscita e, più in generale, la natura stessa della Brexit. Per fare un solo esempio, il primo voto sull’accordo di uscita dall’Ue – nel gennaio 2019 – ha rappresentato la sconfitta più ampia mai registrata da un governo britannico alla Camera dei Comuni.
Che il processo della Brexit abbia rappresentato, quindi, un momento di enorme difficoltà per l’esecutivo è fuori discussione. E ancora adesso, nonostante il governo Johnson disponga di una solida maggioranza alla Camera dei Comuni e controlli un partito parlamentare nel complesso coeso sulla questione europea, tanto la crisi pandemica quanto i voti per l’implementazione della Brexit dimostrano come il parlamento sia capace di contestare, rallentare e, talvolta, modificare le proposte politiche dell’esecutivo.
Se il processo della Brexit ha riaffermato, in generale, il ruolo dell’esecutivo nel sistema politico britannico, ha contemporaneamente evidenziando i contrappesi – politici ed istituzionali – esistenti.
Quali conseguenze ha avuto la Brexit sulle relazioni politico-istituzionali tra l’amministrazione centrale e quelle regionali di Galles, Irlanda del Nord e Scozia?
La Brexit ha avuto evidenti and importanti conseguenze sul rapporto tra stato centrale e le amministrazioni devolute delle cosiddette ‘periferie celtiche’. Le ripercussioni più dirette e di breve/medio periodo vanno tutte nella direzione di un considerevole aumento delle tensioni preesistenti, sia nei rapporti tra centro e periferie sia, all’interno dell’Irlanda del Nord, nei rapporti tra le due comunità etniche: protestanti/unionisti vs. cattolici/repubblicani.
Il processo della Brexit ha innescato almeno due scontri giuridico-istituzionali tra organi centrali e amministrazioni devolute finiti davanti alla Corte Suprema: i cosiddetti casi Miller (2016-17) e Scotland Continuity Bill (2018). Entrambi hanno fornito una chiarificazione costituzionale che ha coerentemente ribadito la natura unitaria di tutto il Regno Unito. Allo stesso tempo, i negoziati tra Regno Unito ed Ue (sia per l’uscita sia per le relazioni reciproche post Brexit) hanno sancito l’eccezionalità della posizione nordirlandese – vincolata a precedenti trattati internazionali – rispetto a quella di Galles e Scozia, che restano questioni totalmente interne allo stato britannico.
Il processo della Brexit ha anche fornito al governo centrale, animato da un nazionalismo anglo-britannico, un’occasione per imprimere una dinamica ricentralizzante, che mira a fermare e spingere indietro il processo della devolution. Queste dinamiche hanno innescato delle reazioni separatiste, soprattutto in Scozia ed Irlanda del Nord, dove la decisione in merito alla Brexit, presa con il famoso referendum del giugno 2016, presenta un vizio di legittimità democratica, avendo queste due regioni votato contro l’uscita dalla Ue.
Mentre le ambizioni separatiste dei repubblicani nordirlandesi sono, però, frenate dagli attuali rapporti demografici tra le due comunità e dalle possibili reazioni violente della comunità protestante/unionista, il governo regionale scozzese ha già manifestato la propria determinazione ad ottenere un secondo referendum sull’indipendenza della Scozia (dopo quello del 2014). I sondaggi danno un’adesione alla causa indipendentista ormai consolidata sopra al 40% e con picchi superiori al 50%. Sui possibili esiti di questa importante partita, tuttavia, entrano in gioco anche le possibili conseguenze di lungo periodo della Brexit. L’uscita del Regno Unito dalla Ue – ed il progressivo allontanamento che ne conseguirà in termini regolamentari, legislativi e commerciali – potrebbe rendere l’opzione indipendentista scozzese molto più estrema e, quindi, meno appetibile. Essa, infatti, comporterebbe una separazione molto più netta e traumatica dal resto del Regno Unito di quanto non sarebbe risultato nello scenario pre-Brexit.
Quale futuro, a Suo avviso, per la politica del Regno Unito?
A nostro avviso, la Brexit ha chiaramente spinto il sistema politico del Regno Unito verso una centralizzazione. Tuttavia, questo risultato è tanto evidente quanto provvisorio, essendo il sistema partitico basato su un comportamento elettorale ancora piuttosto volatile ed essendo il progetto politico sottostante profondamente divisivo all’interno della politica britannica. Infatti, al di fuori del partito conservatore, quasi tutte le altre forze politiche avanzano loro specifiche proposte di riforma che vanno nella direzione opposta – da un sistema elettorale proporzionale, ad una riforma costituzionale di tipo federale, passando per il mantenimento o il rafforzamento della Corte Suprema.
L’interesse del governo conservatore va chiaramente verso una preservazione dello status quo. Nel breve termine, le proposte di abolizione del sistema elettorale maggioritario – che rimbalzano periodicamente nel dibattito pubblico – non appaiono in grado di consolidarsi in azioni concrete. In parallelo, il rapporto governo-parlamento sembra anch’esso destinato a non vedere cambiamenti cruciali nel breve periodo. Per esempio, il completamento della riforma della Camera dei Lord è del tutto fuori dall’orizzonte programmatico del governo, che anzi agisce sulla base di un programma elettorale nel quale si propone l’abolizione del Fixed-term Parliaments Act del 2011 che aveva, almeno nelle intenzioni dei riformatori, l’obiettivo di privare il governo del potere di sciogliere il parlamento in modo discrezionale.
Ciò non vuol dire che il governo non abbia propositi, in un certo senso, ‘riformisti’. Gli obiettivi di riforma della Corte Suprema – troppo attiva politicamente, secondo i suoi critici – portano ad un suo ridimensionamento. È inoltre evidente la volontà di ridisegnare i contorni costituzionali dello stato in senso strettamente unitario e più centralizzato.
Le tensioni presenti nel sistema politico britannico possono portare ad esiti molto diversi. Quel che è certo, però, è che le sue tradizionali caratteristiche di stabilità e prevedibilità sono ormai un lontano ricordo.
Edoardo Bressanelli è ricercatore ‘Montalcini’ alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e Senior Visiting Research Fellow al King’s College di Londra. È autore del libro Europarties after Enlargement, pubblicato da Palgrave Macmillan, e curatore di cinque volumi sulla politica europea, italiana e britannica, tra cui ‘Brexit two years on: Where are we now?’ per The Political Quarterly (con G. Baldini ed E. Massetti). Insegna politica comparata e dell’Unione Europea.