“Il regno dell’uroboro” di Michele Ainis

Il regno dell'uroboro, Michele AinisIl regno dell’uroboro
di Michele Ainis
La Nave di Teseo

«L’uomo è un animale sociale, diceva Aristotele: si realizza stando insieme agli altri uomini. Ma ormai non più, non è più così. Gli individui si sono progressivamente distaccati dai gruppi sociali di cui furono parte – la scuola, il quartiere, l’oratorio, la fabbrica, il partito. Hanno perso il senso stesso dell’appartenenza, del vissuto comune. E così tutti i corpi intermedi sono entrati in crisi, e così ogni identità collettiva è evaporata come una pozzanghera d’estate, lasciando sulle strade un popolo senza identità. Da qui il nuovo fenomeno di cui siamo attori involontari: l’era della disinformazione è anche l’epoca della disintermediazione.

La parola si deve a Paul Hawken, che la usò in un libro del 1983; ma il concetto prende forma grazie al web, e da lì s’irradia nel commercio, nella cultura collettiva, nei nuovi orizzonti politici e sociali. In sintesi, si tratta del fenomeno che mette in rapporto produttori e fruitori di un bene o d’un servizio, saltando qualunque intermediario; un rapporto diretto, orizzontale, e per l’appunto senza medium, senza nessuno che stia in mezzo. Più comodo, più rapido, e anche più economico, giacché altrimenti il grossista (o chi per lui) intascherebbe la sua parte. E allora come mai non ci avevamo pensato nei secoli trascorsi? Risposta: perché non era ancora apparsa la tecnologia digitale. È stata quest’ultima, ad esempio, a permettere a chiunque di pubblicare da sé i propri libri (self publishing), scavalcando l’editore: basta utilizzare una piattaforma online, stampare l’opera in edizione digitale, e poi metterla in vendita attraverso i canali della Rete. Risultato? Negli Usa i titoli autopubblicati sono almeno il triplo rispetto a quelli con un editore; in Italia il sito più diffuso (Ilmiolibro) è stato utilizzato da oltre 35 mila autori nei primi quattro anni, dal 2012 al 2015. […]

È infatti questo che ci sta accadendo: un sentimento collettivo d’esclusione, di lontananza rispetto alle vite degli altri, come se ciascuno fosse un’isola, una boa che galleggia in mare aperto. La solitudine si diffonde tra gli adolescenti, presso i quali cresce il fenomeno del ritiro sociale, altrimenti detto hikikomori. Diventa una prigione per gli anziani, la cui unica compagna è quasi sempre la tv. Infine sommerge come un’onda ogni generazione, ogni ceto sociale, ogni contrada del nostro territorio. Ne sono prova le ricerche sociologiche, oltre che l’esperienza di cui siamo tutti testimoni. 8,5 milioni di italiani (la metà al Nord) vivono da soli; e molti di più si sentono soli, senza un affetto, senza il conforto di un amante o d’un amico. Così, nel 2015 Eurostat ha certificato che il 13,2% degli italiani non ha nessuno cui rivolgersi nei momenti di difficoltà: la percentuale più alta d’Europa. Mentre l’11,9% non sa indicare un conoscente né un parente con cui parli abitualmente dei propri affanni, dei propri problemi. Non a caso Telefono Amico Italia riceve quasi 50 mila chiamate l’anno. Non a caso, stando a un Rapporto Censis (dicembre 2014), il 47% degli italiani dichiara di rimanere da solo in media per 5 ore al giorno. […]

Del resto come mai potremmo smascherare il falso, quando nessuna controverità ha accesso alle nostre stanze telematiche? È infatti questa la nuova condizione umana: una solitudine di massa, come se il gomitolo delle nostre relazioni si fosse riavvolto tutt’a un tratto, lasciandoci senza un filo che ci connetta agli altri. E lasciandoci, perciò, senza democrazia, dato che quest’ultima si nutre del confronto tra punti di vista eterogenei. Quale regime potrà sostituirla? Il regno dell’Uroboro, serpente che si morde la coda, formando un cerchio chiuso. Il regno dell’autoreferenza.»

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