“Il racconto delle armi” a cura di Tommaso di Carpegna Falconieri e Salvatore Ritrovato

Il racconto delle armi, Tommaso di Carpegna Falconieri, Salvatore RitrovatoIl racconto delle armi
a cura di Tommaso di Carpegna Falconieri e Salvatore Ritrovato
il Mulino

«Le armi raccontano le società. Strumenti di contrapposizione e conflitto, ma anche simboli di appartenenza, riconciliazione e amicizia, il giudizio che gli uomini emettono su di esse è dialettico, andando dalla celebrazione al rifiuto.» È a partire da questa consapevolezza che il libro «invita a puntare l’attenzione sui modi in cui esse hanno condizionato e condizionano le vicende umane; allo stesso tempo, gli suggerisce di riflettere sui modi in cui gli uomini si sono raccontati e si raccontano per loro mezzo, ponendole al centro di storie, attribuendo significati che, mutando nel tempo, suscitano un grande interesse storico.»

I saggi raccolti nel volume aprono «uno spazio di discussione sul nostro rapporto con le armi, sul modo in cui le abbiamo messe, per secoli, al centro del nostro mondo, e ne raccontiamo le vicende, oggetto ora di narrazioni storiche, ricostruzioni, interpretazioni documentate, ora di finzioni narrative, letterarie, cinematografiche; senza dimenticare i casi in cui sono proprio le armi che parlano, si prestano a minuziose descrizioni: si tratti di armi bianche o da fuoco, o di scudi, foderi, elmi e celate, o ancora di bassorilievi di sarcofaghi, obelischi, arazzi, fino alle armature arricchite da raffinati decori, incisi, cesellati, intarsiati, ageminati, lavorati a sbalzo.»

Il libro «ripercorre la fortuna delle armi nella cultura occidentale con una serie d’interventi mirati a sciogliere momenti e passaggi importanti del modo in cui esse sono state rappresentate e raccontate, a cominciare dalla cultura classica, sia nei testi letterari sia in quelli artistici».

«Passaggio decisivo è l’invenzione dell’arma da fuoco, che si affianca in maniera complementare a quella bianca, prima di soppiantarla definitivamente, con il progresso della tecnica di ricarica, riservando l’uso delle armi tradizionali, in battaglia, solo nei casi di assalti «alla baionetta», altrimenti relegandola ai duelli, quasi a sospirare, nella soluzione dei diverbi interpersonali, le regole inflessibili di un modello sociale alto. Il nesso fra arma e cultura, quale si realizza nelle armi bianche che sembrano esprimere nel combattimento corpo a corpo, talora formulato con precise regole, un bisogno di contatto personale che rimanda alla «civil conversazione» di un’ancienne société in cui gli avversari, di là dalla propria appartenenza religiosa o politica, possono riconoscersi e stimarsi, è affatto trascurato dalle armi da fuoco, le quali invece permettono a chicchessia di eliminare il prossimo senza conoscerlo, anzi di esaltarsi, nel segno di un individualismo omicida (ecco la figura abietta del cecchino), persino patologico, che consente di entrare in una battaglia uccidendo senza pietà (e senza ragione) e di uscirne senza essere visti (e senza temere accuse di viltà).»

«Forse occorre riflettere sull’idea che ci si è fatta delle armi (capaci nello stesso tempo di scatenare morte e distruzione, e di dare impulso a straordinarie innovazioni tecnologiche), e domandarsi che cosa vogliamo da loro (che spariscano d’incanto come se non fossero mai esistite?). Perciò è opportuno ricominciare a tessere i molteplici fili che ci legano a un oggetto nello stesso tempo nobile, per la raffinata perizia della sua fattura, e ignobile, per i devastanti effetti che procura, e ad addentrarci nel groviglio di storie che ne hanno decretato il peso, nel bene e nel male, nei miti fondativi di molte culture. Se Davide non avesse abbattuto Golia con la fionda, la Bibbia avrebbe avuto una versione diversa da quella che noi leggiamo? E non ha qualcosa di ironico che i greci trovino in un dono pacifico – il cavallo di legno – l’arma decisiva per vincere una guerra senza via d’uscita? Venendo a tempi più recenti, quanto bisogno di leggenda vi era nella rappresentazione di una spada invincibile (ci tornano alla mente la Fusberta di Rinaldo, la Durlindana di Orlando, la Excalibur di Artù, la Tizona del Cid, la Nothung di Sigfrido, la Anduril di Aragorn, fino alla Gioiosa di Carlomagno, che conteneva un pezzo della santa lancia di Longino), e quanta disumana temerità nell’«arma segreta» di Hitler, sintomo di un’ambizione tecnologica per fortuna mai esaudita, per non dire delle tante bombe atomiche proliferate, come folle deterrente, nel corso della guerra fredda?»

Già, perché «la bomba atomica ha incrinato per sempre ogni poesia delle armi. Non solo perché il «piccolo sole» è un ordigno esagerato e fuori controllo; la sua apparizione sullo scenario strategico e tattico degli armamenti ha reso evidente che ogni arma ci ha sempre portato in prossimità della fine.»

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