
Quali sono le motivazioni dietro alle traduzioni dialettali?
È sempre difficile indagare le ragioni, in parte spesso insondabili, che spingono alcuni letterati a produrre e pubblicare versioni dialettali di importanti opere in lingua. Non sempre si tratta della propria lingua nazionale: non mancano infatti traduzioni vernacolari, ad esempio, di classici latini, e in proposito posso parlare con cognizione di causa, convocando me stesso tra i cultori di questi ‘ludici esperimenti’ (e già questa dicitura potrebbe fornire una prima risposta alle implicazioni contenute nella domanda), avendo tradotto con alcuni amici, accomunati dall’affezione culturale e linguistica per il dialetto e memori della loro formazione umanistica, testi illustri di Orazio, di Catullo e di Marziale. Ricorderò al riguardo, tra parentesi, che il nostro non è stato certo il primo esperimento di questo tipo, giacché, per limitarmi al caso di Orazio, questi è stato voltato in dialetto più volte, conoscendosi traduzioni in napoletano, in siciliano, in romanesco, in veneziano, ecc. Nella Premessa alle nostre versioni di Orazio in dialetti monferrino-alessandrini scrivevo che la saggezza oraziana, pur nutrita da presupposti etici filosoficamente elaborati (specialmente quelli stoico-epicurei e peripatetici), è per certi aspetti alquanto vicina al buon senso comune (o, come si dice, alla riserva sapienziale) della società contadina che nei nostri dialetti si è espressa, il che, permettendoci di accreditare consonanze extralinguistiche, ci ha fatto sentire il venosino un po’ anche come monferrino e come ‘mandrogno’, sì da conferire un senso un po’ più profondo, o meno superficiale, alla nostra operazione, nata inizialmente come mero divertissement. S’intende che altre giustificazioni, di tipo in parte diverso, abbiamo successivamente esibito per Catullo e per Marziale, ferma restando la precisa coscienza di uno scarto rilevante tra i codici culturali e linguistici di questi autori e quelli pertinenti ai dialetti locali, il che ha costituito una sollecitazione ulteriore al cimento.
Ma concludo la digressione e torno a Dante. È indubbio che anche in questo caso, e a fortiori, alla base del successo di queste operazioni stanno da una parte l’ammirazione profonda per un’opera, come la Commedia, per certi versi unica al mondo, e dall’altra la consapevolezza del valore che il patrimonio della cultura dialettale riveste. Questi due fattori concomitanti si sono nutriti di specifiche motivazioni storico-culturali nel primo Ottocento: come ha mostrato Carlo Dionisotti nel suo magistrale saggio del 1996, Varia fortuna di Dante, sono stati gli ideali romantico-risorgimentali a rispecchiarsi nei valori politici, civili, spirituali e morali riconosciuti nell’opera dantesca fino a fare del suo autore il profeta del riscatto italiano, l’imprescindibile punto di riferimento della nostra identità nazionale. Gli sviluppi della critica dantesca a partire dall’interpretazione foscoliano-desanctisiana, con l’approdo a quella crociana e al suo superamento novecentesco hanno contribuito a irrobustire la coscienza dello straordinario valore del ‘poema sacro’ e di conseguenza hanno altresì concorso a determinare un più profondamente motivato e impegnativo interesse per l’operazione di volgere in dialetto il poema sacro.
La fisionomia di queste versioni è molto varia: alcune (poche) sono traduzioni integrali delle tre cantiche (per l’esattezza 2 dell’Ottocento, 22 del Novecento e finora 7 del nostro secolo); le più sono parziali, e riguardano solo una o due cantiche oppure si limitano ad alcuni canti o episodi del poema dantesco; alcune riproducono il metro originale, cioè le terzine a rima incatenata, altre adottano metri diversi o anche la prosa. Assai diversificato è parimenti il registro espressivo, da quello serio e alto (che cerca di restare in qualche modo fedele alla fisionomia culturale, ideologica e letteraria dell’originale) a quello giocoso e parodistico.
Un’operazione letteraria di questo tipo, se per certuni è discutibile quanto a significato e scopo, chiama comunque necessariamente in causa le motivazioni che ne stanno alla base, e queste spesso sono esplicitamente esposte in premessa dagli autori stessi o comunque prese in considerazione da studiosi e critici. Ciò non vale naturalmente per le traduzioni nelle lingue nazionali, che sono giustificate di per se stesse dal rango culturale e letterario dell’originale, la cui ampia ricezione in contesti linguistico-nazionali diversi inevitabilmente può realizzarsi solo con lo strumento della traduzione, in lingue teoricamente dello stesso prestigio. Ma quale significato o scopo o ragione può avere la versione di un capolavoro della letteratura e della lingua italiana in uno dei dialetti della penisola, tenuto conto che nessuno di essi, ancorché nobilitati dai loro cultori a lingue, gode del prestigio della lingua nazionale, tanto più se essa è quella di un capolavoro straordinario come quello dantesco?
Le motivazioni sembrano riconducibili ad alcuni tipi fondamentali, talora magari compresenti: un intento celebrativo, specialmente in rapporto a qualche ricorrenza anniversaria, del capolavoro dantesco; un proposito didascalico-divulgativo sul presupposto che il destinatario possa o voglia accostare l’arduo testo dantesco e i suoi contenuti straordinariamente complessi solo attraverso il proprio dialetto; l’intento di valorizzare il proprio dialetto saggiandone, nel confronto con la lingua straordinariamente ricca della Divina Commedia, la forza e la capacità espressiva, magari rivendicando al proprio dialetto una dignità di lingua che si vorrebbe riconosciuta rispetto a quella nazionale; un’occasione o pretesto “per cavare da sé nuova poesia”, (come nel caso esemplare di Carlo Porta) oppure per dare vita a un’operazione parodistico-caricaturale o satirica giocata sui richiami alla contemporaneità; un’occasione per una sfida anche sul piano tecnico, in termini di nobile esercizio letterario, ecc.
Un’analisi particolareggiata, condotta su alcune versioni dialettali ‘storiche’ (a partire dall’epoca risorgimentale) della Commedia da una valente studiosa, Michela Dota, ha messo in rilievo o confermato come la maggior parte dei traduttori dell’Ottocento dichiarasse come proprio scopo primario quello di voler divulgare il classico fondativo dell’identità italiana tra il popolo incolto o poco istruito, rendendo più comprensibile la Commedia ove trasposta nell’unico linguaggio padroneggiato da tutti i neoitaliani, cioè il loro dialetto materno. Un proposito che lascia perplessi per più ragioni, se si pensa all’elevatissimo tasso di analfabetismo della popolazione, alla grandissima variabilità diatopica interna alle singole regioni, all’alta arbitrarietà delle norme ortografiche, ancora meno codificate rispetto a quelle dell’italiano dell’epoca. Si deve anche considerare, peraltro, come la coscienza della intrinseca inferiorità dei vernacoli convivesse con l’evidente proposito di promuovere e valorizzare le potenzialità del dialetto, grazie anche al procedimento di purificazione e selezione della varietà diastraticamente più elevata del vernacolo.
Quali sono le principali versioni dialettali del capolavoro dantesco?
Di tutte le versioni dialettali della Commedia la traduzione di alcuni episodi del poema dantesco in dialetto milanese di Carlo Porta (1775-1821) è storicamente il primo e uno degli esempi più letterariamente importanti, e uno specialista come Franco Brevini, autore di un saggio fondamentale, La poesia in dialetto, può giustamente affermare che il primo esperimento di traduzione dantesca rappresenta anche il capolavoro nel suo genere. Illustri italianisti, da Attilio Momigliano a Dante Isella, hanno visto in quell’esperimento un punto fondamentale nello sviluppo della grande poesia portiana: la lettura in chiave razionalistica del testo dantesco (con la sostituzione della raison illuministica col buon senso borghese) e l’orientamento scettico-realistico della visione del mondo attribuiscono per così dire a Dante la fisionomia di uno dei personaggi popolari tipici della poesia portiana.
Tra le motivazioni che indussero il Porta a voltare in milanese passi danteschi (tenuto anche conto dell’altezza cronologica dell’operazione nel quadro dell’itinerario poetico dell’autore) ci fu certamente, come è stato più volte rilevato, il desiderio di saggiare le possibilità espressive del dialetto arricchendo, nel dialogo con il testo più illustre della poesia italiana, il codice vernacolare della scoeura de lengua del Verzee con un’operazione letteraria di alto profilo e premessa indispensabile alle scelta definitiva di poetica (il dialetto come ‘lingua d’arte’). Ma, senza doverci addentrare in un’analisi meno sommaria dei caratteri complessivi dell’operazione portiana, occorre ricordare come esemplare degli orientamenti dell’autore risulti la celebre traduzione del passo di Inf. V, 127-138 relativo all’episodio di Paolo e Francesca, con il travestimento comico-realistico in chiave plebea della vicenda del bacio e la trasformazione della colta nobildonna dantesca nella sanguigna popolana idealmente sorella della Ninetta del Verzee. Sulla scia del Porta si colloca, in chiave di attualizzazione del testo dantesco in relazione ai grandi temi politici contemporanei (un processo studiato in particolare da Alfredo Stussi) la traduzione in dialetto milanese e in sestine dell’intera prima cantica dantesca ad opera di Francesco Candiani nel 1860: con elogio dedicatorio a Dante e Garibaldi (“forse i due più grandi uomini che l’Italia abbia generato”, il primo per la denuncia della divisione sciagurata dell’Italia, il secondo come artefice della sua unificazione), al Re Galantuomo Vittorio Emanuele II – identificato con il Veltro – alla casata dei Savoia e a Cavour: “tutti impegnati nella lotta contro il dominio temporale del Papa”, come scrive Matteo Basora in un saggio nel quale conduce un puntuale e analitico confronto tra la versione di Porta e quella di Candiani.
Nel mio saggio riporto un elenco di un centinaio di autori successivi al Porta, distinti secondo un criterio geolinguistico, dal Piemonte alla Sardegna, con la citazione delle loro opere e con l’indicazione dei canti o degli episodi della Commedia da loro tradotti; di una cinquantina di essi, insieme con essenziali note biografiche, riproduco qualche esempio (spesso accompagnando il testo dialettale, se poco perspicuo, con la traduzione in italiano), corredato, ove possibile, di qualche osservazione critica, con i giudizi di studiosi che se ne sono occupati (tra essi vorrei citare Francesco Granatiero, ai cui scritti sono debitore di molte informazioni e puntuali rilievi). Volendo dare un’indicazione selettiva di una messe così ampia di traduttori, potrei citare la prima versione integrale (1874), in dialetto calabrese del Paradiso di Francesco Limarzi ispirata da un orgoglioso proposito didascalico- divulgativo. Lo stesso che in quegli anni guidava Giuseppe Cappelli, autore della prima traduzione ottocentesca integrale (in veneziano e in terza rima), lodata come utile e “bellissima” dal filologo Pietro Fanfani; ad essa si sarebbe affiancata più tardi, sempre in veneziano, ma più fluida nella veste linguistica, quella di Luigi De Giorgi. Un caso particolare è rappresentato poi, nell’ultimo ventennio dell’Ottocento, da Domenico Jaccarino, autore della prima versione dell’Inferno in terza rima e in napoletano, giudicata però piuttosto generica e approssimativa, e fatta oggetto di una lunga diatriba tra estimatori e avversari che infiammò per anni il milieu culturale e giornalistico partenopeo: diatriba di cui nel mio saggio rievoco le testimonianze salienti, soprattutto perché illumina di scorcio, a partire da un’occasione specifica, uno spaccato della società del tempo.
Tra le traduzioni ottocentesche merita una segnalazione particolare quella in dialetto calabrese cosentino di Salvatore Scervini, apprezzabile per i pregi linguistici e retorici che esaltano l’impianto realistico e drammatico e nello stesso tempo documentano l’importanza di un ampio patrimonio lessicale regionale, come ha messo opportunamente in luce una sua valente studiosa, Giuseppina Basile.
Non mancano, tra Ottocento e Novecento, versioni rispondenti ad un proposito parodistico-caricaturale, come quella (forse la più interessante di tutte in questo àmbito) in siciliano del noto letterato, giornalista e teatrante Nino Martoglio, ricca di riferimenti satirici e polemici a personaggi politici ed ecclesiastici contemporanei e definibile per alcuni come ‘maccheronica’.
Numerose sono le traduzioni linguisticamente riferite al Friuli (regione molto produttiva di interessi per il dialetto), da quella di fine Ottocento di Pietro Bonini, letterato di orientamento carducciano desideroso di sviluppare le capacità del friulano di esprimere contenuti alti e nello stesso tempo popolari, a quella del primo Novecento di Luigi Rodaro (traduttore di classici latini e di passi evangelici); a quella del letterato e poeta Domenico Zannier, figura di spicco della cultura friulana, proposto come candidato al Nobel nel 1986 e 1987 da parte delle Università di Salisburgo e di Innsbruck; a quella in triestino di Nereo Zeper (2000), scrittore, umorista, sceneggiatore e regista; a quella integrale, e pregevole per fluidità ritmico-espressiva, di Aurelio Venuti (2015), letterato, filologo e traduttore, guidato dal proposito dimostrare come il friulano sia in grado di rappresentare la straordinaria visione della Commedia forse ancor meglio del toscano, perché particolarmente atto alle rime aspre e chiocce e agli accenti crudi e selvaggi; a quella di Ermes Culòs (2005), intesa a conservare e preservare la fisionomia del dialetto tradizionale, considerato, con richiamo esplicito a Pasolini “la lingua del contadino, una lingua semplice, adattata alla vita di paese, con la sua parlata dei campi, delle stalle, della piazza, del bar, della merenda e della cena, delle nozze, dei funerali, e degli odori e rumori delle sere d’estate; una lingua, dunque, senza nessuna pretesa di arrivare a esprimere valori culturali più alti e astratti”. Di indubbio valore è la traduzione in friulano dell’Inferno di Pierluigi Visentin (traduttore anche di testi classici, tra cui Omero e Orazio), pregevole per il rigore con cui vengono rispettate le regole della struttura metrica e ritmica delle terzine di endecasillabi, e per l’uso impeccabile della grafia ufficiale friulana.
Ma interessanti per più ragioni sono altre versioni in altri dialetti: dovendo necessariamente limitarmi ad alcune, segnalerò, tra quelle in romagnolo, la versione in terza rima (uscita negli anni ’70 e ’80 con presentazione di Tullio de Mauro) di Luigi Soldati, detto Gigì d’Tambùr, fabbro ferraio, politico e poeta, e importante personaggio della comunità del suo borgo natale, figura poliedrica che può essere assimilata a quello che nella cultura del mondo popolare era il cosiddetto ‘lettore popolare’; e quella, in stile linguistico da ‘bracciante romagnolo’ di un altro personaggio pittoresco e dai diversificati interessi, Francesco Talanti. Concluderei con la menzione delle traduzioni in dialetto sardo di due letterati di vasta cultura, Pietro Casu e Paolo Monni: entrambe (la prima di metà Novecento, la seconda dei primi anni del nostro secolo) di rigorosa fattura e filologica accuratezza.
Quale valore linguistico e letterario rivestono tali traduzioni?
Premesso che le versioni di cui mi sono occupato sono di diverso valore (quale che sia la loro classificazione tipologica – traduzione, travestimento, riformulazione, ecc. – , per la quale rinvierei alle distinzioni operate da Umberto Eco, soprattutto in Dire quasi la stessa cosa), chi, come la citata Michela Dota, ha analizzato con criterio comparativo le varie traduzioni di uno stesso passo dantesco (ad es. del I canto dell’Inferno), ha potuto evidenziare alcune delle principali modalità di scarto rispetto all’originale (trasposizione in metri diversi dalle terzine; traducenti diafasicamente marcati; perifrasi colloquiali; rimodulazioni stilistiche; uso di locuzioni idiomatiche; soluzioni traduttive prosaiche e umoristiche; rimodellamenti ipotipotici e di maggiore iconicità popolare; sostituzioni esplicative o semplificative dei tecnicismi, ecc.), per concludere che “nonostante le libertà di questi rifacimenti, resta la volontà di non tradire il patrimonio culturale tesaurizzato nel testo, che può richiedere l’impiego di voci non strettamente dialettali, se nel dialetto non è rintracciabile un traducente adeguato”.
Il volume contiene inoltre esperimenti di traduzione di passi della Commedia in alcuni dialetti alessandrino-monferrini: quali particolarità assume il capolavoro dantesco nel vernacolo della Sua terra?
Nell’Introduzione a questo saggio, per contribuire a chiarire il senso della nostra operazione, dopo alcuni cenni di carattere teorico sulla pratica della traduzione e un breve esame della questione delle differenze tra la nozione di lingua e quella di dialetto, ho voluto precisare entro quali limiti e con quali mezzi intendiamo conservare il nostro patrimonio dialettale: e questo nostro lavoro intende proprio concorrere a questo scopo (mentre siamo nettamente contrari all’ipotesi di insegnamento scolastico del dialetto). I dialetti implicati in questa operazione, che ha coinvolto me insieme con amici in vario modo interessati alla conservazione degli ‘idiomi materni’ dei rispettivi luoghi d’origine, sono quattro: quello di Fubine Monferrato (il mio), quello di Solero (del prof. Carlo Gallia), quello di Alessandria (della dott.ssa Carla Cattaneo) e quello di Valenza Po (del dott. Carluccio Re). Essi (che coprono una zona territoriale ristretta in un raggio di una ventina di chilometri) presentano molte affinità fonetiche, morfologiche, lessicali ecc., insieme con interessanti e significativi tratti distintivi. Il loro impiego da parte di noi traduttori si è ispirato ad un duplice criterio: evitare il ricorso a italianismi, ma rispettare (particolarmente nel lessico e nella fraseologia) il più possibile la fisionomia ‘tradizionale’, cioè, per dirla in breve, quella sancita dall’uso effettivo riscontrato attualmente nella comunità dei dialettòfoni; adottare, in conseguenza a ciò ma anche in linea di principio, tenuto conto delle peculiarità sociolinguistiche dei dialetti nostrani, un orientamento interpretativo, linguistico e stilistico idoneo a rispecchiare una mentalità ‘popolare’ di tipo, se si può dire, ‘portiano’, per cui alcune espressioni di carattere plebeo-vernacolare (u mnìva a tàj; l’è nènt al càʃ che ta t’la fàsi adòs; t’à an mènt d’mulàmi ans j às?; levà sì dal pajàs; tabacà; fa’ nènt u stàʃi; l’è méj ‘n ‘andà’ pitòst che sènt ‘andòmma!; dài dài pùssa pùssa tìra tìra; ‘n vèğ col mùr da delinquènt; sa brìtta gnùtta; fàcia d’mènta; làsla bùjji; vàtla a pià ant al chì) abbassano il livello ‘comico’ dello stile istituzionale dell’originale dantesco. Per consentire una più approfondita comprensione delle peculiarità delle vesti dialettali, abbiamo corredato le nostre versioni di un ampio apparato di note linguistiche sui dialetti impiegati.
Quanto alle soluzioni metriche, le abbiamo intenzionalmente diversificate: dalla terzina incatenata (che riproduce quella che proprio Dante ha introdotto nella nostra poesia) all’ottava (il metro della poesia narrativa, già adottato dalla versione di Porta) alla prosa.
Gian Luigi Ferraris (Fubine, 1944), laureato in filologia classica a Torino, già docente nei Licei, presidente della Società Alessandrina di Italianistica, è autore di vari scritti storico-letterari, linguistici e ultimamente dialettologici, pubblicando per le Edizioni dell’Orso versioni dialettali di Orazio, Catullo, Marziale; il monumentale Dialetti Monferrini. Grande dizionario dell’uso: intertestuale, fraseologico, etimologico, aneddotico, 2016); e sotto lo pseudonimo di Anonimo Monferrino, Spùn Rìver munfrìn / Spoon River monferrino, 47 epigrammi epitimbici, 2019.