
In quale contesto storico-religioso si inseriva il dibattito sul culto delle reliquie?
Si era negli ultimi anni del pontificato di Leone XIII, il quale si era segnalato per aver concesso alcune aperture alla modernità in campo storico ed esegetico. Studiosi cattolici come Chevalier si erano sentiti liberi passare sotto i ferri del metodo storico-critico numerose tradizioni ecclesiastiche radicate all’interno della Chiesa, ma prive di fondamento storico. In questo clima si inseriva anche il dibattito sul culto delle reliquie, molte delle quali non passavano il vaglio delle scienze storiche e necessitavano dunque di un nuovo inquadramento teologico che potesse salvaguardarne il culto sotto altra forma o optasse per la sua soppressione. La Sindone divenne un caso quasi esemplare. Purtroppo si era negli anni che precedevano la repressione antimodernista, che pose fine a questa stagione di aperture.
In che modo la questione venne rimessa alla Santa Sede?
I libri e i numerosissimi articoli pubblicati da Chevalier, che non temeva di rispondere a tutti i suoi critici, avevano convinto la maggior parte degli studiosi ma risultavano imbarazzanti per una parte dei cattolici. Poiché i tentativi di sconfiggere Chevalier dialetticamente, mostrando gli eventuali errori metodologici o fattuali in cui sarebbe incorso, fallirono miseramente, qualche ecclesiastico decise di percorrere la via della denuncia presso la Santa Sede, per ottenere una condanna di Chevalier che lo costringesse a ritrattare o perlomeno a cessare le sue pubblicazioni. Lo si accusava di aver affermato che l’autenticità delle reliquie è una questione di natura storica, non teologica, e di non averla sottoposta al vaglio delle autorità ecclesiastiche. Uno dei suoi più accaniti oppositori era Emanuele Colomiatti, provicario generale della diocesi di Torino, il quale aveva tentato di scrivere un libro a confutazione delle teorie di Chevalier, ma ne aveva ottenuto una replica impietosa nella quale il sacerdote francese metteva in luce le gravi lacune metodologiche del confratello italiano. Dopo che alcune minacce fatte pervenire a Chevalier non sortirono alcun effetto, Colomiatti – su incarico del cardinale arcivescovo di Torino Agostino Richelmy – lo denunciò alla Santa Sede con le seguenti accuse: aver rifiutato di sottomettersi al giudizio della Santa Sede in materia di reliquie, aver avvalorato gli scritti di un antipapa, aver aggirato la censura ecclesiastica e aver propugnato falsi principi dottrinali. Furono interpellate tre congregazioni pontificie, cioè il Sant’Uffizio, la Congregazione dell’Indice e quella delle Indulgenze e Reliquie; soltanto quest’ultima accettò di procedere. Come di consueto, fu scelto un cardinale come Relatore e un Consultore della congregazione prese in mano la questione per esaminarla in profondità. Quest’ultimo incarico lo ottenne un gesuita che lavorava alla Congregazione, Franz Beringer. Preparò dunque un votum in lingua latina, nell’aprile del 1901, da sottoporre poi alla riunione plenaria della Congregazione.
Cosa sostiene il votum di Franz Beringer?
Beringer respinse ogni accusa della diocesi di Torino e assolse Chevalier da ogni imputazione. Esaminata la documentazione, ritenne che la Sindone non poteva vantare un culto anteriore al XIV secolo; che nei primi anni della sua comparsa non era neppur stata presentata al pubblico come se fosse autentica; che fin da allora la sua autenticità era stata respinta dai vescovi del luogo che ne erano responsabili; infine, che gli studiosi più competenti dell’epoca contemporanea l’avevano ritenuta un falso. Ne conseguiva che la Sindone non potrebbe nemmeno godere dello statuto di vera reliquia, e che oggi lo studio e la pubblicazione dei suoi documenti erano da considerarsi di utilità per la conoscenza della questione, e non censurabili dall’autorità ecclesiastica. Secondo Beringer «quella Sindone fu esibita fraudolentemente fin dall’inizio come se fosse la vera Sindone del Signore, ma subito in quanto tale venne rifiutata da tutte le autorità per quasi un secolo intero, riconosciuta soltanto come una figura o rappresentazione della vera Sindone, fatta ad arte per meditare sulla passione di nostro signore Gesù Cristo. E neppure gli stessi autori della frode hanno osato, quasi per i primi cento anni, esibire quel panno apertamente e pubblicamente come la vera sindone». Di conseguenza il Consultore proponeva all’assemblea della Congregazione non soltanto di respingere il ricorso torinese contro Chevalier, ma addirittura di informare l’arcivescovo di Torino dell’esito dell’indagine invitandolo a «ritirare e nascondere a poco a poco quella sindone». Ciò avrebbe significato la cessazione delle ostensioni e del culto sindonico.
Nella seduta del 4 luglio 1901 dieci membri della Congregazione papale discussero il votum di Beringer. Tutti concordarono sul fatto che la Sindone non possa essere autentica. I vari motivi che spinsero a questa decisione, e in genere le tappe salienti della storia della reliquia, li ho esposti a mia volta in Sindone: storia e leggende di una reliquia controversa, Einaudi 2015.
Il volume è corredato da ampissima documentazione, in gran parte sconosciuta e inedita: quali evidenze se ne traggono?
Il libro è in gran parte costituito dalla documentazione che ho rintracciato presso gli archivi delle Congregazioni pontificie e in alcune biblioteche europee. La parte del leone è fatta dal dal votum di Franz Beringer, conservato all’Archivio Segreto Vaticano e finora completamente ignorato. A esso si accompagnano alcuni altri documenti inediti o poco noti e la corrispondenza personale di Chevalier con diverse personalità coinvolte nella vicenda. Credo che la pubblicazione di questo materiale sia stata fondamentale, anche perché i credenti nell’autenticità della Sindone più volte fino ad anni recentissimi hanno dichiarato che questa inchiesta pontificia, di cui Chevalier aveva lasciato trapelare le conclusioni, non era mai esistita, ed era una invenzione di Chevalier stesso. Per i motivi che esporrò fra poco Chevalier durante la sua vita non poté mai difendersi da questa infamante accusa. Ora che il materiale è a disposizione degli studiosi, i lettori potranno apprezzare con quanta apertura e serietà di giudizio l’argomento storico venne affrontato dalla Congregazione romana, e con quale serietà tutti gli argomenti furono ponderati. È una situazione che dimostra il valore di chi a Roma era incaricato prendere queste decisioni, e quanto l’accertamento della verità fosse primario, perlomeno per questi studiosi romani, anche a discapito di un culto secolare la cui soppressione avrebbe sicuramente avuto effetti spiacevoli per la Chiesa di Torino. È un atteggiamento coraggioso e deontologicamente ineccepibile che non è facile riscontrare all’interno della Chiesa odierna.
Dai documenti emerge anche l’eccezionale affermazione che fosse noto il nome dell’artefice della Sindone.
In due lettere personali scritte a Chevalier il sacerdote Arthur Prévost, storico della diocesi di Troyes, afferma di aver saputo da fonte certa che il duca Pierre Eugène di Bauffremont mentre faceva ricerche nei fondi Charny conservati negli archivi del Dipartimento della Seine et Oise si sarebbe imbattuto nel nome del pittore della Sindone. Il duca lo avrebbe comunicato a Umberto I re d’Italia, che gli avrebbe domandato di tacere e tenerselo per sé. Sono andato alla ricerca di questi fondi Charny, che in seguito sono stati trasferiti agli archivi dipartimentali di Digione. Un primo spoglio della collezione non mi ha permesso di ritrovare nulla di simile. Sappiamo però per altre vie che davvero il duca di Bauffremont in quegli anni stava studiando la questione, e che Chevalier aveva già ricevuto un’indiscrezione su questa scoperta del duca da qualcun altro, ancor prima che Prévost gliela riconfermasse. Non si può escludere che l’entità del fondo archivistico sia mutata nel frattempo, ma al momento non vi è modo di confermare o smentire il racconto di Prévost.
Quale ruolo avrebbero avuto i Savoia nel nascondere la verità sul telo e per quali ragioni?
Se l’informazione di Prévost fosse confermata, e davvero Umberto I avesse chiesto il silenzio sull’identità dell’artefice della Sindone, si potrebbe concludere che i Savoia giocarono un consapevole ruolo di insabbiamento. Ma la notizia, come già detto, non è confermata. Sappiamo però che essi non accettarono mai di buon grado quelle pubblicazioni che potessero mettere in dubbio l’autenticità della reliquia, e sicuramente si adoperarono affinché le teorie di Chevalier non avessero cittadinanza in territorio italiano. In genere, per quanto ne sappiamo, moltissimi membri di casa Savoia credettero nell’autenticità della Sindone e ne favorirono sinceramente il culto anche all’interno della propria famiglia. In qualche caso se ne disinteressarono, ma mai rinunciarono a fregiarsi della proprietà della Sindone, dalla quale ricavavano lustro per la propria dinastia. Ciò fu valido fin dal primo momento dell’acquisizione, quando Ludovico duca di Savoia acquistò illegalmente la Sindone da Margherita di Charny, che altrettanto illegalmente la deteneva; e tale atteggiamento si riscontra anche negli atti degli ultimi sovrani d’Italia.
Quale epilogo ebbe la vicenda?
La notizia che la Congregazione delle Indulgenze e Reliquie avesse ritenuto non autentica la Sindone trapelò fuori dalle mura vaticane e raggiunse lo stesso Chevalier, il quale non seppe trattenersi dallo scriverlo pubblicamente in qualche suo opuscolo. Nel frattempo sia Chevalier, sia diverse autorità ecclesiastiche romane erano oggetto di pressanti richieste e raccomandazioni in un senso o nell’altro. Si venne a sapere che il Papa aveva accolto il parere della Congregazione, ma non ne conseguì alcuna pubblicazione della decisione presa, né alcuna presa di posizione pubblica: sarebbe stato uno schiaffo al cardinale di Torino e al re d’Italia.
Però nei primi mesi del 1903 Chevalier viene raggiunto da un ordine di non occuparsi più della Sindone. Una censura di simile tenore fu anche decisa nei confronti dei padri Bollandisti, che erano in procinto di pubblicare un articolo in sostegno a Chevalier. Era proprio quello che il medievista francese temeva, e di cui era stato messo in guardia da alcuni suoi confratelli: essere riconosciuto dalla parte della ragione, ma essere zittito per non generare scandalo nei fedeli e irritazione in Casa Savoia. Dopo più di un secolo con il mio lavoro penso di aver reso onore alla memoria di Ulysse Chevalier, che dovette soffrire alquanto per questa immeritata censura.
Andrea Nicolotti è Professore associato di Storia del Cristianesimo e delle Chiese nonché Presidente del Corso di laurea in Scienze delle Religioni presso il Dipartimento di Studi Storici dell’Università degli Studi di Torino. Tra le sue pubblicazioni: Sindone. Storia e leggende di una reliquia controversa (Einaudi, 2015) e Dal Mandylion di Edessa alla Sindone di Torino. Metamorfosi di una leggenda (Edizioni dell’Orso, 2011)