“Il processo contro Paolo di Tarso. Una lettura giuridica degli Atti degli Apostoli (21.27 – 28.31)” di Anna Maria Mandas

Dott.ssa Anna Maria Mandas, Lei è autrice del libro Il processo contro Paolo di Tarso. Una lettura giuridica degli Atti degli Apostoli (21.27 – 28.31) edito da Jovene: il racconto biblico del processo contro Paolo è verosimile dal punto di vista giuridico?
Il processo contro Paolo di Tarso. Una lettura giuridica degli Atti degli Apostoli (21.27 - 28.31), Anna Maria MandasPer rispondere a questa domanda occorre premettere che l’approccio all’esegesi giuridica di un’opera concepita probabilmente in aramaico, scritta in greco, con intendimenti squisitamente religiosi ed escatologici, va svolto con una particolare cautela. Se, infatti, è vero che le fonti neotestamentarie offrono allo storico del diritto antico continue suggestioni, informazioni, spunti interpretativi per la ricostruzione del contesto giuridico (sostanziale e processuale) e dell’organizzazione amministrativo-giudiziaria delle province romane nel I secolo, è altresì vero che la ‘lettura giuridica’ di questi testi deve essere affrontata con una sensibilità peculiare, che consenta – laddove possibile – di disvelare i diversi livelli narrativi dei passi esaminati e le differenti consapevolezze (e conoscenze) nell’impiego della terminologia giuridica.
Pur, quindi, nella consapevolezza di impiegare funzionalmente, come ‘documento processuale’, una fonte indubbiamente atecnica qual è quella neotestamentaria, può affermarsi che il racconto neotestamentario sembra coincidere in larga misura con la prassi probabilmente seguita in provincia nell’amministrazione della giustizia penale. Come, del resto, già riteneva Theodor Mommsen, e con lui Sherwin-White, il processo contro Paolo, così come descritto da Luca, deve considerarsi un resoconto esemplare dei processi celebrati in epoca imperiale innanzi al governatore provinciale.

Quali accuse condussero all’arresto dell’apostolo?
L’arresto di Paolo non ha avuto come suo presupposto una specifica denuncia, essendosi reso necessario nel contesto di un intervento repressivo urgente, volto a placare la piazza e riportare l’ordine. Nella fonte, infatti, si legge che, mentre la folla radunatasi davanti al Tempio di Gerusalemme cercava di uccidere Paolo, al tribuno Claudio Lisia giungeva notizia che la città era in tumulto e, conseguentemente, sarebbe stato necessario un suo immediato intervento. Giunto sul posto, insieme ai propri soldati, Claudio Lisia sedò temporaneamente la rivolta e procedette all’arresto di Paolo, senza però comprendere appieno quali fossero le accuse che venivano mosse contro l’uomo che aveva appena arrestato e che gli era assolutamente sconosciuto. Al 34, infatti, si chiarisce che lo stato di agitazione in cui versava la piazza non permetteva di ottenere informazioni attendibili circa le cause della sommossa e le eventuali responsabilità dell’arrestato, per l’accertamento delle quali Paolo venne scortato sino alla fortezza Antonia. Solo in un momento successivo all’arresto, dunque, le accuse contro Paolo vennero precisate per poi essere formalizzate dagli accusatori innanzi all’organo competente per il giudizio (il tribunale del procurator Iudaeae). Secondo la fonte, infatti, cinque giorni dopo il trasferimento dell’imputato disposto dal tribuno al termine delle indagini preliminari, giunsero a Cesarea (sede del governatore) gli accusatori, assistiti dall’avvocato Tertullo, al fine di formalizzare le accuse contro l’apostolo nel tribunale competente. Oltre all’accusa di aver profanato il Tempio, sollevata solo in un primo momento (21.28-29; 24.6), dalla descrizione della requisitoria pronunciata dall’avvocato degli accusatori una volta che Paolo fu portato in aula (24.2-8), sembra emergere in modo sufficientemente chiaro che il reato formalmente ascritto all’apostolo dai suoi accusatori fosse quello di seditio (στάσις). Tale ipotesi sembra confortata, in particolare, dalla lettura di At. 24.5, ove Tertullo accusa Paolo di fomentare disordini ‘fra i giudei di tutto il mondo’ in quanto πρωτοστάτης (uomo di prima linea, capo) della setta dei Nazorei. Che la fattispecie criminosa sia così qualificabile pare, inoltre, potersi inferire anche dai passi dedicati alla pronuncia del discorso difensivo di Paolo. Benché l’apostolo non impieghi la stessa formula di Tertullo, nella quale si parla espressamente di seditio, tuttavia riferisce – al v. 12 – di non aver provocato, né all’interno del Tempio, né nelle sinagoghe, né nella città, alcun ‘assalto della folla’, e – al v. 18 – di non essere stato trovato (così nella Vulgata) né cum turba cum tumultu.

Quali questioni sollevava lo status di ebreo e la doppia cittadinanza, greca e romana, di Paolo?
Innanzitutto, deve precisarsi che, sebbene in epoca imperiale la concorrenza della civitas Romana con la cittadinanza di una città ellenistica fosse giuridicamente ammissibile, è possibile che l’apostolo, nel suo qualificarsi come cittadino di Tarso in At. 21.39, impieghi il lemma nella sua accezione comune, riferendosi unicamente alla sua appartenenza alla comunità giudaica residente nella città cilicia e non già, in senso proprio, alla cittadinanza tarsese. Com’è infatti noto, in tutte le città neoelleniche ed elleniche esistevano comunità giudaiche indipendenti, aventi proprie istituzioni e uno specifico regime giuridico, ai cui componenti non necessariamente venivano estesi i diritti di cittadinanza locale. Benché, dunque, risulti astrattamente possibile che all’apostolo fosse stata concessa la piena cittadinanza tarsese, deve allo stesso modo ritenersi verosimile che Paolo, pur appartenendo alla comunità giudaica di Tarso, non godesse dei diritti di cittadinanza locale, come del resto sembrerebbe suggerire il testo di At. 22.3, ove l’apostolo stesso non si dichiara più cittadino di Tarso ma si limita ad asserire di esservi nato. Del resto, che Paolo, pur provenendo da Tarso, non sia anche cittadino della città cilicia, non sembra avere conseguenze concrete sul suo iter processuale, diversamente dalla civitas Romana (che incide in modo determinante sullo svolgersi del procedimento a carico dell’apostolo) e, in certo modo, dallo status di ebreo. Poiché, infatti, in diversi passaggi della sua opera Luca riferisce che a carico dell’apostolo sarebbe stata inizialmente promossa, oltre all’accusa di seditio, anche un’altra accusa, relativa alla profanazione del Tempio, la doppia identità di Paolo, cittadino romano ma anche (e soprattutto) ebreo, sarebbe venuta in rilievo innanzitutto sotto il profilo della configurazione del reato. Nella fonte si legge che Paolo a Gerusalemme venne accusato dai ‘giudei d’Asia’ di aver introdotto Trofimo l’efesino nel Tempio e aver – in tal modo – profanato il luogo santo. Da alcuni frammenti delle opere di Giuseppe Flavio e dall’iscrizione incisa su una stele rinvenuta a Gerusalemme alla fine dell’Ottocento, sappiamo – tuttavia – che gli ebrei avevano inibito l’ingresso al Tempio e previsto la morte solo per gli stranieri impuri (compresi i romani) che avessero oltrepassato il muro divisorio e non già per l’ebreo che li avesse aiutati. Di conseguenza, l’accusa di profanazione avrebbe dovuto eventualmente essere rivolta contro lo stesso Trofimo, ovvero lo straniero che ad avviso dei presenti era indebitamente penetrato nel Tempio, e non contro Paolo, fariseo della tribù di Beniamino. Cionondimeno, la presunta profanazione, benché afferente al solo diritto ebraico e non a quello romano, avrebbe comunque acquistato, secondo alcuni, particolare rilievo sotto il profilo della competenza a giudicare, dal momento che, sebbene cittadino romano, Paolo avrebbe dovuto soggiacere in questo caso alla giurisdizione del Sinedrio, al quale sarebbe stata attribuita una speciale riserva di competenza in caso di profanazione, anche nei confronti di un romano. L’ipotesi che Roma avesse attribuito una riserva di competenza al Sinedrio per i casi di profanazione, tuttavia, non persuade. Appare, infatti, maggiormente plausibile che la notizia riferita da Flavio Giuseppe, così come la ricordata iscrizione sulla stele, si riferissero non già a una vera e propria competenza giurisdizionale del Sinedrio sui casi di profanazione, quanto piuttosto a un’ipotesi di legittima uccisione degli stranieri (romani compresi) che fossero stati colti nell’atto di oltrepassare le balaustre antistanti il Tempio, come peraltro sembrerebbe suggerire l’immediatezza della pena e gli stessi versetti degli Atti ove si legge che Paolo (anche se indebitamente) stava per essere prontamente ucciso dagli astanti. In questa luce, anche nel caso in cui si volesse ritenere colpevole per il diritto ebraico non solo lo straniero che si fosse introdotto nel Tempio, ma anche l’ebreo che volontariamente lo avesse aiutato, la competenza a giudicare Paolo non sarebbe comunque spettata al Sinedrio gerosolimitano, al quale da tempo (a prescindere dallo status dell’imputato e dal reato commesso) era stato sottratto il potere di infliggere la pena capitale.

Paolo protestò per il trattamento subito in seguito all’arresto: su quali basi giuridiche?
Viene in rilievo, in questo caso, la sua cittadinanza Romana. Negli Atti degli Apostoli (22.24-29) si legge che dopo l’arresto il tribuno ordinò che l’apostolo venisse accompagnato nella caserma affinché fosse interrogato con il flagello. Stando alla fonte, Paolo attese che i centurioni lo distendessero per la flagellazione prima di dichiarare di essere cittadino romano. Poiché dunque affermava di essere un civis Romanus, i centurioni che avrebbero dovuto procedere all’interrogatorio si allontanarono e informarono il tribuno, il quale, dopo essersi avvicinato al prigioniero, gli chiese se davvero fosse romano. Alla risposta affermativa di Paolo, il tribuno, consapevole di aver legato un concittadino, per di più non sottoposto a giudizio (ακατάκριτος/indemnatus), ‘ebbe paura’, perché Paolo con la sua dichiarazione stava certamente rivendicando diritti specificamente connessi al suo status, che, se violati, avrebbero comportato per il colpevole severe sanzioni. Sappiamo, infatti, da un frammento di Ulpiano (D. 48.6.7) e da un passo delle Pauli Sententiae (P.S. 5.26.1) che sarebbe incorso nelle sanzioni disposte da una clausola della lex Iulia de vi publica il magistrato (o il funzionario) che avesse disposto – senza tener conto dell’interposta provocatio – l’uccisione, la fustigazione o la tortura del civis. Mentre, dunque, nei confronti dei non cittadini il potere coercitivo dei magistrati o dei funzionari poteva esplicarsi liberamente, al contrario, il bilanciamento tra potere punitivo dei titolari di imperium e posizione del cittadino si scorge chiaramente – anche nel primo periodo imperiale – nel quadro delineato dalla lex Iulia. Il diritto di cittadinanza rappresenta, infatti, ancora al tempo di Paolo, quello che in dottrina è stato definito «una sorta di habeas corpus», essendo sufficiente dichiarare di essere un civis Romanus per potersi avvalere dei privilegi connessi a tale status e beneficiare dei divieti posti dalla lex Iulia, al fine di ottenere che il provvedimento coercitivo, quando disposto arbitrariamente dal funzionario, non venisse – di fatto – eseguito. Solo qualora avessero esercitato attività giurisdizionale (laddove ne avessero avuto il potere) e non di mera coercitio, i funzionari avrebbero – difatti – potuto legittimamente adottare misure coercitive nei confronti del cittadino, come sembra essere confermato dallo stesso Paolo quando afferma di essere un cittadino romano indemnatus, e cioè non condannato, non sottoposto a giudizio. In nessun caso, quindi, l’ordine di torturare un cittadino Romano avrebbe potuto essere legittimamente impartito, come nel caso di Paolo, da un tribunus cohortis che, pur essendo titolare di limitate funzioni di polizia, era senz’altro privo di poteri giurisdizionali propriamente detti.

Come avvenivano gli interrogatori degli accusati?
Molto dipendeva dal tipo di reato contestato e dallo status (sia libertatis, sia civitatis) del reus. Si pensi, ad esempio, all’impiego della tortura quale specifico strumento di indagine processuale. Benché se ne facesse ampio uso nella prassi, secondo l’interpretazione tradizionale il ricorso ai tormenta sugli uomini liberi sarebbe stato ancora formalmente inibito nel I sec. d.C., essendo ammesso unicamente nei confronti degli schiavi. Nondimeno, secondo parte della dottrina, l’impiego della tortura a fini istruttori nei confronti dei liberi si sarebbe ammesso – in relazione a quei reati il cui compimento avesse messo a rischio interessi fondamentali per la società, dei quali, com’è noto, è un esempio paradigmatico il crimen maiestatis – sin dalla fine del I sec. a.C. Dall’esame di alcune fonti (P.S. 5.29.2; C. 9.8.4), quantunque di epoca tarda, sembrerebbe – infatti – emergere che, a seguito dell’emanazione della lex Iulia maiestatis del 27 a.C., in caso di indagini relative a ipotesi delittuose rientranti nell’ambito della maiestas, l’impiego della tortura giudiziaria fosse ammesso. Del resto, la possibilità che, sin da Augusto, la tortura, quando rivolta all’accertamento di crimina particolarmente gravi, dovesse considerarsi autorizzata anche nei confronti di un libero, sembrerebbe trovare conferma nella stessa narrazione lucana: l’ordine di torturare Paolo, impartito dal tribuno quasi immediatamente dopo l’arresto, dimostra, infatti, che – nell’ordinaria gestione della repressione criminale in provincia – l’impiego della tortura con finalità istruttorie costituiva una pratica con tutta probabilità consueta. D’altro canto, l’altrettanto rapida revoca del comando da parte dello stesso tribuno conferma che i limiti posti all’impiego dei tormenta, derivanti dallo status civitatis del reus, non erano affatto trascurabili. A partire dal III secolo d.C. (ma probabilmente sin dal I), inoltre, anche alcune particolari circostanze contingenti, slegate dallo status dell’imputato e dal tipo di reato commesso, costituirono un limite all’impiego della tortura durante gli interrogatori: a prescindere dalla loro condizione, infatti, le donne incinte non avrebbero potuto essere sottoposte a tortura prima del parto.

Quali norme regolavano il processo di Paolo innanzi a Felice?
Più che di specifiche norme, è opportuno parlare di sistema procedurale di riferimento. Per definire la forma processuale adottata in provincia nel primissimo Principato e i modelli cui questa sembra ispirarsi, è particolarmente rilevante il ventiquattresimo capitolo degli Atti. La prima parte del capitolo, infatti, riguarda la comparsa in giudizio dell’apostolo e la formalizzazione delle accuse (da parte del sommo sacerdote e dei rappresentanti del Sinedrio) dinanzi al governatore Felice, il quale procede all’accertamento dell’illecito attraverso forme dibattimentali coinvolgenti sia i promotori del processo, sui quali sembra gravare l’onere della prova, sia l’imputato, al quale viene concesso di svolgere la propria attività di difesa. Dall’analisi congiunta di tale capitolo e di alcune fonti giuridiche pertinenti che, ancorché spesso riferibili a momenti storici seriori, risultano comunque di essenziale utilità per la definizione di procedure e consuetudini che si ipotizza potessero essere già in vigore al tempo di Paolo, sembra innanzitutto potersi supporre che la procedura criminale adottata in provincia non appartenga a un sistema tassativamente inquisitorio o accusatorio, quanto piuttosto ad un sistema misto, all’interno del quale l’eventuale presenza di caratteristiche proprie di un sistema inquisitorio non è di per sé sufficiente a smantellare strutture tipiche del precedente sistema accusatorio. Di quest’ultimo, infatti, si cerca, fondamentalmente, di conservare due principi cardine (iniziativa di parte e titolarità della prova), tesi entrambi a preservare la terzietà dell’organo giudicante. La bipartizione prevista tra accusatio privata ed iniziativa pubblica, che sembrerebbe a prima vista accentuare il carattere inquisitorio della procedura criminale sin dal I secolo, non elimina, in realtà, l’esigenza che il processo necessiti di un’iniziativa di cui si faccia carico un soggetto diverso dal giudice chiamato a deciderlo, sia esso un privato o uno dei componenti dell’officium, per quanto a quest’ultimo non venga comunque mai attribuito l’esercizio di una vera e propria accusatio (con quanto ne consegue in termini di onere della prova e responsabilità per calunnia). Il racconto lucano sembra confermare tale ricostruzione e indicare come indispensabili le formalità proprie del sistema accusatorio, seppur forse semplificate. Sulla scorta degli Atti, si evidenzia – infatti – una procedura che predilige la presenza, dinanzi all’organo giudicante, di accusatori e accusato: vi è un’accusatio privata (portata avanti dai rappresentanti del Sinedrio) e si procede davanti a Felice nelle consuete forme previste per questo tipo d’iniziativa. Come efficacemente sintetizzato dallo stesso Luca in At. 25.16, del resto, non era consuetudine dei Romani condannare un uomo prima che avesse avuto di fronte i suoi accusatori e avesse avuto l’opportunità di difendersi dall’accusa promossa nei suoi confronti.

Paolo ricorse all’appellatio ad Caesarem: come era disciplinata tale facoltà?
L’individuazione della disciplina applicabile dipende dalla natura giuridica dell’istanza che l’apostolo rivolse a Cesare. Ci si deve, dunque, innanzitutto domandare se quella invocata da Paolo possa definirsi un’appellatio, così come delineatasi nel periodo classico, ovvero si tratti di quell’istituto che alcuni studiosi, col Mommsen, chiamano provocatio ad imperatorem, ovvero ancora sia l’espressione di una nuova e più ampia forma di provocatio che può in qualche modo essere assimilata all’appellatio così come, presumibilmente, viene a configurarsi nel I secolo. Malgrado la pluralità delle ipotesi proposte in dottrina, per molti aspetti assai persuasive, e pur con la cautela che deve essere usata nella ricostruzione di un istituto che rimane per certi versi indecifrabile, l’appello di Paolo, in ragione di alcune sue specifiche caratteristiche, pare potersi collocare all’interno del quadro della provocatio, così come desumibile dalle fonti relative alla lex Iulia de vi publica (alle quali si è già fatto riferimento, domanda 4). Non sembra, infatti, che la disciplina augustea si limitasse, come in precedenza, a proteggere il cittadino dai soli atti coercitivi degli organi esercenti la repressione criminale. È possibile che accanto all’antica provocatio repubblicana si fosse formata una diversa e più ampia provocatio, consistente nell’opposizione alla cognitio autonoma di un magistrato e nella richiesta di un giudizio da parte di altro organo. Così inteso, il ius provocationis avrebbe potuto essere validamente esperito dal cittadino residente in provincia anche a seguito dell’incardinamento di un processo penale a suo carico, nel contesto di un vero e proprio iudicium. Se, infatti, è vero che con la lex Iulia de vi publica venne rinnovato il divieto per i magistrati o funzionari (dotati di imperium o potestas) di disporre sommariamente atti coercitivi a carico del cittadino, è altresì vero che, secondo il testo delle Pauli Sententiae, la medesima lex avrebbe sia introdotto un generico condemnare tra le condotte magistratuali sanzionabili, sia previsto l’esclusione dalle tutele per i cittadini che fossero stati iudicati. In questa prospettiva, può supporsi che, se per un verso il subordinare la legittimità dell’atto alla pronuncia di una condanna equivaleva verosimilmente ad un immediato divieto – per l’organo esercente l’imperium o la potestas – di disporre sommariamente l’uccisione, la fustigazione, la tortura o l’imprigionamento del civis, dall’altro, è possibile che l’eventuale esercizio della provocatio a seguito dell’instaurazione di un procedimento penale avrebbe interrotto il giudizio e comportato un effetto devolutivo dello stesso ad altro organo, come nel caso di Paolo. Non è, quindi, inverosimile che con la provocatio operante nella prima età imperiale, per il cui esercizio rimanevano necessari specifici requisiti sia in ordine allo status del postulante (civis Romanus), sia in relazione al momento entro cui avrebbe potuto essere validamente proposta (prima del provvedimento finale), andasse a configurarsi uno specifico diritto per il cittadino romano che avesse voluto trasferire la cognizione del proprio caso innanzi al tribunale imperiale e non solo una mera facoltà, subordinata in quanto tale all’apprezzamento del giudice a quo, quale deve invece considerarsi la possibilità di appellarsi a Cesare, indistintamente concessa a tutti i sudditi dell’impero verosimilmente a seguito del conferimento ad Augusto del potere di έκκλητον δικάζειν.

Come si concluse il processo di Paolo?
Una volta sottratto alla cognizione del governatore provinciale, il processo avrebbe dovuto essere celebrato nella capitale, dinanzi al tribunale imperiale. Gli Atti, tuttavia, si concludono in modo enigmatico e non forniscono alcuna informazione sul processo, sul suo eventuale svolgimento dinanzi al tribunale imperiale, né – tantomeno – sulla sua conclusione. Per tale motivo, si può solo tentare di colmare le lacune della fonte proponendo alcune tra le ipotesi che sono apparse maggiormente verosimili, in ragione di alcuni dettagli di cui lo stesso Luca ci informa nella chiusa della sua opera. Luca, infatti, nei versetti finali degli Atti, afferma che l’apostolo rimase a Roma due anni interi ‘nella sua casa in affitto’, in regime di custodia preventiva. In tale preciso riferimento temporale alcuni hanno scorto l’allusione a un ipotetico termine di comparizione in giudizio per gli accusatori, trascorso il quale il procedimento si sarebbe concluso con una pronuncia a favore dell’imputato. Secondo tale lettura, dunque, il processo contro Paolo, in seguito all’assenza degli accusatori da Roma per due anni, si sarebbe concluso con una pronuncia a favore dell’apostolo. La mancata spontanea comparizione degli accusatori entro i tempi concessi, tuttavia, secondo una recente lettura, avrebbe comportato non già l’obbligo per il tribunale imperiale di pronunciarsi a favore della parte presente, ma l’accompagnamento coatto in giudizio degli accusatori, i quali in questo modo avrebbero potuto proseguire il processo ingiustificatamente abbandonato. Se ciò fosse vero, non potrebbe – quindi – ritenersi che Paolo, in ragione dell’assenza degli accusatori, fosse stato automaticamente liberato dopo i due anni di custodia romana, ma potrebbe tutt’al più supporsi che, una volta giunti a Roma i suoi accusatori, la pronuncia di un’eventuale sentenza di proscioglimento sia seguita al normale svolgersi del processo innanzi al tribunale imperiale. Se, però, a tale conclusione può giungersi sulla base dei dati contenuti in un noto documento papiraceo, ove è contenuto il testo di un editto di Nerone riguardante l’assenza degli accusatori nei processi portati innanzi al tribunale imperiale a seguito di appello o remissio della causa, non deve dimenticarsi che nel medesimo torno di tempo che ha verosimilmente visto l’apostolo giungere a Roma (nel 61 d.C.) è stato promulgato il senatoconsulto Turpilliano, che prevedeva, in caso di desistenza degli accusatori, che il reus venisse liberato e il suo nome cancellato dalla lista delle accuse pendenti. Sebbene sia vero che la disciplina del Turpilliano avrebbe dovuto applicarsi – in un primo momento – solo nel sistema dei publica iudicia, non può tuttavia escludersi che tali disposizioni trovassero applicazione (per equilibrio di sistema) anche nelle cognitiones imperiali che giudicavano su crimina publica, come nel caso di Paolo. Ancor più se consideriamo che in un noto, quanto discusso, passo di Macro (D. 48.16.15.5) si fa riferimento a uno specifico limite temporale che il Turpilliano avrebbe imposto all’accusatore al fine di peragere reum, identificabile in un anno o, significativamente, in un biennio. Il medesimo lasso di tempo, cioè, al quale fa riferimento Luca.

Anna Maria Mandas è ricercatore a tempo determinato di diritto romano e diritti dell’antichità nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Cagliari. Dal 2017 è titolare dell’insegnamento di Diritto pubblico romano nel corso di laurea in Scienze dei servizi giuridici. Attualmente si trova presso la LMU (München) per un soggiorno di ricerca promosso dal Deutscher Akademischer Austauschdienst (DAAD).

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