
Roma e il suo diritto giocano indubbiamente un ruolo centrale, rappresentando il palcoscenico sul quale la vicenda giudiziale forse più celebre al mondo si fa storia: lo stesso Dante, del resto, nel De Monarchia non esitava a riconoscere apertamente lo statuto eccezionale assunto dal diritto romano nel nesso inestricabile esistente tra i misteri della incarnazione e della salvezza, da un lato, e l’impero universale, dall’altro. Anzi la stessa vita terrena del Cristo, per il Poeta, inizierebbe e terminerebbe all’insegna e nel vigore del diritto romano.
A lato di innumerevoli contributi di taglio vuoi teologico, vuoi simbolico, il volume a nostra cura affronta gli ultimi giorni della vita di Gesù solo da una prospettiva giuridica: una prospettiva che i Vangeli lasciano più o meno velatamente trasparire, talora celata, talaltra oggetto di allusioni, talaltra ancora affiorante direttamente anche se in modo umbratile.
In particolare, le tematiche a venire in rilievo sono i capi di accusa, le regole ordinanti i processi criminali promossi in provincia contro i peregrini, l’ufficio ricoperto dal governatore, il ruolo svolto dai sinedriti e dal popolo della Giudea, l’esistenza di garanzie minime per l’imputato, il significato della pena inflitta.
Ciascun autore, secondo il proprio punto di vista e la propria ricostruzione dei fatti e degli istituti, offre spunti per un ripensamento critico su tutte tali tematiche: sia in generale, ossia con riguardo al modo di funzionare della repressione criminale a cavaliere tra I secolo a.C. e I secolo d.C., sia in particolare, ossia con riguardo al caso concreto occorso a Gesù di Nazareth.
Quali erano le norme di diritto sostanziale asseritamente violate da Gesù?
È la lesa maestà la figura di reato che probabilmente viene formalmente contestata a Gesù. Come noto, si tratta di un crimine a condotta libera represso in nome della ‘sicurezza del popolo romano e delle sue istituzioni’, nonché in sé assorbente – tra le moltissime sue diatesi materiali, rese possibili da un concetto assai sfuggente e orientabile politicamente – casi di alto tradimento, sedizione, incitamento alla rivolta.
Tuttavia, per comprendere le ragioni di tale accusa, occorre partire dalla fattispecie criminosa ascritta al Nazareno dai membri del sinedrio. Secondo diritto ebraico, infatti, Gesù avrebbe commesso blasfemia flagrante e, pertanto, sarebbe stato ritenuto meritevole di morte. Il sommo sacerdote Caifa, a fronte di una pluralità di testimonianze tra loro contrastanti e pertanto incapaci di ‘incastrare’ Gesù, ne provoca una confessione: Gesù, così, si auto-proclamerebbe Cristo, Figlio di Dio, Figlio del Benedetto, Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza che viene sulle nubi del cielo (Mt 26.63-64; Mc 14.62). La messianicità professata da Gesù viene quindi interpretata da Caifa conformemente all’antico modello di stampo giudaico: ossia come una pretesa di Gesù (anche) alla regalità terrena sulla nazione ebraica.
È proprio questa lettura, sul piano del diritto ebraico, che permette di fondare, su quello del diritto romano, una accusa di adfectatio regni. Gesù bestemmierebbe e, nel fare ciò, si mostrerebbe come ‘aspirante re’, come ‘uomo titolato a un dominio terreno’: una delle condotte integranti, nel primo principato, la figura di laesa maiestas e, perdipiù, un’ipotesi che, forse, nella più remota età repubblicana implicava per l’offensore il divenire automaticamente un homo sacer, ossia un uomo appartenente alla divinità e, perciò, in totale balìa della volontà divina. Solo in questo modo il sommo sacerdote, davanti al governatore romano, può ‘piegare’ in senso politico il reato di blasfemia commesso da parte di Gesù e accertato incontrovertibilmente dinanzi il sinedrio.
Non va sottaciuto, infine, che il passaggio contenuto in Lc 23.2 («Abbiamo trovato costui che metteva in agitazione il nostro popolo, impediva di pagare tributi a Cesare e affermava di essere Cristo re») consente di mettere a fuoco ulteriori contegni criminosi ascritti al Nazareno e sempre riconducibili all’ampia sfera oggettiva della lesa maestà: nello specifico, viene in rilievo la seditio, di cui è responsabile chi promuoveva adunanze sovversive o incitava la gente alla sollevazione; in secondo luogo, l’istigazione al venir meno all’obbligo civico di pagare i tributi.
Quali le regole ordinanti i processi criminali promossi in provincia contro i cittadini e contro i peregrini?
In generale si può concordare sul fatto che i governatori provinciali godessero di un potere repressivo piuttosto libero (anche se talora esercitavano tale potere imitando le strutture e le discipline del processo criminale ordinario delle quaestiones, ossia delle commissioni inquirenti e giudicanti cittadine, oppure seguendo quelle assai meno irreggimentate, della cognitio straordinaria): per esempio, avevano la facoltà di rinunciare a gestire personalmente l’intero processo, istituendo giurie popolari (con membri a loro scelta) o coinvolgendo le comunità cittadine nella definizione dei giudizi. Nel fare ciò, tuttavia, non potevano ignorare i principi cardine del diritto romano, che – ad esempio – non ammetteva confusioni tra accusatio e iudicatio oppure tra pars populi e populus universus.
Più in particolare si può dire che, agli inizi del principato, i funzionari preposti al governo delle province prefettizie o procuratorie amministrassero, in aree di ostica romanizzazione, la giustizia criminale in forza di un imperium nella sostanza ampissimo e discrezionale che, almeno nei confronti dei peregrini (sudditi provinciali), includeva la animadversio capitale, ossia la repressione di reati sanzionabili con la pena di morte. Il governatore provinciale, nel caso di violazioni della publica disciplina (ossia dell’ordine pubblico e della pace sociale), come in caso di sedizione, tumulto, incitazione sovversiva del popolo, poteva provvedere con ampia autonomia nel ricercare le prove, nel fermare i trasgressori in custodia, nell’interrogarli, nel sanzionarli con pene corporali (come la flagellazione), oppure metterli a morte (per esempio mediante la damnatio in crucem o quella ad bestias), oppure bandirli (mediante la deportatio in insulam). Ove fosse stato un cittadino romano a commettere reati punibili capitalmente, la animadversio criminale aveva confini ben più ristretta in ragione della garanzia per cui il cittadino, minacciato di messa a morte, dopo la provocatio doveva essere inviato a Roma per il giudizio ordinario.
In assenza di un principio di accusatio publica, la segnalazione della commissione di un illecito lesivo dell’ordine pubblico poteva avvenire grazie ai funzionari alle dipendenze del governatore, oppure attraverso dispacci che giravano tra le forze legionarie, oppure per il mezzo della polizia locale: i fatti si segnalano al governatore secondo un ordine che si allontana, per certi versi, sia dal sistema della quaestio prima della lex Iulia, sia, per certi versi altri, da quello della quaestio dopo le riforme del 17 a.C. del libellus inscriptionis, mentre si avvicina a quella struttura di impostazione e di amministrazione della giustizia criminale che trova il proprio modello nel processo diretto dal principe o da un suo funzionario. Se poi, oltre alla segnalazione, si provvedeva all’arresto, regole rituali ben precise pare dovessero ispirare questa fase procedimentale: si doveva provvedere all’interrogatorio; si doveva redigere rapporto; si doveva tradurre presso il governatore, scortato, il soggetto reputato autore dell’atto minante la pace sociale all’interno della provincia o dell’appendice provinciale; davanti al governatore si dovevano riesaminare in maniera puntuale i fatti ascritti.
Quali erano, se esistenti, le minime garanzie dell’imputato?
Nell’epoca di nostro interesse, ossia la prima età imperiale, il cittadino romano, come noto, rivendicando il proprio status civitatis, avrebbe potuto appellare a Cesare. Grazie a questo istituto, egli faceva valere il proprio diritto di essere giudicato dal tribunale del princeps a Roma, con la speculare sottrazione alla giurisdizione provinciale. Se un governatore avesse violato la persona di un civis Romanus sarebbe stato sanzionato secondo le previsioni della lex Iulia de vi.
Se è vero che l’appellatio era una prerogativa dei romani, ciò non significa che l’imperium del governatore, in virtù del quale egli reprimeva e perseguiva i reati commessi dai peregrini, fosse illimitato: non si può escludere, infatti, una qualche autolimitazione più o meno consuetudinaria della coercitio, legata all’intelligente rispetto dei princìpi giuridici nazionali, sebbene la decisione del magistrato non fosse soggetta a gravame, dal momento che per gli stranieri sarebbe stato unicamente possibile un ricorso a carattere politico.
E ancora: gli ultimi studi sul processo a Paolo di Tarso, civis Romanus, sono inclini a ritenere che la sua richiesta di essere giudicato dal tribunale imperiale fosse fondata sulla facoltà attribuita al principe, sin dal 30 a.C., di avocare alla propria cognizione tutti i processi, anche penali, tanto in corso quanto ancora da radicare, su istanza dell’imputato in quanto tale: in altre parole, si sarebbe trattato di una garanzia di difesa invocabile anche dagli stranieri. Tuttavia, se il magistrato avesse violato tale facoltà, sarebbe stato sanzionato unicamente nel caso in cui il richiedente fosse stato un cittadino romano. Le ricerche in corso, insomma, ci restituiscono un quadro variegato del sistema delle garanzie degli stranieri, fotografandone un momento di transizione.
Come si rapportava questo apparato di giustizia criminale romana con le tradizioni giuridiche ebraiche?
Senza entrare nel merito della discussione circa la data esatta in cui la Giudea sarebbe stata annessa come provincia, va premesso che tutta la regione ha sempre dato del filo da torcere ai Romani: e ciò anzitutto per l’inclinazione ‘ontologica’ del suo popolo sia a vivere nel rispetto delle proprie tradizioni e del proprio nomos, sia a osteggiare la romanizzazione tanto nel senso di un proprio assorbimento in Roma quanto nel senso di una penetrazione di Roma nel proprio tessuto culturale.
L’interazione, quindi, tra Roma e Giudea non si poteva imporre per la prima se non come un problema di gestione politica, necessariamente accorta e occasionalistica; come un problema di convivenza con un popolo indocile e refrattario alla duttilità e alla malleabilità.
Questa tendenza anti-romanizzante dei Giudei e questa necessità per Roma, nella sua azione espansionistica e di consolidazione del potere, di ‘compromettere’ utilitaristicamente con i Giudei si riverberano ineluttabilmente tanto sulle vicende che hanno connaturato il popolo giudaico nei suoi rapporti con l’‘altro’, quanto sull’avvicendarsi dei differenti modelli governamentali e politici che Roma ha promosso in loco: o il governo diretto o l’influenza esercitata attraverso figure di re ‘fantoccio’. Così, se accanto alla figura di Erode, si profila quella di Archelao e, poi, quella di Agrippa I, risultano intercalate a questi periodi di rule by proxy (ossia di governo di reges amici et socii fedeli al popolo romano) forme di ‘governo diretto’, esercitato attraverso figure di funzionari che, etichettati sia come ‘preposti’ (praefecti) sia come ‘procuratori’ (procuratores), governavano aree assai turbolente, insidiose o arretrate. Ciò premesso, ben si capisce come – nel periodo storico che interessa la nostra vicenda processuale – il praefectus Iudeae pare non aver avuto alcuna competenza per gli illeciti religiosi contemplati e repressi dal diritto ebraico: Roma era solita concedere ai popoli con cui entrava in contatto e che sottometteva di vivere suis legibus ossia di regolare i rapporti sussistenti tra di loro secondo gli istituti patrii, con una considerevole persistenza di autonomia delle autorità locali etnico-religiose nella amministrazione della giustizia civile e nella creazione di nuovo diritto. Il sinedrio di Gerusalemme, conseguentemente, avrebbe mantenuto l’antica competenza per gli illeciti di natura religiosa, pur privato del potere di irrogare provvedimenti capitali (con la sola eccezione dell’ipotesi di profanazione del Santuario di Dio): una prerogativa questa che rimaneva solo in capo al governatore romano.
Che ruolo ebbero i sinedriti e il governatore, nonché il popolo della Giudea?
Quando si pensa al ruolo dei sinedriti, del governatore e del popolo della Giudea, sorge spontaneo domandarsi in quale misura fu determinante il loro apporto alla condanna di Gesù, nonché se fosse giuridicamente possibile una diversa interpretazione dei fatti, capace di condurre a un verdetto di segno opposto.
In questa sede ci sembra utile ricordare solo alcuni momenti ‘decisivi’ nel senso etimologico del termine: ossia ‘taglienti’, idonei a mutare per sempre il corso della storia.
In seguito alla resurrezione di Lazzaro, per timore dell’intervento repressivo dei Romani, che avrebbe portato alla fine del Tempio e del popolo ebraico, il consiglio delibera per la necessità, ancor più che per l’opportunità, della messa a morte di Gesù.
Dopo il tradimento di Giuda e il conseguente arresto di Gesù, nel primo interrogatorio Anna intende acquisire maggiori informazioni direttamente da quest’ultimo circa la sua dottrina e i suoi discepoli. Lo scopo ovviamente quello di far luce sulle condotte illecite rilevanti per diritto ebraico e per diritto romano, e così permettere al sinedrio di formulare con precisione le imputazioni finali, giocoforza capitali, cui farà seguito l’attivazione della giurisdizione del governatore. Ma la reticenza di Gesù impedisce ad Anna di conseguire l’obiettivo.
Abbiamo già rilevato come, di fronte a testimonianze contrastanti in ordine alla predicazione del Nazareno, Caifa chiede se egli è il Cristo, il Figlio di Dio, alludendo all’immagine terrena e nazionale del Figlio di David. Senonché, la replica («Tu l’hai detto. Anzi io vi dico: d’ora innanzi vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire sulle nubi del cielo»), se raffrontata con Sal 110 e Dan 7.13, appare espressione di una messianicità celeste, contenuta in un filone marginale della tradizione.
Ecco, quindi, uno snodo fondamentale che vede protagonista il sommo sacerdote: per formalizzare una accusa politica davanti a Pilato, egli si focalizza sulla prima parte della risposta di Gesù, dal momento che la sua domanda evoca, secondo la dottrina tradizionale, una regalità terrestre. Tale interpretazione si rivela essenziale in quanto, in difetto della stessa, non si comprenderebbe come l’autorità romana potesse mai essere messa in pericolo da un regno celeste. Non va poi sottaciuto che l’immagine di un Messia fatto prigioniero, abbandonato dai seguaci, ridotto all’impotenza e consegnato alla violenza degli avversari era inaccettabile per la mentalità ebraica e, quindi, rafforzava il sospetto di essere di fronte a un impostore o a uno scellerato.
Per la pronuncia della bestemmia, i sinedriti dichiarano Gesù passibile di morte e lo inviano a Pilato. Il governatore della Giudea sembra intenzionato a non aprire il caso, probabilmente in ragione della sua personale convinzione dell’irrilevanza o dell’erronea formulazione delle imputazioni secondo diritto romano. Significativo, al riguardo, il monito «Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra Legge!» (Gv 18.31). Tuttavia, incalzato dall’inappuntabile risposta «A noi non è consentito mettere a morte nessuno», Pilato si risolve a instaurare il processo: per paura delle conseguenze di un suo rifiuto o avendo maturato un diverso convincimento? È difficile dirlo.
Alla domanda «Sei tu il re dei Giudei?», i Vangeli sinottici fanno rispondere Gesù «Tu lo dici». Giovanni, invece, riporta per intero l’interrogatorio – scaturito dalla replica «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?» (Gv 18.34) – che si articola come segue: «“Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?”. Rispose Gesù: “Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù”. Allora Pilato gli disse: “Dunque tu sei re?”. Rispose Gesù: “Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce”. Gli dice Pilato: “Che cos’è la verità?”» (Gv 18.35-38).
Il prefetto proclama di non rinvenire alcuna colpa nell’imputato e, nella speranza di farlo liberare grazie al privilegio Pasquale (ossia l’usanza di rilasciare un detenuto in occasione della Pasqua), decide di deferire al popolo la celebre scelta tra Gesù e Barabba, confidando – erroneamente – in un esito opposto a quello cui la volontà ‘giudaica’ condurrà.
Pilato avrebbe voluto concludere il processo con una ‘pacifica’ sentenza di assoluzione; o al più inoltrare l’imputato al tribunale imperiale se non procedere a un supplemento di indagini. Ma, schiacciato ancora una volta dal timore dei sinedriti, si rimette alle determinazioni popolari: «“Ma allora, che farò di Gesù, chiamato Cristo?”. Tutti risposero: “Sia crocifisso!”. Ed egli disse: “Ma che male ha fatto?”. Essi allora gridavano più forte: “Sia crocifisso!”. Pilato, visto che non otteneva nulla, anzi che il tumulto aumentava, prese dell’acqua e si lavò le mani davanti alla folla, dicendo: “Non sono responsabile di questo sangue. Pensateci voi!”. E tutto il popolo rispose: “Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli”» (Mt 27.22-26).
La versione di Giovanni evidenzia un ulteriore istante di dissidio interiore del prefetto, quando – fatto flagellare Gesù – ribadisce l’assenza di colpa in quest’ultimo e tenta di rimpallare il caso ai Giudei. Egli, dopo aver udito dall’imputato «Tu non avresti alcun potere su di me, se ciò non ti fosse stato dato dall’alto. Per questo chi mi ha consegnato a te ha un peccato più grande» (Gv 19.11), impaurito dalla prospettazione di un castigo divino, cerca di liberarlo, ma alla fine è sopraffatto dal timore delle più immediate conseguenze di una denuncia nei suoi confronti alle autorità romane, atteso che i Giudei gridano: «Se liberi costui, non sei amico di Cesare! Chiunque si fa re si mette contro Cesare”» (Gv 19.12), ove per amico di Cesare si intende un valido rappresentante del princeps.
Alla fine, Pilato pronuncia una sentenza che solo formalmente risulta a lui ascrivibile: una infrazione, forse, quest’ultima del divieto assoluto di rimettere all’accusa la decisione della causa? Resta, poi, un dubbio non irrilevante sul numero di Giudei presenti al processo. Autorevoli studi in materia ritengono che il gruppo – anche se i Vangeli discorrono di ‘popolo’ e di ‘folla’ – non fosse composto da più di un centinaio di persone, tra cui annoverare i membri del sinedrio stesso, la truppa dell’arresto, gli amici e i conoscenti dell’imputato, nonché alcuni passanti fermatisi per curiosità qualche minuto, per poi riprendere i preparativi per la Parasceve: sicuramente l’ascrizione alla nazione ebraica tout court della responsabilità dell’intera vicenda non è che un’iperbole.
In che modo il contesto politico e sociale dell’epoca influenzò il processo e Il suo esito?
Come già si è detto, la Giudea era una regione che, sotto diversi profili, aveva sempre dato del filo da torcere ai Romani, per la sua tendenza fisiologica a valorizzare in senso separatistico il proprio modus vivendi e, quindi, a osteggiare la romanizzazione.
Il popolo ebraico è legato indissolubilmente alla teocrazia di un Dio anzitutto legislatore, a norme divine che non lasciano spazi vuoti, alternative, possibili canali di penetrazione e assestamento per concorrenti modalità di vita. La vicenda processuale di Gesù ben riflette il clima di tensione – che il potere politico era costantemente chiamato a stemperare – tra i sinedriti e i Giudei, da una parte, e il prefetto, dall’altra.
Per quanto concerne le ragioni dell’accusa, è interessante porre mente a Mc 15.10 e Mt 27.18, dove si palesa la consapevolezza di Pilato circa il fatto che Gesù gli era stato consegnato per invidia. I sinedriti, infatti, guardano con astio al crescente numero di seguaci del Nazareno e si manifestano pieni di zelo per la legge violata dalle sue minacce contro il tempio e dalla sua bestemmia. Che per loro Gesù fosse solo un falso profeta era ricavabile anche dalle sue condizioni materiali: come si è già appuntato, un Messia prigioniero, abbandonato dai suoi amici, ridotto all’impotenza e consegnato agli avversari non è di certo una immagine collimante con l’ideale messianico tradizionale.
Colui che attenta alla religione mosaica, di cui i sinedriti si sentono i legittimi custodi, merita di essere condannato a morte per evitare la rovina della nazione. Il diritto romano diviene allora uno strumento utile e necessario per conseguire l’obiettivo.
Pilato si mostra avverso alla pretesa dei Giudei, improvvisamente animati da un sospetto lealismo verso Roma e e le sue istituzioni. Senonché, la minaccia di denuncia all’imperatore per infedeltà in caso di rifiuto delle aspettative dell’accusa prende il sopravvento: il governatore, forte della volontà popolare espressa dai presenti, pronuncia malgré soi la condanna.
Va comunque sottolineato, a valle di tutto ciò, come le convinzioni e le paure personali di Pilato siano trascese da quanto dischiude la serrata concatenazione processuale che i Vangeli restituiscono: due interrogatori cui Gesù viene sottoposto intervallati dalla flagellazione e dal pubblico dileggio; l’ascolto da parte del governatore dei sinedriti e delle loro accuse; il rinvio – secondo il solo Luca – dell’accusato ad Erode Antipa, tetrarca di Galilea; la doppia esposizione alla cosiddetta ‘folla dei Giudei’, all’esito della quale – come già sottolineato – gli astanti deprecano a gran voce l’eventuale liberazione di Gesù in quanto nemico di Roma e di Cesare.
Solo all’esito di tale iter, Pilato, nell’esercizio del suo ampio imperium comprensivo del potere di animadversio, matura, orientato definitivamente dalla turba vociante e dalla lettura sinedritica, in chiave anche politica, della ‘regalità’, della ‘messianicità’ nonché della ‘figliazione da Dio’ di Gesù, il convincimento, pur con difficoltà e tentennamenti, dell’emanazione di un provvedimento di condanna definitiva. Del resto, non va tralasciato che nel corso del giudizio prefettizio numerosi elementi sussidiari di prove nonché argomenti di prova, comunque rilevanti nell’istruttoria dei processi criminali romani, vengono raccolti a sostegno della condannabilità dell’accusato (come rumores, signa, fama, indicia). Gesù, del resto, è un peregrinus privo del diritto di provocare al popolo romano e, comunque, a prescindere dallo scetticismo di Pilato, una qualche forma di garanzia (la voce della folla quale ‘sineddoche’ della ‘vox populi’) non è stata trascurata in termini di ‘autolimitazione della sua potestà punitiva’. Pilato, insomma, è governatore della provincia e, quale amministratore della giustizia criminale con ampie e fluide funzioni requirenti e giudicanti, ha ampio margine nel provvedere, anche nell’ottica del supremo interesse della conservazione della pace e dell’ordine pubblico, alla irrogazione della pena capitale: e così, infatti, fallita anche la via del privilegium paschale, alla fine dispone.
A mente di questi elementi, non può non tornare ancora una volta alla mente il pensiero spietato, lucido ed eversivo di Dante, portavoce di una dottrina che assoggetta al progetto provvidenziale tanto la storia, il diritto e l’impero di Roma, quanto la salvezza dell’umanità: Gesù è accusato, processato, condannato, messo a morte secondo il diritto romano e il provvedimento di punitio che lo mette a morte è un atto iustum, emanato da una autorità universale habens iurisdictionem puniendi (Monarchia II, xi, 4). Che l’esito sia stato anche buono ed equo è però tutt’altra questione.
Carlo Pelloso, ordinario di Diritto romano presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Verona, è autore di numerose pubblicazioni attinenti alle esperienze giuridiche del Mediterraneo antico; è co-direttore di RΔE e vice-direttore di D@S.
Isabella Zambotto, assegnista di ricerca in Diritto romano presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Verona, è autrice di pubblicazioni attinenti all’esperienza giuridica romana e contemporanea.