“Il principio di essenzialità. Profili costituzionali del conferimento di poteri fra Stati e Unione europea” di Giuliano Vosa

Dott. Giuliano Vosa, Lei è autore del libro Il principio di essenzialità. Profili costituzionali del conferimento di poteri fra Stati e Unione europea edito da FrancoAngeli: come si configura e come si è strutturato il principio di essenzialità?
Il principio di essenzialità. Profili costituzionali del conferimento di poteri fra Stati e Unione europea, Giuliano VosaIl principio di essenzialità ha una data di nascita: 17 dicembre 1970. Quel giorno, i giudici della Corte di Giustizia della Comunità europea emisero due sentenze. Una ha avuto un’eco notevole a livello politico e scientifico; infatti tra gli studiosi la conoscono tutti malgrado il nome impronunciabile, Internationale Handelsgesellschaft. Diceva una cosa forte: che il diritto della Comunità prevale su qualunque norma di diritto interno, anche di rango costituzionale. L’altra è più modesta, nella portata, nel nome – Köster – e pure nell’immaginario collettivo degli studiosi. Diceva una cosa che sembrava marginale: le basi giuridiche secondarie sono legittime. Ma vi apponeva una postilla, che suona più o meno così: “… purché i punti essenziali della materia da regolare siano disciplinati secondo la base giuridica determinata dal Trattato”. La prima parte la ricordano bene tutti quelli che studiano comitologia, cioè l’insieme delle procedure per l’adozione di atti comunitari esecutivi (ossia che fissano i dettagli per applicare altri atti comunitari detti legislativi: la Commissione è affiancata da comitati di esperti scelti dagli Stati membri, e a seconda della procedura concordata ha più o meno poteri rispetto ad essi). Se la ricordano, sì, ma nemmeno le hanno dato chissà quale peso. La seconda parte è passata in sordina; eppure ha un’importanza fondamentale. Per capire perché, facciamo un passo indietro.

Il passaggio cruciale delle Costituzioni che gli Stati si sono dati nel secondo dopoguerra è la relazione circolare fra separazione dei poteri e garanzia dei diritti, al centro della quale sta la nozione di cittadino-persona. Il cittadino-persona si auto-determina esercitando un diritto-dovere – il voto – con cui contribuisce a comporre il Parlamento legislatore. Il Parlamento legifera, stabilisce il perimetro dei diritti e l’entità dei doveri (ad esempio quello contributivo, pagare le tasse); il Parlamento dà la fiducia al Governo, che adotta i regolamenti per l’esecuzione delle leggi e dirige l’insieme delle Pubbliche Amministrazioni; alle leggi del Parlamento si sottomettono i giudici, che applicano il diritto al caso concreto. Sicché i diritti dei cittadini-persone sono in concreto stabiliti dagli stessi cittadini-persone, che votano, interloquiscono con le PA, adiscono le Corti. È in questo senso che, in base alla Costituzione, la Repubblica riconosce e garantisce diritti ai cittadini: sono i cittadini a deciderne il perimetro interagendo con le articolazioni dello Stato, che consentono loro di trasformare la propria soggettiva auto-determinazione individuale in auto-determinazione collettiva di una società plurale. È per questo che fin dal 1789 la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, cioè il più importante documento della Rivoluzione francese, statuisce che “una società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri determinata, non ha costituzione”. La Costituzione crea gli spazi affinché i cittadini possano riconoscersi da sé soli i propri diritti attraverso lo Stato. Se così non fosse, quei diritti non sarebbero riconosciuti e garantiti, come prescrive la Costituzione; ma elargiti, “concessi” dal potere a soggetti incapaci di auto-determinarsi – cioè a cittadini-sudditi, non a cittadini-persone – e quindi non garantiti ma semplicemente dipendenti dall’arbitrio del capo, monarca, presidente, dittatore o chi per esso.

Non è difficile rendersi conto dell’importanza storica di questo passaggio. Ci si chiede allora: come si può mantenere la stessa relazione circolare fra poteri e diritti anche in una società più ampia e complessa come quella europea, che trascende le frontiere degli Stati nazionali?

Per prima cosa, occorre confrontarsi col dato empirico: capire cos’è successo quando lo Stato ha “aperto” le vie della separazione dei poteri, attraverso le quali produceva diritto legittimo, a livelli extra-statali. Quest’apertura è avvenuta in due passaggi: nel primo, che si realizza nel 1950 con la CECA, gli Stati membri hanno attribuito compiti a organi sovranazionali per perseguire finalità proprie; nel secondo, che ha inizio con la CEE nel 1957, quegli “organi” sono stati riconosciuti “istituzioni” e i “compiti” sono aumentati, sia di numero che di spessore, assumendo la forma di obiettivi – in pratica svincolando, nella maggioranza dei casi, le istituzioni stesse dal rispetto di contenuti concreti. Questo punto è fondamentale, perchè significa che il Trattato CEE non attribuisce compiti ma conferisce poteri: e ciò implica un riconoscimento politico. Le istituzioni non sono mere esecutrici dei compiti loro assegnati, ma hanno una capacità rappresentativa propria, che integra quella dei Parlamenti anche se non si basa sulla rappresentanza parlamentare; ed è in forza di quella capacità che interpretano il mandato ricevuto col Trattato, “rileggendo” le finalità inizialmente riconducibili agli Stati secondo le determinazioni che si formano nel loro seno e nelle loro reciproche interazioni. È così che si forma il diritto comunitario: muove dal consenso iniziale degli Stati e si espande ad ambiti applicativi inizialmente non ricompresi, con priorità sul diritto statale, permettendo alle istituzioni comunitarie di fissare in concreto le modalità di perseguimento dei fini iniziali.

Eccoci di nuovo a Köster. La seconda parte di quella sentenza dice questo: nel perseguire i fini dettati dagli Stati, le istituzioni possono anche decidere, seguendo il mandato stabilito dal Trattato, che una certa parte della disciplina sostanziale sarà dettata con un’altra procedura, composta da altri soggetti – comitati, gruppi di lavoro, o altro – dotati di poteri che le istituzioni stabiliscono ad hoc. Fa parte, questa determinazione, delle modalità di perseguimento dei fini iniziali che alle istituzioni il Trattato riconosce: si chiama base giuridica secondaria, ed è una sorta di clone della base primaria prevista dal Trattato, fissata in concreto dalle istituzioni nel se e nel come. Possono, le istituzioni, deliberare in tal senso, ma con un limite: i punti essenziali della materia da regolare devono essere disciplinati con la procedura che gli Stati avevano inizialmente previsto nel Trattato. Cioè: anche se si presume che il consenso iniziale degli Stati “copra”, avalli, l’autonomia delle istituzioni nel fissare in concreto le modalità che esse ritengono atte a perseguire i fini inizialmente riconducibili agli Stati, tali istituzioni non possono delegare a una procedura partecipata da organi creati ad hoc i punti essenziali della materia. La disciplina di questi punti deve seguire la formula originaria, la base giuridica primaria; perché quella base è stata stabilita dagli Stati, con l’accordo dei Parlamenti, all’atto di ratificare i Trattati. Quindi, dice la Corte di Giustizia, ciò che stabilisce quella base ha una legittimità democratica rafforzata, poiché è sorretto dal consenso iniziale dei Parlamenti eletti dai cittadini.

Perché è così importante questo punto? Perché getta le fondamenta di un principio che dice più o meno così: più una norma tocca punti essenziali, più solido dev’essere il consenso dei suoi destinatari. A ben vedere, è lo stesso principio che fonda le Costituzioni del dopoguerra: il contenuto concreto dei diritti spetta ai loro destinatari secondo le vie fissate allo scopo dalla costituzione, che fissano a più livelli l’interazione fra cittadini e autorità – legislatore, amministrazioni, giudici. Solo che non può più contare sulla chiusura del sistema statale – sul principio di esclusività, direbbero i costituzionalisti. Quindi, non può sapere quale soggetto, se statale o extra-statale, regolerà una certa materia, né che cosa stabilirà in concreto; può solo offrire un canone empirico, per cui più una certa cosa è essenziale, più solido dev’essere il legame col consenso dei destinatari, che nel caso specifico si assume legato al consenso iniziale degli Stati e dei rispettivi Parlamenti. Se tocca un diritto fondamentale, ci vuole un atto più solido; se tocca un mero interesse, oppure tocca un diritto ma senza discostarsi troppo da quel che il Trattato, legittimato dagli Stati e dai rispettivi Parlamenti, aveva in concreto previsto, va bene anche un atto più “fragile”.

Adesso forse è più chiaro perchè quelle due sentenze, scritte lo stesso giorno, posseggono un legame forte. Il 17 dicembre 1970 la Corte di Giustizia stabilì: il diritto comunitario, finché vale la presunzione per cui il consenso originario degli Stati copre ed avalla le attività delle istituzioni comunitarie volte al perseguimento dei fini iniziali, prevale anche sulle norme costituzionali; ma sopporta, sempre e comunque, un limite – quello sancito dal principio di essenzialità, per cui le stesse istituzioni non potrebbero comunque spingersi a fondare una nuova base giuridica, ulteriormente svincolando l’attività normativa dal consenso iniziale. Tradotto: non possono interpretare il loro mandato, stabilito dal Trattato, in modo tale da rendere il consenso iniziale dei Parlamenti statali un mero appiglio formale. Se potessero, il conferimento di poteri dispiegherebbe tutta la sua portata iperdinamica: potrebbe autoriprodursi, come una cellula impazzita, e lasciare che organi incontrollabili per gli Stati e per le stesse istituzioni producano diritto, peraltro in nome di quelli e per conto di queste. Sarebbe in pratica la fine del cittadino-persona e il ritorno del cittadino-suddito; la fine delle garanzie previste dalle Costituzioni del dopoguerra e il ritorno a un passato che l’umanità ricorda come assai cupo.

Quali sono i fondamenti giuridici del principio di essenzialità?
Il principio di essenzialità è tenuto a battesimo dalla Corte costituzionale tedesca nel fissare il valore precettivo della riserva di legge. Per la Corte, l’esistenza di una riserva di legge impedisce al Parlamento di delegare al Governo la disciplina degli elementi essenziali di una certa materia. Questo principio si affaccia nella prassi già dai primi anni del secondo dopoguerra: il caso più noto è del 1978 e riguarda la normativa sulle centrali nucleari. Secondo i giudici tedeschi, una legge di delega al Governo su quel tema doveva comunque possedere una certa densità regolativa, lasciando al regolamento soltanto una parte marginale della disciplina complessiva. Il principio che se ne ricavò suona più o meno così: le decisioni essenziali spettano al Parlamento, in quanto eletto dai cittadini e quindi dotato di massima legittimità democratica. “Essenziali” viene ad identificarsi con “essenziali per la tutela dei diritti fondamentali” grazie a una costruzione dottrinale sofisticata, che collega il contenuto essenziale dei diritti fondamentali (cui lo Stato deve rispetto: art. 19(2) Legge fondamentale) con il contenuto essenziale del diritto di voto (art. 38(1)) fondato dalla sovranità popolare (art. 20); l’uno e l’altro imperniati sul rispetto della dignità intoccabile della persona come soggetto capace di auto-determinarsi (art. 1(1)).

La Corte di Giustizia si è servita di questa costruzione per interpretare il limite fra atti fondati sul Trattato e atti esecutivi. Inizialmente lo ha solo riletto in chiave formalistica; a dire la verità, si è limitata a usare il lessico del diritto costituzionale tedesco per legittimare un conferimento tutto teleologico, senza limiti di contenuto e giustificato solo dal perseguimento dei fini comuni, attività nella quale le istituzioni comunitarie godevano di una legittimazione “tecnica” (cioè erano ritenute più capaci, per mezzi e risorse, delle istituzioni nazionali). In un secondo momento però ha fatto leva sul Parlamento europeo, marginale nel decision-making comunitario ma pur sempre titolare di legittimazione diretta, per sovrapporre partecipazione parlamentare ed essenzialità là dove il Parlamento si opponeva a un atto normativo comunitario sostenendo posizioni tese a una maggior tutela dei diritti fondamentali. Sicché, la Corte ha annullato atti di delega o atti secondari su istanza del Parlamento europeo per violazione degli elementi essenziali. In genere, elementi essenziali e prerogative del Parlamento hanno seguito un cammino di rafforzamento reciproco; negli stessi anni, questo legame è emerso nell’atto giuridico che si proponeva di disciplinare più compiutamente le basi giuridiche secondarie (Decisione 468/1999, c.d. Seconda Decisione Comitologia) fissando un criterio di scelta fra una procedura più partecipata e altre più agili in base all’essenzialità della materia. Da quel momento in poi, la Corte di Giustizia ha sviluppato l’essenzialità come parametro autonomo, anche quando, col Trattato di Lisbona, la centralità del Parlamento europeo è venuta ad affievolirsi; anzi, se ne è servita in modo ancor più robusto, come surrogato di una parlamentarizzazione ormai impossibile. Nel 2012 ha costruito un vero e proprio giudizio di essenzialità, che incrocia l’interpretazione dell’atto di base e di quello secondario (continuità) con l’invasività della norma per le sfere giuridiche dei destinatari (a sua volta derivata dal rapporto fra incisività per i diritti fondamentali e conflittualità, ossia prova della mancata accettazione da parte dei destinatari). Lo scrutinio è così concepito: se una norma deriva da una lettura della base giuridica troppo spinta rispetto alla sua invasività per i destinatari, è priva di valore giuridicamente obbligatorio, poiché troppo lontana dal consenso originario, e va annullata. “Troppo spinta” è concetto relazionale, che muove dalla lettura delle norme e prende in esame sia l’afferenza in generale della disciplina all’area dei diritti fondamentali sia il dissenso che la norma in questione genera in concreto.

Quale dibattito ha animato il pensiero costituzionalistico europeo applicato all’integrazione?
Il dibattito su Europa e diritto costituzionale può leggersi in una parabola ciclica che ricorda l’alternarsi delle stagioni. Negli anni Cinquanta e Sessanta, la primavera inizia con l’affermarsi della nozione di sovranazionalità, donde la natura delle Comunità come organismo sui generis di diritto internazionale. Il modello CECA dell’attribuzione di compiti permetteva di inquadrare il fenomeno nell’ambito del diritto internazionale, e di servirsi di concetti amministrativistici per descrivere i rapporti fra livello nazionale e autorità sovranazionali. Il modello del conferimento di poteri, invece, rompe con questo scenario, e assegna alla sovranazionalità un carattere sostanziale: la produzione di diritto non è più interamente controllata dagli Stati, per forma e contenuto – diritto nazionale interno e diritto internazionale esterno – perché la Comunità vi si inserisce senza riguardo per il loro eventuale disssenso. Il concetto chiave per consentire alla Comunità di produrre diritto capace di applicarsi con priorità sul diritto interno fu coniato da un internazionalista tedesco, Carl Friedrich Ophüls, che chiamò i Trattati costituzioni-piano: intendendosi così presunta la volontà degli Stati verso la realizzazione di un’unione politica conchiusa. In questo modo, il diritto comunitario venne a poggiarsi su di una legittimazione peculiare, di tipo assiologico: fondata cioè sulla nobiltà del fine, che giustificava la prevalenza dei mezzi sulla difesa della sovranità dello Stato, tacciata di insopportabile anacronismo. Fu un esempio lampante di uso politico del diritto; peraltro nemmeno troppo sofisticato, poiché la Corte di Giustizia, potendo contare sull’appoggio delle élites politiche ed economiche nazionali, non esitò a proclamare la natura autonoma e speciale dell’ordinamento comunitario e a motivare su tali basi la superiorità del diritto della Comunità su quello degli Stati. Tale superiorità, non affrontando il tema dei rapporti fra ordinamenti ma “solo” pretendendo di imporsi in via pratica, fu designata come priorità nell’applicazione, comunemente detta “primato”; il diritto costituzionale statale restava gerarchicamente superiore, ma di fatto si applicava il diritto comunitario. Le Corti costituzionali statali si limitarono a verificare che tale processo non avvenisse in contrasto con i principi fondamentali delle Costituzioni nazionali; non mancarono momenti di tensione, specialmente con le Corti italiana e tedesca.

L’estate vede il superamento di questi punti di tensione grazie al successo di un nuovo concetto, coniato dal giurista tedesco Hans-Peter Ipsen, che sostenne un parallelismo fra il mutamento delle costituzioni nazionali e la costruzione di una costituzione europea. Per Ipsen, tutte queste costituzioni si fondano su valori comuni, quindi evolvono all’unisono, sicché non ha senso parlare di principi fondamentali nazionali in opposizione con principi fondamentali europei, poiché questi evolvono dagli stessi valori che danno fondamento a quelli. Il nome tedesco è importante: il mutamento costituzionale delle costituzioni nazionali era stato fin dagli anni Trenta definito Verfassungswandlung, quello della costituzione europea viene chiamato da Ipsen Wandel-verfassung. Giocando con le parole, per sua stessa ammissione, Ipsen sottintende che i due processi, in virtù di tale parallelismo, hanno la stessa legittimità; eppure non è così, perchè le costituzioni statali nascono come forma di un’unità politica preesistente, mentre quella europea vuole dar forma ad una unità politica non esistente. Su queste basi si trova l’accordo politico, sigillato da alcune fondamentali pronunce delle Corti europee – Corte di Giustizia, in specie le sentenze citate in apertura, e Corti costituzionali nazionali, soprattutto italiana e tedesca – verso la metà degli anni Ottanta. Così si arriva in carrozza fino a Maastricht, dove l’articolo F del Trattato stabilisce, quale bussola del rapporto fra Stati e Unione, la leale cooperazione politica tra Stati sovrani democraticamente governati e il rispetto di diritti fondamentali tratti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati – espressione a loro volta di quei valori fondamentali che danno vita alla Wandel-verfassung. L’equilibrio costituzionale di Maastricht pone al centro la relazione poteri-diritti, esattamente come le costituzioni nazionali; da qui poteva muoversi ad un progetto di Unione politica, ossia il Trattato-Costituzione.

L’autunno subentra quando diviene chiaro che quel progetto, per evidenti problemi genetici, è destinato al fallimento. L’ottica euro-unitaria è revocata in dubbio da chi critica, non senza ragione, la sua visione irenica, cioè forzatamente conciliatoria, cieca davanti alle differenze nazionali. Da lì si innesca una spirale regressiva che spalanca le porte all’inverno della crisi. Il solstizio d’inverno è il 12 dicembre 2008: in quella data, il Consiglio europeo di Bruxelles presenta delle Conclusioni in cui si dice, papale papale, che: 1) la crisi è di portata globale (qundi, sottinteso, non è colpa nostra, cioè dei governi riuniti a consesso, che si ritengono dunque legittimati a porvi rimedio); 2) le soluzioni sono state concordate in una riunione a Washington (leggasi: siamo andati in questua dall’alleato atlantico a chiedere come uscirne) sulla quale non è fornito alcun particolare ulteriore quanto alle posizioni di ognuno e al dibattito; 3) tali soluzioni saranno tradotte in diritto dalle istituzioni competenti (che quindi non hanno più alcuna autonomia politica); 4) sull’effettiva traduzione in diritto di tali soluzioni vigileremo, e in una riunione futura si farà il punto della situazione.

Da questo momento il diritto dell’Unione entra in un labirinto, la cui via d’uscita ancora non è ben chiara; fin troppo chiari, invece, sono i danni derivati da questa posizione dei governi nazionali, sul piano delle diseguaglianze sociali fra cittadini non meno che su quello, parimenti decisivo, della narrazione politica dell’Europa, oggi inevitabilmente recessiva.

Perché oggi il principio di essenzialità può applicarsi alle basi primarie?
Con la sentenza Pringle, nel 2012, la Corte di Giustizia ha semplicemente seppellito l’assunto che ha innescato l’evoluzione del diritto comunitario. Abbiamo detto che l’autonomia e specialità del diritto comunitario valgono finché vale la presunzione per cui il consenso iniziale degli Stati copre e avalla le attività delle istituzioni verso il perseguimento dei fini indicati dal Trattato: in questo modo, il diritto dell’Unione ha potuto interpretarsi in maniera espansiva, intersecando ambiti di applicazione inizialmente non previsti. Bene: in Pringle, il diritto dell’Unione viene interpretato nel senso che non si applica a un Trattato internazionale – il MES – che incide in modo profondo sulla politica economica e monetaria, disciplinata dal Trattato, quindi in senso restrittivo rispetto all’ambito applicativo del diritto nazionale; e quest’interpretazione viene motivata in base al consenso attuale degli Stati, quale espresso col MES, benché contrasti col consenso iniziale degli stessi presuntamente orientato ad un’espansione teleologicamente fondata. Siamo autorizzati a dedurne che quella presunzione non vale più. Difatti, la giurisprudenza e la prassi successive hanno dimostrato con evidenza incontrovertibile che l’equilibrio costituzionale di Maastricht necessita di una seria manutenzione. La costituzione-piano si fonda sulla presunta volontà degli Stati di procedere verso una unione sempre più stretta, e c’è stata Brexit; la costituzione-in-cambiamento si regge sulla presunta comunanza di valori da cui evolvono le rispettive costituzioni nazionali, e tale comunanza fa i conti con gli odiosi cleavages della crisi (debitori e creditori; Stati del Nord e Stati del Sud; Stati frugali e Stati spendaccioni). Questi cleavages, spaccature nel dibattito, che lo radicalizzano ostacolando la comprensione delle reciproche ragioni, nascondono una realtà fin troppo evidente: la reverse redistribution del reddito, la ridistribuzione dal basso verso l’alto, tipo Robin Hood ma al contrario, che la crisi ha comportato, e che ha naturalmente esacerbato i conflitti all’interno della società plurale europea, creando cittadini di serie A e di serie B sia tra gli Stati sia all’interno di ciascuno di essi.

Il principio di essenzialità applicato alle basi primarie evita che una norma capace di generare un dissenso radicale valga come diritto. Il teleologismo interpretativo, motivato dalla credenza che un’Unione sempre più stretta avrebbe invariabilmente portato benefici per tutti, si è eclissato: non v’è ragione per cui non possa ritornare al centro dei rapporti fra Stati e Unione ed applicarsi alle basi primarie, fino ad oggi dominate da quel teleologismo che ha perso la sua ragione d’essere. La priorità nell’applicazione del diritto dell’Unione, che ha finora avuto come fondamento l’identificazione in via presuntiva dei fini con esso perseguiti coi fini degli Stati, deve accettare la fine della visione irenica un tempo coltivata dal costituzionalismo europeo e lasciare spazio al conflitto, cui occorre trovare soluzioni politiche muovendo dall’assunto dell’eguaglianza di Stati e cittadini. In tal senso, il principio di essenzialità può – e deve, ma questo ovviamente è il parere di chi ne ha scritto – modellare tanto i rapporti fra Stati e Unione come le relazioni fra atti di base e secondari a livello comunitario. Su questa falsariga, quindi, devono muoversi gli argomenti identitari, cioè quelli che le Corti costituzionali statali vanno sempre più spesso sollevando per opporsi al primato incontestato del diritto dell’Unione sul diritto nazionale – lo stesso primato che nella sentenza del 1970, quella col nome difficile, la Corte di Giustizia aveva motivato sulla base dell’autonomia e specialità del diritto comunitario; lasciandosi però un’alternativa utile ove fosse venuto meno, a mo’ di giustificazione, il sostegno teleologico dell’Unione politica da costruire. Quel momento è oggi.

Giuliano Vosa è ricercatore di diritto costituzionale e diritto dell’Unione europea presso il Centro de Estudios Políticos y Constitucionales. Ha fatto la gavetta da stagiaire in varie istituzioni italiane ed europee, ha lavorato sul campo col Sindaco di Napoli negli Assessorati al Patrimonio e all’Acqua Pubblica, ha vinto un assegno di ricerca in diritto costituzionale alla LUISS (dove si è laureato; il dottorato alla Sapienza) ed è a Madrid dal 2018. Si è portato qualche libro, una chitarra e una macchinetta del caffè; poi ha sfasciato la macchinetta e la chitarra non l’ha imparata così bene, però si è divertito lo stesso. Ogni sera, in lockdown, esce in tuta tipo Batman e corre attorno al Retiro (chiuso di questi tempi); dice che è il suo modo per sciogliere l’ansia del tempo che passa. Comunque meglio di quando canta sentendosi un mix di Ligabue, Pino, Fossati e Liam Gallagher.

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