“Il potere delle devozioni. Pietà popolare e uso politico dei culti in età contemporanea” di Daniele Menozzi

Prof. Daniele Menozzi, Lei è autore del libro Il potere delle devozioni. Pietà popolare e uso politico dei culti in età contemporanea edito da Carocci: quale rilevanza assume, oggi come nel passato, il fenomeno dell’uso politico di devozioni tradizionali?
Il potere delle devozioni. Pietà popolare e uso politico dei culti in età contemporanea, Daniele MenozziNel mondo contemporaneo si è osservato un ritorno all’uso politico dei culti ad opera di diversi leader che promuovono movimenti populisti. In Italia il fenomeno è apparso evidente nel discorso pubblico tenuto, soprattutto in occasione di importanti appuntamenti elettorali, dal segretario della Lega, Matteo Salvini. Non a caso nel dibattito parlamentare dell’estate del 2019 il tema ha costituito una delle più evidenti ragioni del contrasto che ha portato alla crisi del primo governo Conte. Ma la questione ha un’estensione generale. Interessa sia paesi europei – dalla Francia alla Polonia, dall’Austria all’Ungheria – sia paesi extra-europei (tipico il caso del presidente Bolsonaro in Brasile). Non è nemmeno mancato, sia pure con minore frequenza e intensità, il tentativo di rispondere a queste tendenze con una risignificazione di culti tradizionali: ad esempio, per replicare alla propaganda anti-migratoria dei movimenti populisti, si sono diffuse immaginette devozionali della Madonna protettrice dei naufraghi. Ma quel che occorre considerare è il contesto complessivo in cui si inseriscono tutte queste tendenze.

In effetti, uno dei tratti essenziali della linea di papa Francesco, è rappresentata dal rilancio della pietà popolare. Tra le varie misure con cui intende restituire alla Chiesa un’efficace presenza nel mondo contemporaneo vi è anche la promozione dei culti che tradizionalmente hanno rappresentato il tessuto connettivo tra l’istituzione ecclesiastica e le masse. Un esempio recente è la promozione di un intero anno (8 dicembre 2020-8 dicembre 2021) dedicato all’approfondimento della devozione a san Giuseppe in occasione del centocinquantesimo anniversario della sua proclamazione nel 1870 a patrono della Chiesa universale. Nell’attuare questa linea di governo il pontefice argentino si sforza di raccordare le tradizionali forme di pietà religiosa agli elementi centrali della sua proposta di riforma del cattolicesimo. In particolare sottolinea che quelle pratiche devote rappresentano canali per radicare nella vita dei fedeli i temi (la misericordia, il perdono, la riconciliazione, la fratellanza, ecc.) che ritiene cruciali per rendere il messaggio cristiano credibile e attraente per gli uomini d’oggi.

Tuttavia nel suo discorso manca ogni attenzione alla storia dei culti che vengono riproposti. Ora la storia di questi culti è profondamente intrisa di significati politici che, di volta in volta, le autorità ecclesiastiche hanno loro attribuito in relazione alle circostanze storiche in cui li promuovevano. Nel ripercorrere analiticamente la connotazione politica delle più diffuse forme di pietà tra metà Ottocento e metà Novecento, il libro intende mettere in guardia da rimozioni della memoria che possono costituire una delle risorse più efficaci cui fanno ricorso gli odierni promotori del riuso politico delle devozioni in chiave populistica.

Come nacque e si sviluppò il culto dell’Immacolata Concezione di Maria e quali ne erano le finalità politiche?
Il culto all’Immacolata Concezione affonda le sue radici in una storia di lungo periodo che, in età moderna, non è priva di intrecci con la politica delle monarchie assolute, in particolare con la corona spagnola. Ma alla metà dell’Ottocento si verifica una svolta. Da un lato si assiste all’intensificazione della sua presenza nella devozione popolare, dall’altro si verifica un intervento del papato che definisce come dogma la tesi, per secoli dibattuta dai teologi, che Maria è stata concepita senza peccato originale. Pio IX, rifugiato nel regno delle Due Sicilie dopo la fuga da Roma in seguito alla proclamazione della Repubblica, inizia il percorso che porta alla definizione dogmatica.

All’origine della sua decisione sta semplicemente la considerazione che un incremento della pietà mariana attraverso l’attribuzione di un titolo – l’Immacolata Concezione – che rende nuovo onore alla madre di Gesù, può incentivare la sua intercessione per ottenere un intervento divino che muti il corso di una storia segnata dal diffondersi delle rivoluzioni in tutta Europa. Ma ben presto il pontefice aderisce ad una concezione teologico-politica che gli propongono ambienti controrivoluzionari e membri della “Civiltà cattolica”, la rivista della Compagnia di Gesù in Italia. Fissare dogmaticamente la dottrina dell’Immacolata Concezione di Maria vuol dire stabilire che tutti gli uomini sono nati con il peccato originale. Sono quindi portatori di un deterioramento della loro natura che ha precise conseguenze anche sul piano dell’organizzazione della vita collettiva: l’uomo non è in grado, senza l’aiuto della grazia mediata dalla Chiesa, di raggiungere quella perfezione che pure cerca di perseguire. Non ha quindi alcuna consistenza la tesi della modernità politica secondo cui gli uomini possono autodeterminare, grazie a libertà uguaglianza e sovranità popolare, un assetto della collettività che li rende capaci di arrivare a un felice e prospero consorzio civile. Ne consegue che la proclamazione del dogma incentiva il culto a Maria sotto un titolo che rende percepibile ai devoti l’impossibilità dell’autonomia dell’uomo dalla tutela ecclesiastica nella costruzione dell’ordinamento socio-politico.

In quest’ottica Pio IX cercherà di associare proclamazione del nuovo dogma mariano e emanazione del Sillabo di condanna degli errori moderni. Non riuscirà a portare a termine il suo progetto: i due atti, pur avendo esito effettivo, avranno strade separate. Ma nel suo insegnamento continuerà a proporre il culto all’Immacolata Concezione come via per radicare nei fedeli la convinzione di un’antitesi tra la Chiesa e la modernità politica.

In quale contesto sociale e politico maturò il culto a san Giuseppe?
Il culto a san Giuseppe, tradizionalmente legato all’invocazione di una “buona morte”, attraversa una profonda trasformazione in relazione ai processi che portano alla fine del potere temporale della Chiesa. Gioca in questo mutamento un aspetto che oggi può far sorridere, ma che era profondamente radicato nella mentalità religiosa dell’epoca. L’incentivazione al culto dell’Immacolata concezione non aveva prodotto l’atteso risultato di bloccare l’avanzamento della modernità politica, anzi la contrapposizione alla Chiesa si era dilatata al punto di arrivare a mettere in pericolo la sopravvivenza stessa dello Stato pontificio. Questa situazione non dipendeva forse dal fatto che non era sufficiente l’incremento di devozione che pure la proclamazione del nuovo dogma mariano aveva determinato tra i fedeli? Occorreva dunque un’ulteriore intensificazione del culto per mettere in moto l’intercessione delle figure celesti affinché la Provvidenza divina decretasse un rovesciamento del corso di una storia che minacciava la stessa indipendenza del papa.

Tra queste figure, una appariva particolarmente idonea allo scopo. All’inizio della storia cristiana san Giuseppe aveva protetto con la fuga in Egitto la sacra famiglia dalla mortale minaccia di un potere politico che voleva annientarla. Ma la sacra famiglia non rappresentava la chiesa nascente? Dunque si poteva far ricorso al patrocinio di san Giuseppe per proteggere la Chiesa contemporanea dall’aggressione portata dall’avanzare di una rivoluzione liberale che si spingeva fino al sacrilegio di togliere al papa il suo stesso Stato. In effetti, poco dopo la breccia di Porta Pia che pone fine al potere temporale, Pio IX decreta che a san Giuseppe sia riconosciuto il titolo di patrono della Chiesa universale. Le preghiere a lui indirizzate dai fedeli sono orientate a invocare la sua protezione dallo sviluppo di processi politici che mettono in questione la “libertà” del papa. Il termine viene riproposto secondo l’accezione ad esso data dal papato medievale: significa in realtà il potere della Chiesa di imporre le norme della vita collettiva.

La costatazione che la perdita del potere temporale consente al papa il mantenimento di una piena autonomia di governo della Chiesa, indirizza Roma negli anni successivi ad attribuire nuovi significati alla pietà verso san Giuseppe: da patrono della Chiesa universale diventa patrono della famiglia cristiana, minacciata dalla laicizzazione del matrimonio e poi patrono degli operai la cui fede è messa a dura prova dalla propaganda socialista.

Cosa rappresentò per la società dell’epoca la pratica dell’intronizzazione del Sacro Cuore nelle famiglie?
Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento l’autorità ecclesiastica avverte che le profonde trasformazioni innescate dalla seconda rivoluzione industriale insidiano le strutture basilari di quella società cristiana che per secoli aveva costituito il contesto in cui la Chiesa svolgeva la sua missione. Tra queste strutture figura anche la famiglia: l’introduzione del divorzio nella legislazione di paesi tradizionalmente cattolici – la discussione della questione al parlamento italiano suona come un campanello d’allarme – viene giudicata un attentato alla visione cristiana dell’istituto familiare. Si ritiene dunque di dover mobilitare i fedeli contro queste tendenze anche attraverso i canali della pietà popolare. Una pratica pia che, sull’onda del successo della devozione al Sacro Cuore, viene promossa a questo scopo dalla Compagnia di Gesù è la consacrazione della famiglia al cuore di Gesù. L’atto comporta infatti l’impegno a osservare scrupolosamente la morale familiare cattolica.

Un religioso latino-americano della Congregazione dei Sacri Cuori di Gesù e Maria, Mateo Crawley-Boevey, pensa che la pratica possa diventare ancora più intensamente introiettata dai fedeli se alla semplice consacrazione si sostituisce un rito più articolato e formale: l’intronizzazione di una immagine del Cuore di Gesù da compiersi solennemente nelle case cristiane. Il pubblico e collettivo riconoscimento della sovranità di Cristo da parte di tutti i membri di una famiglia si dovrebbe tradurre in un più vincolante impegno a seguire le prescrizioni ecclesiastiche. La nuova devozione, subito riconosciuta da papa Pio X, ha un successo strepitoso, tanto da diventare oggetto di un contezioso tra la Compagnia di Gesù e la Congregazione dei Sacri cuori per la sua gestione.

Ma il tema della regalità di Cristo è da alcuni decenni legato ad una teologia politica di segno ierocratico: con il sintagma “il regno sociale di Cristo” si indica infatti il progetto di una restaurazione cristiana della società contemporanea che risponde alla secolarizzazione, affidandone la direzione all’autorità ecclesiastica. In tal modo la pratica della intronizzazione del Sacro Cuore nelle famiglie diventa il canale devozionale attraverso il quale l’impegno dei credenti a seguire le regole dell’etica cattolica in ambito familiare si trasforma in un impegno a lottare per la trasformazione dell’ordinamento pubblico di un paese in un regime di cristianità. La cerimonia passa così dalle famiglie ai municipi e poi agli Stati, come avviene con particolare solennità in Spagna nel 1919.

Quali vicende segnarono il processo di nazionalizzazione di san Francesco?
La devozione a san Francesco è tra le più popolari e diffuse. Durante il Risorgimento italiano la corrente neo-guelfa ritiene di poter propagare un patriottismo a base cattolica anche facendo riferimento al santo di Assisi. Nasce così una definizione del Poverello destinata ad una straordinaria fortuna: “il più santo degli italiani, il più italiano dei santi”. Nonostante che alcuni storici mettano in guardia da frettolose sovrapposizioni tra l’Italia dell’età medievale in cui visse Francesco e l’unitario Stato italiano nato alla metà dell’Ottocento, la frase diventa la via per una disinvolta attribuzione all’Assisiate di quegli specifici caratteri nazionali che definiscono gli abitanti della penisola politicamente unita.

Del “topos” si appropria in particolare Gabriele D’Annunzio, che fa di Francesco un interprete privilegiato di quella secolare religione della nazione da lui elaborata allo scopo di incitare gli italiani alla mobilitazione bellica nella prima Guerra mondiale. Si assiste allora ad un primo esito paradossale dell’italianizzazione di Francesco: il santo che oggi riteniamo, non a torto, come uno dei più fedeli propagatori del messaggio evangelico di pace e fratellanza tra tutti gli uomini diventa nell’immaginario collettivo come un “santo guerriero”, il cui spirito di carità viene interpretato come una totale dedizione, fino al sacrificio della vita, per ottenere il trionfo militare della patria.

La rielaborazione del sintagma compiuta dal Vate colpisce Mussolini che vi vede un’opportunità per avvicinare fascismo e mondo cattolico. In occasione del settimo centenario della morte di Francesco, da celebrarsi il 4 ottobre 1926, il Duce, dopo aver proclamato quella data festa nazionale, lancia un messaggio agli italiani all’estero in cui lo dipinge come il migliore rappresentate di un carattere tipico della stirpe: la disponibilità ad ogni sacrificio per lanciare la patria a quelle conquiste oltremare che ad essa spettano per la sua superiore civiltà. Mussolini anticipa così quella lettura in chiave nazional-bellicista e nazional-imperialista della definizione di Francesco come “il più santo degli italiani, il più italiano dei santi” che si afferma negli anni Trenta. Troverà il suo apogeo all’inizio della seconda guerra mondiale.

Il tentativo della Santa sede di bloccare la diffusione di questa rappresentazione in nome di un altro tratto presentato come tipico dell’Assisiate – l’obbedienza all’autorità ecclesiastica – si rivela fragilissimo. Consapevole dei successi del coevo nazionalismo, il papato accetta infatti una interpretazione del santo in chiave nazional-cattolica, senza rendersi conto che in tal modo apre le porte – come avviene in effetti in larghi strati della Chiesa italiana dopo che nel 1939 Francesco è stato proclamato patrono d’Italia – ad uno scivolamento della sua immagine a emblema della pagana religione della patria.

Quale significato politico ha assunto la devozione al Cuore immacolato di Maria?
Si tratta di una devozione che esprime una particolare declinazione della pietà mariana: collega infatti la speciale bontà della Vergine – di cui il cuore è simbolo per eccellenza – con il singolare privilegio che la contraddistingue da ogni creatura, cioè il concepimento senza peccato originale. Manifesta dunque una pressante richiesta alla Madonna perché interceda a favore degli uomini in circostanze di drammatica gravità. Pur avendo una precedente origine, questa forma di culto è strettamente legata alla mariofania che annunciano nell’ottobre 1917 tre pastorelli analfabeti di Fatima. Il significato iniziale della pratica pia che i veggenti dichiarano raccomandata dalla Madonna riguarda una tragedia in corso. La preghiera al Cuore Immacolato di Maria è infatti la via per ottenere dal cielo la cessazione della Grande Guerra.

Ma l’apparizione avviene in un contesto storico segnato dalle politiche duramente anti-clericali del governo repubblicano di Lisbona. Ben presto la mariofania assume un significato politico: viene interpretata come un intervento sovrannaturale a sostegno della lotta che i cattolici stanno conducendo contro le gravissime misure vessatorie dell’autorità civile. Nel momento in cui l’avvento al potere di Salazar rovescia le precedenti politiche anti-clericali in un fiancheggiamento alla Chiesa, l’apparizione viene così immediatamente presentata come una legittimazione della felice dittatura nazional-cattolica. Il culto al Cuore Immacolato di Maria, che della mariofania è l’espressione devozionale, acquista una nuova coloritura politica.

Viene ulteriormente specificata alla metà degli anni Trenta, quando si comincia a temere l’importazione in Portogallo dalla vicina Spagna della violenta scristianizzazione messa in atto dal movimento comunista. Attraverso un continuo lavoro di risignificazione delle apparizioni, cui partecipa attivamente l’unica pastorella sopravvissuta, diventata l’acculturata suor Lucia, la pratica pia diventa allora la forma di preghiera – che la stessa Madonna ha richiesto e di cui l’instaurazione del governo nazional-cattolico di Salazar ha dimostrato la concreta efficacia – per invocare la sconfitta del terribile male del comunismo. Ben presto si arriva a proclamare che un’adeguata pratica della devozione avrebbe evitato il male della seconda guerra mondiale. Con una lettura forzata dei contemporanei eventi storici se ne attribuisce infatti la responsabilità alla Russia sovietica, desiderosa di estendere a tutto il mondo il suo ateismo di Stato.

Pio XII, pur senza mettere in questione la dimensione anticomunista della pratica pia, non mancherà durante la guerra di allargarne il significato politico, aggiungendo ad essa anche una connotazione antinazista. Ma l’esito del conflitto e l’ossessione del pericolo sovietico nell’età della Guerra fredda inducono papa Pacelli nel luglio 1952 a sancire solennemente con la consacrazione della Russia al Cuore immacolato di Maria quel valore politico di questa forma di pietà, che, nonostante la pubblicazione di tutti i “segreti di Fatima”, appare ancora sedimentato nell’immaginario cattolico. Non a caso gli odierni populisti cercano di metterlo a frutto.

Daniele Menozzi è professore emerito alla Scuola Normale Superiore di Pisa, membro del Consiglio scientifico dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana e socio corrispondente dell’Accademia dei Lincei. Fa parte della direzione della “Rivista di storia del cristianesimo” e di “Modernism”.

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