“Il potere al plurale. Un profilo di storia del pensiero politico medievale” di Roberto Lambertini e Mario Conetti

Il potere al plurale. Un profilo di storia del pensiero politico medievale, Roberto Lambertini, Mario ConettiIl potere al plurale. Un profilo di storia del pensiero politico medievale
di Roberto Lambertini e Mario Conetti
Editoriale Jouvence

La riflessione giuridica sull’impero nel primo Trecento

«Il civilista Cino da Pistoia (di formazione bolognese, insegnò diritto civile lì e in altre sedi, attivo nella pratica del diritto e della politica, poeta e grande amico di Dante, morto nel 1336) afferma chiaramente la derivazione diretta dell’impero da Dio senza alcuna mediazione, in particolare da parte del papa. Il rapporto tra le due autorità supreme e universali, impero e papato, viene spiegata da Cino facendo ricorso all’immagine dei due astri che illuminano il mondo, il sole e la luna: entrambi creati da Dio, entrambi brillano di luce propria perché traggono la luminosità direttamente dal creatore, quando splende l’uno l’altro è spento e viceversa. La metafora riprende modificandola e pertanto in toni polemici l’analoga immagine adoperata allo stesso scopo circa un secolo prima da papa Innocenzo III. I due poteri supremi e universali sono sullo stesso piano perché derivano direttamente da Dio; vi è una distinzione netta tra i rispettivi ambiti di azione; il potere spirituale ha una maggiore dignità ma a questa non corrisponde alcun primato. Dal punto di vista del potere temporale tutti i popoli e tutti i centri di potere sono sottoposti all’imperatore, così come sono sottoposti al papa dal punto di vista spirituale. L’impero è soggetto solo a Dio da cui riceve il potere e non riconosce un superiore in terra. Questa distinzione nettissima, che non ammette interferenze o sovrapposizioni, tra l’altro serve a negare che quando il trono imperiale è vacante possa subentrare il potere papale, come invece aveva affermato papa Clemente V con la decretale Romani principes subito dopo la morte di Arrigo VII.

Queste teorie informano anche un testo che interviene direttamente nell’attualità politica. Nella lettera enciclica per comunicare la sua avvenuta incoronazione, Arrigo VII afferma che Dio ha voluto che tutti gli esseri umani fossero sottoposti a un unico potere sovrano proprio come nell’insieme della creazione esiste l’unico potere della divinità che l’ha creata. L’imperatore va considerato vicario di Cristo quanto il papa, poiché il potere imperiale su questa terra corrisponde al potere di Dio su tutto l’universo creato. L’impero esercita una “potestas directiva” universale quale unico potere monarchico cui tutti gli altri devono sottostare.

In nome della collaborazione tra papato e impero, il notissimo Bartolo da Sassoferrato (†1357), ammette che in caso di sede imperiale vacante possa subentrare il papato nell’esercizio dei poteri di governo universale; ma si tratta appunto di un caso estremo, perché in condizioni normali i due poteri universali sono assolutamente distinti e non devono interferire nelle rispettive sfere di attività. Bartolo ribadisce che la monarchia universale imperiale corrisponde al volere divino, come si è manifestato nella nascita di Cristo. Il racconto del Vangelo di Luca certifica la bontà del potere imperiale universale che si inscrive nel disegno provvidenziale di salvezza per l’umanità intera ricondotta a unità dall’impero universale, preparando in questo modo il mondo a ricevere il Dio incarnato e la sua missione altrettanto universale di salvezza.

Cino da Pistoia imposta il tema dei poteri assoluti dell’imperatore coordinando Ulpiano e la costituzione Digna vox. Nel quadro di un potere sovrano assoluto che non conosce limiti, rispettando il diritto vigente l’imperatore esalta la maestà della legge ossia della sua stessa potestà normativa; non osservandolo, la relativizza. Solo le ragioni fondate sull’esigenza di tutelare il bene comune possono legittimare il mancato rispetto delle leggi; perché la finalità volta a conseguire l’interesse pubblico a sua volta legittima lo stesso ordine giuridico che rende valido il potere sovrano. Bartolo invece definisce il sottoporsi alle leggi vigenti prima di tutto come “aequum”. L’equità è una sorta di principio giuridico che rende giusta la legge, entro questi principi generali va ricompreso anche il rispetto del diritto vigente da parte di chi esercita la potestà normativa. La dimensione equitativa è presente anche in Alberico da Rosciate (giurista bergamasco legato ai Visconti, † 1360) dove giustifica il discostarsi dell’azione normativa dalla norma imperiale vigente, appunto per perseguire un risultato di maggiore equità. Alberico sottolinea in questo modo, con una intensità che gli è peculiare, come la volontà del principe possa avere di per sé, senza bisogno di forme o qualificazioni particolari, forza di legge. Purché sia volta a realizzare, nel concreto di determinati rapporti sociali, i principi di equità e giustizia.»

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