
E, mentre ero impegnata con la selezione dei pezzi da esporre e la costruzione delle sale, mi sono resa conto che nella mostra potevo raccontare solo una parte del complesso mondo che emerge alla lettura dei carmi del poeta di Sulmona: solo quella parte cioè che poteva trovare riscontro nel repertorio figurativo antico e moderno. Ma l’uomo Ovidio, quell’uomo che nella giovinezza gioiosamente parla d’amore e riesce a entrare nelle pieghe più riposte dell’animo femminile, nella maturità si cimenta con la grande epica e la poesia civile, nella vecchiaia percorre i disperati sentieri della nostalgia della patria, sarebbe rimasto in ombra, perché gli aspetti più intimi della sua personalità non avrebbero potuto essere illustrati con opere d’arte figurativa.
Ho quindi deciso di mettermi a scrivere un libro per raccontare, nel modo il più semplice e accattivante possibile, un personaggio che merita tutta la nostra attenzione per la sua grandezza ed anche per le sue debolezze e contraddizioni, cercando di raggiungere una platea più ampia di quella fatta di specialisti della disciplina, colleghi, studenti a cui mi sono rivolta nei lunghi anni della mia carriere accademica.
Questa dunque la premessa; ma veniamo ora a tratteggiare le motivazione della fortuna di Ovidio e della sua opera dal Medioevo ad oggi: la parola di Ovidio è giunta a noi grazie ai pazienti amanuensi che nel chiuso dei loro cenobi hanno copiato anche i suoi versi più audaci (la mente corre ai segreti di quel monastero benedettino descritto con insuperabile forza evocativa dal grande Umberto Eco ne Il nome della rosa), illustrandoli con fantasiose immagini che hanno poi fornito ispirazione a tutti i grandi del Rinascimento. A partire dal XIV-XV secolo non c’era personaggio di spicco che non desiderasse possedere opere ispirate alla classicità, rivisitata attraverso lo specchio del mito: cicli di affreschi, sculture, arazzi, da esporre nelle sale da ricevimento, o deliziosi piccoli quadri per i boudoir o le camere da letto.
Ma l’influenza di Ovidio non si è fermata alla grande stagione della riscoperta dell’antico e del suo uso in chiave di auto rappresentazione sociale e culturale; le sue storie hanno continuato infatti a fornire ispirazione per secoli ad artisti di ogni genere, pittori, scultori, incisori, romanzieri e poeti, che spesso hanno messo in scena episodi e personaggi che in antico non avevano avuto fortuna iconografica. Ne sono esempi straordinari Filemone e Bauci, la coppia di dolcissimi coniugi che chiedono e ottengono di cessare la loro vita umana nello stesso momento, Deucalione e Pirra, a cui si deve il ripopolamento del mondo dopo il diluvio, e l’ovidianissimo Pigmalione, che si innamora della sua creazione, una scultura in avorio che egli vezzeggia come una vera fanciulla e che vera fanciulla diviene, per grazia di Venere.
Senza Ovidio non avremmo il Narciso “caravaggesco” che eternamente si specchia nella fonte; senza Ovidio non avremmo l’amore infelice di Giulietta e Romeo, né la diafana Dafne del Bernini che tende al cielo le mani già coperte di foglie o i dolcissimi Adone e Venere del Canova…
È Ovidio che ha dato forma definitiva a quella tradizione mitica che era il frutto di secoli di elaborazione, da Omero ai tragici greci, ai poeti ellenistici, ai letterati romani: e la mitologia che oggi conosciamo è a noi giunta tramite i suoi versi.
Ovidio è ancora fra noi anche nel linguaggio di ogni giorno: certe formule proverbiali attinenti al mondo dell’amore o della vita quotidiana sono suoi: non posso vivere né con te né senza di te, è un verso di Ovidio… ti odierò se potrò, altrimenti, pur controvoglia, ti amerò (odero, si potero, si non, invitus, amabo) oppure in amor vince chi fugge… La donna è un male così dolce…ma anche vedo il meglio e l’approvo ma seguo il peggio, sono tutte parole del poeta di Sulmona…. Anche il lessico gli è debitore: il narcisismo, male dell’anima che impedisce a chi ne è affetto di amare altri che se stesso, deriva dal suo Narciso; il termine ermafroditismo è coniato sulla storia di Ermafrodito e Salmacide, i cui corpi si sono fusi per sempre in uno; e G.B. Shaw avrebbe dovuto cercare un titolo diverso per la sua commedia, in cui racconta come l’austero professor Higgins trasformò la povera fioraia in una lady, se il Sulmonese non avesse narrato di come la raffinata statua d’avorio creata da Pigmalione, diventò poi una vera dolcissima fanciulla…
E la forza della sua parola è tale che continua a influenzare non solo artisti di avanguardia, come quel Joseph Kosuth la cui originalissima installazione è protagonista della prima sala della mostra, ma anche letterati contemporanei, com Vintila Horia, David Malouf, Christian Ransmayr, Antonio Tabucchi che in vario modo hanno reinterpretato il suo dolore dell’esilio.
Quali vicende hanno segnato la vita e l’opera di Ovidio?
Le vicende che hanno segnato la vita di Ovidio ci sono narrate da lui stesso, perché il poeta è, in un certo senso, l’iniziatore di quel genere autobiografico che di tanta fortuna continua a godere nella letteratura moderna. Ovidio si racconta come mai nessuno prima di lui e attraverso questi racconti fornisce preziose informazioni non solo su se stesso ma anche sulla società e cultura coeve.
Nato a Sulmona da una famiglia equestre di non recente creazione, come egli stesso ripete nei suoi carmi con una punta di orgoglio, passò la sua prima infanzia nel piccolo municipio ai piedi della Maiella, ricco d’acque e verde di tenera erba, dove amava ritornare per ritrovare i profumi e i colori della giovinezza. Ma presto abbandonò la terra natia per trasferirsi a Roma con il fratello a studiare retorica e diritto presso i più illustri maestri del tempo. Tale scelta indica chiaramente come il padre intendesse indirizzare i due figli verso l’avvocatura, primo passo di quella carriera politica a cui potevano aspirare i rampolli di una benestante famiglia equestre. Ma mentre il fratello maggiore fu incline all’eloquenza fin dalla giovane età (Tristia IV, 10, 17), il nostro poeta era affascinato dai misteri celesti, cioè da quella scienza delle stelle, che si era affermata a Roma grazie anche al diffondersi della filosofia stoica, e dalle Muse, che furtivamente lo attiravano, distraendolo da più gravosi impegni (Tristia IV, 10, 20); ed è a quelle Muse, che illuminarono tutta la sua vita e la sua carriera, che dall’esilio il poeta imputa la sua perdizione (Tristia III, 7, 27: i miei versi mi hanno fatto del male; Tristia V, 7, 31-36: …i miei versi sono stati la mia rovina…).
A Roma frequentò i più illustri ingegni del tempo ed ebbe accesso ai “salotti” più esclusivi; si legò di amicizia con la figlia dell’imperatore, Giulia Maggiore e, dopo che questa fu allontanata da Roma con l’infamante accusa di adulterio, frequentò assiduamente la figlia di lei, Giulia Minore, che, seguendo le orme della madre, era divenuta animatrice della vita gaudente della capitale e sostenitrice di un modello di società ben diverso da quella propugnato dall’imperatore. Quando anche Giulia Minore incorse negli strali del nonno per colpe contro la morale (almeno questa è la versione che gli storici ci hanno tramandato), anche per Ovidio giunse la fine sotto forma di una durissima condanna che cambiò la sua vita per sempre.
Accanto a informazioni sulla sua vita pubblica e sulle sue frequentazioni, nei carmi del poeta troviamo spunti per ricostruire anche la sua vita privata: il suo nucleo familiare era composto da due genitori molto amati (sappiamo che pianse con profondo dolore la morte dell’amato padre –io lo piansi non diversamente da come egli avrebbe pianto la mia morte: Tristia IV, 10- e quella della madre, avvenuta poco dopo) e da un fratello, più anziano di lui di un anno esatto (Tristia IV, 10, 11), che ebbe in sorte una morte precoce e lasciò nel cuore del poeta una disperata desolazione.
Ebbe ben tre mogli, la cosa non desta meraviglia, se si tiene conto che tre mogli ebbero anche Antonio (l’indomabile Fulvia, la fedele Ottavia, l’ammaliatrice Cleopatra), Augusto (la nobile Clodia Pulcra, la discussa Scribonia, l’austera Livia), perfino Cicerone, l’ultima delle quali appena diciassettenne. Della sua prima consorte, sposata in giovane età con un matrimonio combinato (ero ancora quasi un fanciullo quando mi fu data in moglie… Tristia IV, 10, 69), il poeta ci fornisce un fulminante e non lusinghiero ritratto: né degna, né utile (nec digna nec utilis uxor); il disprezzo con cui la ricorda deriva forse dal fatto che la fanciulla, di origine falisca, come suggerisce in Amores III, 14, 1-2, doveva essere di famiglia modesta, non degna quindi di andare sposa all’ambizioso giovane poeta, a cui non diede nemmeno la consolazione di un figlio (nec utilis). L’immagine della seconda resta cristallizzata in un opaco cameo (71: sebbene senza colpa non rimase a lungo nel mio letto); ma è a lei che Ovidio deve l’unica sua discendente, quell’Ovidia, che egli ricorda anche nei Fasti (VI, 219), e che rimpiange di non aver potuto abbracciare al momento della partenza, perché lontana, sulle coste libiche, al seguito del marito, che ricopriva quell’anno la carica di proconsole. Per l’ultima compagna, appartenente all’illustre famiglia dei Fabii, il poeta ha parole di affetto e di gratitudine, per non averlo abbandonato nei momenti bui dell’esilio (Tristia IV, 10, 74); e l’amore che nutriva per lei, lo riverberò anche sulla figlia che ella aveva avuto da un precedente matrimonio, la giovane Perilla, a cui il poeta invia dall’esilio una lunga lettera piena di tenerezza, in cui la invita a non abbandonare gli studi e quella poesia, che pure a lui aveva recato tanto danno (Tristia III, 7).
Ma le informazioni più dettagliate che Ovidio consegna ai suoi lettori si riferiscono ai drammatici eventi che seguirono alla consegna dell’editto che gli ingiungeva di partire immediatamente per la lontana Tomi: era una luminosa notte d’ottobre e la Luna, alta nel cielo, guidava i cavalli della notte (Tristia I, 3), quando il poeta abbracciò per l’ultima volta la moglie in lacrime e i pochi amici rimatigli e abbandonò l’amata capitale per lidi ignoti, il cui solo pensiero incuteva terrore. Lungo e periglioso fu il viaggio, funestato da terribili tempeste, e solo dopo mesi di travaglio l’esule giunse ad una terra desolata dove i locali non parlavano né greco né latino: “qui il barbaro sono io”, dichiara dolorosamente. Per dieci interminabili anni Ovidio visse ai confini del mondo e di quegli anni bui ci restano un centinaio di lettere scritte ad amici e parenti perché intercedessero presso l’imperatore per una diminuzione della pena. Lettere disperate, talvolta ripetitive, dove la rigogliosa vena poetica che aveva sorretto la sua produzione della giovinezza e della maturità appare meno vivace ma è ancora capace di regalare ai suoi lettori immagini indelebili quale quella dell’Aquilone infuriato, che abbatte al suolo le alte torri e porta via i tetti schiantati, o dell’unghia del cavallo che calpesta le onde consolidate dal freddo (Tristia III, 10), oppure del tempo che inesorabile passa, sintetizzato dalla icastica immagine della dannosa vecchiaia che sopraggiunge senza fare rumore (Tristia III, 7, 35).
Nelle lettere dall’esilio l’animo prostrato del poeta trova anche umilianti parole di cortigianeria, riscattate da lampi di un orgoglio smisurato, che gli fa trovare parole sempre nuove per affermare, con incrollabile certezza, che la sua Musa l’avrebbe reso immortale.
Quella di Ovidio è stata una Musa prolifica e versatile: come si è espresso nelle diverse fasi della sua vita?
Ovidio fu uno dei più prolifici poeti latini: padrone del lessico e della musicalità del verso, ebbe una naturale predisposizione per la poesia, tanto che, come egli stesso ricorda, qualsiasi cosa tentasse di dire assumeva ritmi precisi (Tristia IV, 10 sponte sua carmen numeros veniebat ad aptos).
Era ancora giovanissimo quando iniziò a declamare in pubblico versi d’amore e l’immediato successo che ottenne lo convinse ad abbandonare la strada che il padre aveva tracciato per lui, rinunciando a imparare a memoria le prolisse leggi e a fare mercato dell’eloquenza nel foro irriconoscente (Amores I, 15, 5-6). Da allora la poesia divenne non solo la sua ragione di vita, ma anche la chiave che gli aprì gli esclusivi salotti della capitale, dove ebbe modo di incontrare i più illustri ingegni del tempo e gli aristocratici più prestigiosi.
La sua versatile Musa lo portò a cimentarsi con i generi più svariati, che egli seppe dominare, innovandoli nei contenuti e nella forma e mostrando di sapere usare da maestro sia il distico elegiaco, l’agile verso prediletto dai poeti ellenistici, sia il più grave esametro, tipico della grande tradizione epica, con cui compose il lungo poema delle Metamorfosi.
La giovinezza e la prima maturità furono per lui il tempo dei carmi erotici, elegiaci, epistolari, didascalici; negli Amores egli si cimentò con le emozioni che agitano il cuore degli innamorati, dal desiderio alla gelosia, dalla conquista al tradimento fino agli infuocati amplessi che descrive con compiacenza unita ad una meditata eleganza. Ma negli Amores sono già presenti in nuce anche gli altri temi che il poeta avrebbe poi sviluppato nella produzione successiva, dal mito, di cui, come d’altronde i suoi contemporanei, era profondamente compenetrato, alla vivida narrazione della realtà che lo circondava. Le fulminee citazioni di eroi ed eroine della grande tradizione epico tragica ben testimoniano della sua padronanza della materia: nelle sue elegie troviamo citate tutte le più importanti protagoniste di amori divini (Io, Danae, Leda, Europa, Semele, Callisto, Amimone: Amores I, 10), spesso vittime della prevaricazione degli dèi arroganti. Ma nei suoi carmi troviamo anche citazioni delle autrici di efferati delitti, come Medea o Procne, che vengono ricordate ora come esempio ora come monito; analoga funzione hanno i grandi eroi dell’epica, come Achille, Ulisse, Aiace, modelli di virtù o di vizi, di coraggio o ingenuità. Né il poeta trascura le eroine delle leggende delle origini di Roma: da Tarpea alle donne Sabine, dalla infelix Dido, autrice anche di una delle epistole amorose che costituiranno la sua seconda fatica, alla Vestale Rea Silvia, quasi impazzita dopo la violenza subita, a cui il poeta restituisce dignità e immortalità, rendendola sposa del dio Aniene.
La grande tradizione epica e mitica, che aveva fatto una cauta comparsa negli Amores, è pienamente protagonista nelle Heroides, una raccolta di fittizie epistole d’amore, scritte, come quasi tutte le opere del poeta, nel verso dell’elegia, così adatto ai moti del cuore (v. anche Remedia 379: la dolce elegia celebri gli Amori armati di faretra). Le prime 15 lettere, pubblicate fra il 19 e il 15 a.C., contengono accorate invocazioni di donne disperate, tradite e abbandonate da amanti bugiardi o semplicemente distratti, a cui si aggiungono i lamenti delle infelici vittime del rigore delle famiglie che impediscono il coronamento del loro sogno d’amore. Nelle ultime 6 invece, datate fra il 4 e l’8 d.C., il poeta, forse per rispondere ad uno scherzo o ad una provocazione dell’amico Sabino che aveva composto lettere di risposta alle missive di Penelope, Didone, Ipsipile, a firma di Ulisse, Enea, Giasone (Amores II, 18, 27-37), rinnova lo schema, proponendo uno scambio epistolare fra amanti, in cui la donna, pur amata dal suo uomo, è vittima del destino o della società; cambia dunque completamente il registro del lamento anche perché con astuto rovesciamento, il poeta fa precedere le lettere maschili a quelle femminili. Si tratta, all’evidenza, di una vera e propria anticipazione del moderno romanzo epistolare.
Con l’Ars amatoria Ovidio indossa nuovamente gli abiti del rinnovatore e affronta il tema d’amore, a lui così congeniale, da una inedita prospettiva: dopo aver cantato patimenti, emozioni, desideri ed amplessi dell’amore “mondano”, dopo aver “inventato” il nuovo genere del “romanzo epistolare”, il poeta nell’Ars amatoria diventa “maestro d’amore”, praeceptor amoris. I primi due libri, pubblicati probabilmente l’1 a.C., contenevano gli ammaestramenti per gli uomini, l’ultimo, che seguì a poca distanza di tempo, fu dedicato, per equità, alle donne (III, 1-2: Ho dato le armi ai Danai contro le Amazzoni, ma restano le armi da dare a te Pentesilea e alla tua schiera), fu probabilmente pubblicato un paio d’anni dopo. La novità dell’Ars è rivoluzionaria: nel poema la materia d’amore viene infatti trasformata da flebile carmen in oggetto di didattica. Ovidio, come un vero “scienziato”, dopo aver sperimentato da protagonista il certame amoroso, ne estrae regole e precetti da condividere con i suoi lettori/ discepoli. Il presupposto da cui il poeta muove è che l’amore non è un fatto naturale, ma è un prodotto della cultura e della società, paragonabile a una qualsiasi attività materiale, e come tale è soggetto a norme e procedure elaborate sulla base dell’esperienza. L’arte d’amare (ars traduce il greco techne) non è per il poeta diversa da qualsiasi altra disciplina e come qualsiasi altra disciplina può essere oggetto di insegnamento. Ed Ovidio, forte di una esperienza, maturata in anni di onorato servizio nelle pratiche d’amore, decide di mettere la sua “cultura” a disposizione dei suoi concittadini, perché ognuno di essi possa divenire un irresistibile seduttore.
Nella maturità provò generi più alti: la poesia civile dei Fasti e quella epica delle Metamorfosi; nell’ultima parte della sua vita, lontano da Roma e dal mondo che aveva amato, la sua Musa fu tutta dedicata al lamento dell’esule, consegnato alle epistole, alle innumerevoli disperate epistole che invocavano la mitigazione di una pena a cui egli non si rassegnò mai. E la forza della sua vena poetica era tale che seppe poetare anche nella lingua dei Geti (Ex Ponto IV, 13, 17-22), guadagnandosi onori di vario genere, fra cui l’esenzione delle tasse e una corona sacra (14, 53-56).
Con le Metamorfosi Ovidio ci ha tramandato il più grande compendio della mitologia classica dell’antichità: quali caratteristiche rendono unica l’opera?
Dopo aver percorso tutti i sentieri della poesia d’amore, Ovidio si confrontò con il genere epico, consacrato da Virgilio nella saga di Enea e delle origini di Roma. Ma con quel gusto per il rinnovamento dei generi che lo aveva portato dall’elegia alla didattica amorosa, che gli aveva suggerito di celebrare le festività dell’anno, illustrando l’eziologia delle cerimonie che affondavano le loro radici in un lontano passato, il poeta di Sulmona seppe rinnovare anche l’epica, creando un poema il cui protagonista non è un eroe, ma il mondo stesso visto dalla prospettiva del cambiamento. Ed è per questo che è difficile trovare per le Metamorfosi una definizione che renda ragione del suo caleidoscopico contenuto: per il poema sono state coniate innumerevoli formule che però non esauriscono la complessità dell’opera, da “storia universale guardata sotto specie metamorfica” a “poema delle meraviglie e del mutamento”, da “storia mitologica narrata dal punto di vista del cambiamento” a “catalogo di miti”; e in ognuna di queste definizioni c’è del vero, ma nessuna esaurisce il significato profondo e polivalente del poema, che Ovidio, con immagine presa a prestito da Orazio (Odi I, 7, 6) definisce carmen perpetuum (Met. I, 4). C’è del vero, ad esempio, nel considerarlo una “storia universale”, perché il poema inizia con la creazione del mondo e finisce con il tempo del poeta; c’è del vero anche nel considerarlo un “catalogo di miti” dal momento che nei quasi 12.000 versi che si dipanano senza indurre stanchezza nel lettore sono presenti, senza ordine apparente, la quasi totalità dei racconti che avevano per protagonisti dèi ed eroi, guerrieri e fanciulle, efebi e ninfe, e poi satiri, menadi, panischi, personificazioni di entità astratte e cielo, terra, fiumi, laghi, come sfondo di azioni e di eventi o come attori nel grande affresco che il poeta compone. E c’è del vero nel definirlo il poema delle meraviglie perché il lettore è trascinato dalla forza del verso in un mondo che cambia in continuazione, e che appare ora luminoso e scintillante, ora cupo e minaccioso, ora dolce ed accogliente, ora duro e terrificante… e comunque sempre fuori della norma. E’ grazie alla molteplicità delle chiavi di lettura che lo straordinario testo del poeta di Sulmona ha superato indenne la condanna augustea, l’ostracismo dei padri della Chiesa, il trascorrere del tempo e il mutare del gusto, giungendo vivo e vitale fino a noi, e divenendo modello di quel prodigioso fenomeno della metamorfosi del corpo in altro da sé, che affonda le sue radici nelle più profonde paure dell’uomo, e che ha trovato cantori fin dai primordi della letteratura greca. È nell’Odissea infatti che troviamo la prima trasformazione di esseri umani in animali (X, 237-240): quando la maga Circe tocca i compagni di Ulisse con la verga magica, il loro corpo improvvisamente si copre di setole, mentre le voce diventa un grugnito ed essi, umiliati e piangenti, vengono rinchiusi in un recinto e nutriti di ghiande, di leccio o di quercia, e di corniole. Da allora il tema della metamorfosi, della mutazione del proprio essere, del divenire altro da sé ha acceso la fantasia e la penna di poeti, letterati, romanzieri, divenendo in molti casi l’oggetto stesso della narrazione: da Nicandro di Colofone, a un non meglio conosciuto Boios, che fu di ispirazione ad Emilio Macro, poeta veronese amico di Ovidio, anche lui autore di un poema sugli uccelli; da Partenio di Nicea ad Apuleio di Madauro, che a Ovidio “rubò” perfino il titolo per il suo romanzo Metamorphoseon libri XI, meglio conosciuto con quella denominazione di Asino d’oro, che gli fu conferita da Sant’Agostino (De civitate Dei XVIII, 18, 1), fino ad arrivare al più noto racconto di trasformazione quel Die Verwandlung di Franz Kafka, che ha popolato incubi di generazioni con l’immagine di quell’enorme insetto, “dal ventre convesso, bruniccio, spartito da solchi arcuati”, in cui si trova imprigionato il giovane Gregor Samsa.
Ma la metamorfosi nel poema ovidiano non è che un astuto espediente per parlare d’altro: è infatti il mondo il vero protagonista, un mondo popolato di creature multiformi, un mondo in cui tutto muta ma nulla muore, un mondo che passa dal Caos (mole informe e confusa) all’ordine augusteo. E questo lungo percorso si articola attraverso narrazioni di miti che mettono in scena eroi ed eroine della grande tradizione classica che Ovidio, da quel raffinato uomo di cultura che era, ben conosceva e sapeva interpretare e tradurre con fantasia, garbo, e straordinaria capacità evocativa. Sono queste le qualità che hanno contribuito a fissare indelebilmente nella mente dei suoi lettori personaggi e racconti a cui egli conferisce una forma definitiva, la sua forma, che è anche la nostra forma.
E solo un grande come il nostro Sulmonese poteva riuscire a dare unità ad un materiale così vario e multiforme attraverso espedienti narrativi che ritroveremo in tante opere moderne: uno dei più consueti è quello della moltiplicazioni delle voci narranti: durante il banchetto che Acheloo offre a Teseo e compagni, ognuno dei commensali prende la parola per narrare episodi diversi a cui è il contesto a dare unità; come non ricordare le cento novelle del Boccaccio, narrate dai giovani fuggiti da Firenze per sottrarsi alla peste che imperversava? E’ sempre il contesto che lega i racconti di amori impossibili, contrastati, contro natura, narrati dalle figlie di Minia, che, sedute al telaio, ingannano il tempo parlando di storie lontane e aprendo scorci sulla vita quotidiana.
Le Metamorfosi hanno la forza di irretire il lettore, imprigionandolo in una ragnatela fatta di parole e immagini, che danno forma e sostanza ai suoi protagonisti, le cui avventure sono in taluni casi narrate nel dettaglio, in altri evocate con icastiche frasi. Passione, desiderio, amore, risentimento, vendetta ogni gamma di sentimenti è raccontata con uno stile elegante e immaginifico che ha dialogato con l’arte figurativa antica e moderna, essendone ora testimone (come quando descrive la Niobe che stringe a sé la figlia più piccola certamente ispirata ad un’opera di tarda arte classica, di cui ci è pervenuta la splendida statua ora agli Uffizi di Firenze), ora invece ispiratore (come nella grande stagione del Rinascimento italiano).
Ed è questa straordinaria forza della parola che ha salvato l’opera del poeta di Sulmona dal naufragio di tanta parte della letteratura antica, offrendola come fonte di ispirazione ad artisti, poeti, romanzieri e letterati di ogni tempo, al punto che non credo sia azzardato considerare il poeta di Sulmona una pietra miliare della cultura europea.
A questo straordinario personaggio ho voluto dedicare una mostra ed un libro, sperando di avvicinare visitatori e lettori al suo mondo fantastico.
Francesca Ghedini è professore emerito di Archeologia presso l’Università di Padova