
Ma con tutto ciò non si dice molto per una caratterizzazione “positiva” del pensiero debole. L’espressione funziona anzitutto “debolmente”, se così si può dire, come uno slogan polivalente e volutamente dai confini non segnati, ma che fornisce un’indicazione: la razionalità deve, al proprio interno, depotenziarsi, cedere terreno, non aver timore di indietreggiare verso la supposta zona d’ombra, non restare paralizzata dalla perdita del riferimento luminoso, unico e stabile, cartesiano.
“Pensiero debole” è allora certamente una metafora, e in certo modo un paradosso. Non potrà comunque diventare la sigla di qualche nuova filosofia. È un modo di dire provvisorio, forse anche contraddittorio. Ma segna un percorso, indica un senso di percorrenza: è una via che si biforca rispetto alla ragione-dominio comunque ritradotta e camuffata, dalla quale, tuttavia, sappiamo che un congedo definitivo è altrettanto impossibile. Una via che dovrà continuare a biforcarsi.
Si inizia, forse, con una perdita o, se si vuole dire così, con una rinuncia. Ma già fin dall’inizio si può scoprire che essa è anche l’allontanamento da un obbligo, la rimozione di un ostacolo. O meglio, è l’assunzione di un atteggiamento: il tentare di disporsi in un’etica della debolezza, non semplice, assai più costosa, meno rassicurante. Un equilibrio difficile tra la contemplazione inabissante del negativo e la cancellazione di ogni origine, la ritraduzione di tutto nelle pratiche, nei “giochi”, nelle tecniche localmente valide.
In secondo luogo, è uno sperimentare, un tentativo di tracciare analisi, di muoversi sul terreno.
Verso il passato: il “pensiero debole” può riavvicinarsi al passato attraverso quel filtro teorico che si può chiamare “pietas”. Una sterminata quantità di messaggi, che la tradizione invia a noi, può essere di nuovo ascoltata da un orecchio che si è reso disponibile.
Nel presente: basta osservare quante esclusioni di campi e di oggetti lo sguardo totalizzante può, anzi deve praticare. Il prezzo pagato dalla ragione potente è una impressionante limitazione degli oggetti che si possono vedere e di cui si può parlare.
Infine, anche in direzione del futuro, verso la quale il “pensiero debole” sembrerebbe impedito. Infatti, perché non ipotizzare che il contenimento del pensiero forte possa produrre un incontro su un territorio diverso da quello normativo e disciplinare, sul quale vengono stipulati normalmente tutti i nostri “accordi”?»
tratto da Il pensiero debole, a cura di Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti, pubblicato in Gianni Vattimo. Scritti filosofici e politici, edito da La nave di Teseo