“Il pellegrinaggio a Santiago di Compostela nel Medioevo” di Roberto Schiavolin

Prof. Roberto Schiavolin, Lei è autore del libro Il pellegrinaggio a Santiago di Compostela nel Medioevo edito da Paguro: quando nasce e come si sviluppa la tradizione del Camino?
Il pellegrinaggio a Santiago di Compostela nel Medioevo, Roberto SchiavolinLa tradizione della predicazione e della morte dell’apostolo Giacomo in Spagna, ancor prima della scoperta della sua tomba, si ritrova in alcuni documenti che circolarono ampiamente nell’Alto Medioevo. Il ritrovamento dei resti del santo nel territorio di Iria Flavia, sede episcopale posta nel nord-ovest della penisola iberica, non fece quindi che confermare e consolidare quanto già si sapeva e si trasmetteva da tempo sia in forma orale sia scritta. Grazie agli appoggi della corona asturiana, che subito si rese conto dei vantaggi per così dire ‘politici’ della scoperta, prese avvio un flusso di pellegrini diffuso dapprima a livello locale quindi, nel volgere di un paio di secoli, a tutto l’Occidente. La rivelazione del sepolcro jacopeo rinforzava infatti i presupposti ideologici di uno stato che si autoproclamava erede di quello visigoto, difensore della fede e della Chiesa nonché orgoglioso di aver recuperato una reliquia cristiana così antica e preziosa. Il piccolo ma tenace regno riuscì a impedire che i mori avessero il controllo assoluto della penisola iberica, costituendo un freno a qualsiasi loro tentativo di conquista: per questo motivo godette della simpatia di tutto il mondo cristiano. A ciò si aggiunse il cospicuo messaggio – al contempo spirituale, culturale e sociale – veicolato dal pellegrinaggio jacopeo, che contribuì a rafforzare la civiltà cristiana altomedievale con un forte segno d’identità e di speranza, dopo il fallimento dell’unità politica dovuto al crollo dell’impero carolingio.

Il flusso di persone dirette a Santiago cominciò a diventare rilevante nel X secolo, epoca in cui si notano i primi pellegrini stranieri. Dopo il duro attacco di Almanzor, avvenuto nel 997, il santuario venne restaurato e Compostela pian piano riprese vita, parallelamente alla rinascita del pellegrinaggio jacopeo tra Francia e Spagna. Il Camino raggiunse la sua epoca d’oro nei secoli centrali del Medioevo, grazie a una feconda interazione istituzionale di cui furono protagonisti i monaci benedettini di Cluny, l’autorità vescovile compostelana e i re ispano-cristiani, che furono decisi promotori della peregrinazione jacopea nei loro territori, soprattutto modo Sancho III il Maggiore re di Navarra, Alfonso VII re di Galizia, León e Castiglia, e Sancho Ramírez re dapprima di Aragona e quindi di Navarra. I tre monarchi ampliarono e ristrutturarono il tracciato esistente, costruirono ponti per preservare il corso dei fiumi, eressero chiese e cattedrali, concessero privilegi e donazioni ai monasteri lungo il percorso, potenziarono le infrastrutture di accoglienza e dispensarono dalle imposte i pellegrini che attraversavano i loro regni. Il patrocinio regio in materia edilizia diede origine alla cosiddetta “arte del cammino di Santiago”, un gruppo di edifici romanici che costituisce un notevole compendio di architettura, scultura, pittura e arte orafa: esempi eloquenti di tale corrente sono la cattedrale di Jaca, la chiesa di San Martin di Frómista, la basilica di San Isidoro di León e la cattedrale di Santiago de Compostela. Merita infine ricordare l’eccezionale figura di Diego Gelmírez, dapprima vescovo (1100) quindi arcivescovo (1120) di Santiago: fine stratega, egli fu un instancabile promotore del culto e del pellegrinaggio jacopeo, che volle rendere prossimo a quello romano per gloria, fama ed importanza, e seppe superare pressoché tutti gli ostacoli – sociali, politici ed economici – nei quali s’imbattè nel corso del suo lungo episcopato. Difese e tutelò le posizioni e i privilegi della chiesa locale contro gli interessi privati di parte delle gerarchie ecclesiastiche spagnole, dell’alta aristocrazia galiziana e dell’inquieta, e talvolta violenta, borghesia di Santiago. In modo paradigmatico egli incarnò in sé autorità spirituale e potere temporale, sapendo essere pastore prudente e al contempo governatore autorevole e sagace. La sua abilità politica e il suo intenso lavoro diplomatico procurarono al clero di Compostela eccellenti relazioni con le altre diocesi del regno, con i sovrani castigliano-leonesi e soprattutto con i principali centri di potere coevi: il papato e Cluny.

Quali sono le fonti principali del culto di San Giacomo in Galizia?
Ancor prima della redazione del Codex Calixtinus, che rappresenta il documento più celebre ed importante riguardante il culto di san Giacomo e il relativo pellegrinaggio, esistevano già alcuni testi di carattere agiografico che si rivelarono di fondamentale importanza per la diffusione della venerazione tributata al santo in epoca altomedievale. Sono racconti tesi perlopiù a far risaltare la presenza dell’elemento soprannaturale nel processo di ritrovamento del sepolcro e dell’identificazione con l’apostolo di chi in esso fu sotterrato. La diffusione di queste tradizioni gettò quindi le basi del culto jacopeo in Occidente molti anni prima della scoperta della vera e propria tomba, avvenuta nel terzo decennio del IX secolo presso Compostela. La devozione nei confronti dell’apostolo iniziò quindi a formarsi già nell’Hispania visigota e, dall’ultimo terzo dell’VIII secolo, dopo l’invasione musulmana, nel regno delle Asturie, con riverberi estesi fino alla Francia e all’Inghilterra; germogliò nella penisola iberica attraverso la trasmissione orale, per poi diffondersi tramite testi scritti e infine esplodere grazie alla stupefacente scoperta del sepolcro.

Entrando più nello specifico, tra il VI e l’VIII secolo si diffusero nell’Occidente cristiano diverse notizie in riferimento all’opera evangelizzatrice dell’apostolo Giacomo Maggiore, al suo martirio e al trasferimento dei suoi resti da Gerusalemme in Galizia. V’è da citare innanzitutto la Passio sancii Iacobi, opera che cominciò a circolare a partire dall’inizio del VI secolo, e che fu conosciuta nella penisola iberica qualche decennio più tardi. In essa si fa riferimento a testi più antichi, i quali narravano gli ultimi momenti della vita del santo, senza tuttavia apportare grandi novità rispetto alla breve relazione presente negli Atti degli Apostoli (cf. At 12,2), ma piuttosto raccontando le vicende entro una cornice ricca di dettagli fantasiosi, conformi al gusto della coeva sensibilità popolare. Nella prima metà del VII secolo comparvero varie versioni del cosiddetto Breviarium apostolorum, un documento composto in Gallia attorno al 600, sulla base di un originale greco redatto a Bisanzio circa un secolo prima. Qui, diversamente da tutte le fonti greche conosciute, si parla per la prima volta di una missione evangelizzatrice compiuta da san Giacomo in Hispania, precisamente nelle regioni occidentali di questo paese. La rapida e notevole diffusione di quest’opera radicò nell’immaginario del mondo cristiano un legame molto stretto tra san Giacomo e i territori galiziani, ben prima della scoperta della sua tomba a Compostela. Vi fu poi il Venerabile Beda, che notò nelle varie copie circolanti del Breviarium la presenza di numerose incongruenze. Collazionando tutte queste versioni egli pertanto procedette ad una comparazione delle fonti greche e latine ivi citate, operando quindi una revisione critica dell’intero corpus. In ultima analisi tuttavia egli non fece altro che confermare le notizie già risapute, riguardanti l’evangelizzazione della Spagna ad opera di san Giacomo e la sua sepoltura agli estremi confini della Spagna, in un luogo prossimo al ‘mar Britannico’, il nome con cui al tempo si definiva l’Oceano Atlantico. Dopo il rinvenimento della tomba del santo si diffusero alcuni documenti composti perlopiù in Gallia i quali, attingendo da Beda, riprendevano e confermavano le notizie ormai ampiamente risapute sull’apostolo: dapprima il Martirologio di Floro di Lione (metà IX secolo), ripreso a sua volta dal Libello sulle festività dei santi Apostoli di Adone di Vienne (ca. 860), infine il Martirologio di Usuardo (II metà del IX secolo), molto diffuso in tutto il Medioevo.

Quale importanza riveste il Codex Calixtinus?
La compilazione di questo celebre codice fu assai rilevante per la promozione del pellegrinaggio jacopeo. L’esemplare conservato nell’archivio della cattedrale galiziana è il più completo e antico del Liber Sancti Iacobi, e fu chiamato Codex Calixtinus poiché i veri autori finsero che fosse stato composto da papa Callisto II (1119-1124), un pontefice molto legato a Santiago e largo di privilegi verso la Chiesa locale, tant’è che nel 1120 egli fece trasferire il seggio arcivescovile da Merida a Compostela. Il Codex Calixtinus costituisce quindi uno strumento al contempo culturale, liturgico e agiografico, volto a celebrare e consacrare la nuova sede apostolica, com’era nelle intenzioni dei suoi autori. Nei suoi cinque libri sono raccolti tutti i dati sul culto di san Giacomo, sulla sua storia e i suoi miracoli, nonché sulle vicende che portarono alla creazione del Camino. Dulcis in fundo nell’ultimo libro, il quinto, è presente una guida turistica ante litteram, con numerose e talora stravaganti informazioni, corredate tuttavia da utili e frequenti consigli di viaggio.

Il Codex Calixtinus si struttura quindi in cinque libri, ciascuno diverso dall’altro per ampiezza e contenuto. Il primo libro è di carattere liturgico, e raccoglie i testi di tutta la vasta serie di uffici che si celebravano nella cattedrale: sermoni, omelie, messe, preghiere delle ore canoniche, antifone, benedizioni, canti, danze, processioni e racconti sulla passione di san Giacomo. Il secondo libro è molto più ridotto di quello precedente ed è, forse, il più antico del codice: in esso vengono narrati ventidue miracoli avvenuti per intermediazione dell’apostolo, con una speciale enfasi per quelli verificatisi sulla via del pellegrinaggio ed un particolare accento sulla devozione e sulla fiducia dei pellegrini nei confronti del loro santo protettore. Il terzo libro è il più breve di tutti, ma il suo contenuto è fondamentale per illustrare le origini apostoliche della chiesa di Santiago: il testo si dilunga perciò nel raccontare la scoperta della tomba di san Giacomo e l’episodio del trasferimento del suo corpo dalla Palestina a Iria Flavia. Il quarto libro, dall’enfatico titolo Historia Karoli Magni et Rotholandi tratta, in chiave mitica e fantastica, delle avventurose vicende del sovrano carolingio e dei suoi paladini in terra ispanica. In tal modo esso consacra la tradizione epica connessa al pellegrinaggio jacopeo, nella quale re Carlo è visto come protettore del Camino e di tutti coloro che lo frequentavano. La leggenda probabilmente circolava già molto tempo prima di venir inserita nella compagine del Liber, e riflette l’immaginario guerresco della Reconquista: nell’XI secolo, infatti, si recarono al sepolcro di san Giacomo molti dei cavalieri stranieri, perlopiù francesi, accorsi in Spagna per combattere contro i musulmani, e lungo il percorso essi dovettero incontrare numerose tracce del passaggio di Carlo Magno in quelle zone. Il quinto e ultimo libro, redatto dal chierico franco Aymeric Picaud, è una vera e propria “guida del pellegrino” medievale. L’autore conosce e descrive gli itinerari di Francia e Spagna, avendo visitato tutti i santuari, i paesi e le città ivi presenti. Egli inoltre fornisce valide informazioni sulle caratteristiche geografiche e culturali delle terre attraversate dal Camino, offrendo talora pittoresche notizie relative alla comodità degli alloggi, all’ospitalità, al carattere e ai costumi peculiari delle genti che popolano tutte queste lande. Last, but not least, vanno sottolineate le notazioni musicali che si conservano nel Codice, in tutto ventuno pezzi, che costituiscono i primi esempi di polifonia nel Medioevo. I brani ivi contenuti riflettono infatti le tendenze della cappella parigina di Notre-Dame, all’epoca la più avanzata, per cui i loro autori furono, con tutta probabilità, musicisti d’oltralpe all’opera nello scriptorium compostelano i quali, come avveniva per gli scultori, gli ufficiali e i maestri d’opera impiegati nella costruzione della cattedrale, furono attirati dal grande fermento culturale ed artistico sviluppatosi da tempo nella città galiziana. Ciò ad indicare e ribadire una volta di più l’elevato grado di cosmopolitismo creativo della Compostela medievale.

Come avveniva il pellegrinaggio nel Medioevo?
Il pellegrinaggio è l’espressione della condizione propria del cristiano sulla terra, quella di essere un homo viator. Tale idea, la cui lontana origine è riconducibile all’esilio cui era stato costretto l’uomo in conseguenza del peccato originale, era più o meno velatamente presente nella Scrittura, soprattutto in quei passi ove si sottolinea che l’esistenza terrena costituisce un passaggio solo temporaneo verso la meta celeste, la sola ed essere eterna ed incorruttibile (ad es. Eb 11,13; 1Pt 2,11). Il pellegrinaggio mira a un obiettivo che è innanzitutto spirituale e interiore, e che poi si amplia transitivamente a livello sociale e culturale. Il viandante cerca innanzitutto di riconciliarsi con Dio, come il figliol prodigo della parabola evangelica che si pente e torna mutato d’animo alla casa del Padre (cf. Lc 15,11-32). La peregrinazione individuale, pietatis causa, è mossa innegabilmente da un’istanza soteriologica, e il viaggio pertanto costituisce un iter finalizzato ad un rinnovamento spirituale.

Dal sermone Veneranda dies, contenuto nel Codex Calixtinus, si apprende che il pellegrino, prima di partire, visitava per un’ultima volta la propria parrocchia, concedeva il perdono a chi lo aveva offeso, salutava i propri cari e li raccomandava a Dio. Dava poi disposizioni a chi restava di distribuire parte dei suoi averi in elemosine verso i più bisognosi, poiché a lui sarebbe bastato avere con sé la quantità di denaro sufficiente a viaggiare, raggiungere la meta e tornare indietro. Il cammino doveva, nei limiti del possibile, essere compiuto a piedi: il ricorso agli animali o ad altri mezzi di trasporto, perlomeno nei primi tempi, era consentito solo in casi eccezionali, in quanto riduceva la dimensione ascetica e penitenziale legata alla peregrinazione. Ai viandanti era inoltre consigliato fortificarsi vicendevolmente, per sopportare meglio e con maggior pazienza le avversità del cammino: ciò poteva avvenire con la meditazione silenziosa, l’orazione continua o anche narrandosi l’un l’altro aneddoti edificanti riguardanti le vite dei santi, per evitare l’insorgere di futili discussioni. Molto rara era la figura del pellegrino solitario, il quale rimanendo isolato assai difficilmente avrebbe potuto sopportare a lungo le innumerevoli difficoltà del percorso. Più diffuse le coppie, i piccoli nuclei familiari e le compagnie di amici, ma non mancavano le grandi comitive, che spesso si formavano attorno a qualche figura prestigiosa, che aveva già effettuato il viaggio e che era quindi in grado di guidare il gruppo in modo deciso e sicuro. Raramente le donne intraprendevano il cammino da sole: anche le più nobili appaiono spesso a fianco del marito, e non di rado seguite da una scorta. Si viaggiava di solito a piedi, talvolta anche a cavallo, soprattutto nel Basso Medioevo, ma poteva anche capitare di prendere a nolo una cavalcatura, per un tratto limitato di strada. I tempi del viaggio via terra erano molto lunghi, specialmente per i pellegrini tedeschi i quali, fra andata e ritorno, potevano impiegare alcuni mesi. Con buona verosimiglianza si può affermare che, nei tratti pianeggianti, si riuscivano a percorrere dai 30 ai 40 chilometri al giorno, equivalenti a circa 6/8 ore di marcia, mentre in zone montagnose il tragitto, essendo assai più impervio e talora rischioso, si riduceva di una decina di chilometri rispetto a quello di pianura. Le fonti coeve testimoniano infatti i decessi di quei pellegrini che rimanevano assiderati sulle montagne coperte di neve o attaccati da un branco di lupi, ma si poteva essere uccisi anche per gli assalti dei briganti. Le imboscate si facevano più numerose e audaci nelle zone meno popolate, come le radure isolate, le valli amene, le gole e i valichi che il pellegrino doveva di necessità attraversare. La presenza di boschi fittissimi e folti rendeva i siti montani particolarmente adatti per gli agguati dei briganti, che avvenivano di solito in luoghi poi ribattezzati con toponimi piuttosto evocativi, quali Malval, Malpas, ecc. L’assalto, improvviso, si concludeva a volte con la morte del disgraziato, che viaggiava con il perenne assillo di nascondere il denaro necessario per le spese di viaggio. Se possibile ci si imbarcava, poiché navigando si impiegava molto meno tempo, anche se si rischiava parecchio: mare cattivo, venti contrari, bonacce improvvise. Numerosi furono infatti i naufragi, ma anche gli assalti più o meno riusciti da parte dei pirati. I porti principali di attracco, da cui poi si procedeva a piedi, erano Barcellona, ove giungevano i pellegrini dell’Italia centro-meridionale e delle altre parti del Mediterraneo, ma soprattutto Bordeaux e La Coruña, nelle quali approdavano i viaggiatori provenienti dall’Inghilterra, dall’Irlanda, dalla Germania settentrionale e dalla Scandinavia.

Come si snodava l’itinerario e quali strutture offrivano accoglienza ai pellegrini?
Il celeberrimo quinto libro del Codex Calixtinus fornisce le linee essenziali sulle strade che, nella prima metà del XII secolo, conducevano dalla Francia fin oltre i Pirenei, mentre contiene informazioni molto più dettagliate per quanto concerne l’ultimo tratto, ossia il vero e proprio Camino spagnolo. Si consideri inoltre il fatto che, sia nella penisola iberica sia in territori ad essa endogeni, era presente una vasta ragnatela viaria, di cui si sa poco o nulla. Vi erano quattro percorsi francesi, che formavano una rete stradale costellata di monasteri, ospedali, confraternite e santuari contenenti celebri reliquie, luoghi ricchi di tradizioni sante e venerabili, nei quali si poteva sostare e pregare. La prima via era la Via Tolosana o Via Arletanense, in quanto partiva da Arles, ed era percorsa dai pellegrini della Provenza e da quelli provenienti dall’Italia. La seconda via era la Via Podense, utilizzata dai pellegrini ungheresi, austriaci e della Germania meridionale. La terza via era la Via Lemovicense, percorsa dai pellegrini della Germania centrale, della Polonia e delle regioni dell’Europa dell’Est. La quarta via infine era la Via Turonense, sulla quale si incamminavano i pellegrini del Nord e del Nord-Ovest europeo, delle Fiandre e dell’Inghilterra, questi ultimi talora sbarcando a Bordeaux. Tali vie si riunivano a Puente la Reina, andando a formare il vero e proprio Camino, ossia il tragitto ispanico che dai piedi dei Pirenei giungeva fino a Compostela. La Via Tolosana entrava in Spagna attraverso il passo di Somport mentre le rimanenti tre si univano a Ostabat, presso il versante francese, per poi attraversare i Pirenei attraverso il valico di Roncisvalle: di là la strada si dirigeva verso Pamplona, capitale della Navarra, quindi raggiungeva Puente la Reina ove avveniva il ricongiungimento. Da qui la strada toccava Estella, uscendo poi dalla Navarra ed entrando nella Rioja con le città di Logroño, Nájera, Santo Domingo de la Calzada. Si passava poi in Castiglia attraverso i monti d’Oca e si raggiungeva Burgos, capitale locale. Successivamente si attraversavano Castrojeriz, Frómista, Carrión e infine Sahagún, ove il pellegrino entrava nella regione del León, dove intersecava due antiche città di origine romana, León appunto e Astorga. Attraverso il passo di Acebo, collocato a millecinquecento metri circa, si giungeva nel Bierzo, toccando prima Ponferrada e poi Villafranca quindi, passando nuovamente attraverso zone montagnose, si entrava finalmente in Galizia, per giungere infine a Compostela. In questa regione tuttavia si poteva arrivare anche per mare, limitando il viaggio via terra al solo tratto di strada che connetteva il porto di attracco a Santiago: come si è detto, i pellegrini provenienti dall’Irlanda e dall’Inghilterra potevano sbarcare a Bordeaux, o anche proseguire in mare fino a La Coruña o a Padrón. Lo sviluppo di questi viaggi per mare pare in qualche modo connesso all’ascesa del commercio marittimo sul mare Atlantico, sempre più cospicuo a partire dal XIII secolo, ma una certa influenza su questa scelta fu indubbiamente dovuta anche allo stato di guerra tra Inghilterra e Francia che si protrasse per circa un secolo nel Tardo Medioevo.

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L’esercizio dell’ospitalità, pratica essenziale della religiosità cristiana, rappresenta uno degli aspetti fondamentali del pellegrinaggio di Santiago. Secondo la mentalità dell’epoca, come del resto insegnato nello stesso vangelo (cf. Mt 25,40), il pellegrino andava considerato e trattato come fosse Gesù in persona, e non mancano d’altronde lungo il Camino decorazioni scultoree in cui Cristo è raffigurato con i tratti tipici del pellegrino jacopeo. Sin dalle origini pertanto fu praticata l’accoglienza e l’ospitalità ai poveri e ai viandanti, soprattutto da parte dei monasteri, fossero essi benedettini, cluniacensi, cistercensi, agostiniani o di altra regola. Tra ospitalità e cura vi fu sin da subito una mutua e feconda relazione: l’etimo di «ospizio» e «ospitale» è infatti simile, e le loro funzioni a volte si sovrapposero. Si andò allora via via formando un servizio di aiuto permanente nei confronti dei viandanti, fino a giungere alla fondazione di vere e proprie strutture atte a rispondere quanto meglio ai vari tipi di esigenze – spirituali, materiali e sanitarie – di quelle folle ormai sempre più numerose dirette a Santiago. Tali centri di accoglienza possono essere suddivisi, a seconda della loro fondazione, in ospedali episcopali, cattedralizi, monastici, monastico-militari, reali, nobiliari, parrocchiali; più tardi, e in un contesto specificamente urbano, nacquero sanatori e centri di cura gestiti dalle corporazioni di arti e mestieri e dalle confraternite artigianali, mentre alla fine del Medioevo furono anche i soggetti privati ad effettuare questo servizio, dietro pagamento o per carità cristiana, magari dopo aver ascoltato le esortazioni di qualche bravo predicatore. L’ospizio medievale si caratterizzava per l’assistenza al vecchio, al povero, al bisognoso e, last but not least, al pellegrino di passaggio. Un tetto, un letto, un fuoco per riscaldarsi o anche soltanto qualcosa da mangiare costituivano i conforti materiali normalmente offerti a chi varcava la soglia dell’edificio. L’alimentazione fornita ai viandanti comprendeva generalmente pane, legumi, verdura e frutta, e già sulla porta d’ingresso vi era un incaricato che donava un po’ di pane a coloro che ne avessero fatto richiesta. Una volta entrato, all’ospite per prima cosa si lavavano i piedi, e poi eventualmente si tagliavano barba e capelli. Il primo gesto, in particolare, oltre che mezzo igienico utile a dare ristoro a chi ha camminato per ore e ore, si configura come un atto di carità e umiltà, in memoria di quanto fatto da Gesù con gli Apostoli nell’Ultima Cena (cf. Gv 13, 1-20). Ma ci si prendeva cura soprattutto dei viandanti malconci o ammalati, che venivano posti su morbidi e comodi letti, in ambienti divisi per sesso e illuminati di notte. In questi ospizi inoltre si aveva cura di compiere tutta una vasta gamma di servizi specificamente religiosi. Prima di rimettersi in marcia il pellegrino poteva prender parte agli uffici liturgici, pregare per l’anima dei propri cari e assistere alle varie celebrazioni, specialmente la messa domenicale, che veniva effettuata in una cappella interna all’ospedale o in una chiesa ad esso adiacente. In una situazione di grave difficoltà o di estremo pericolo l’ospite poteva inoltre usufruire del necessario conforto spirituale. E se poi qualcuno moriva, qui almeno era sicuro di ricevere adeguati riti funebri e dignitosa sepoltura.

Roberto Schiavolin si è laureato in Storia Medievale presso l’Università di Trieste, ove è stato successivamente Assegnista di ricerca e Docente a contratto. È dottore di ricerca in Filosofia, Scienze e Cultura nell’età Tardo-Antica, Medievale e Umanistica presso l’Università degli Studi di Salerno. Si è inoltre laureato in Scienze Religiose, pubblicando sia la tesi triennale: «Mistica e filosofia nel pensiero di Marco Vannini» (Nerbini, 2019) sia quella magistrale: «Lo Spirito soffia dove vuole. Dinamiche della spirazione nella temperie religiosa tardo-antica» (Messaggero, 2019). Si occupa in particolare di storia della spiritualità antica e medievale e dei rapporti tra neoplatonismo e cristianesimo, con vari articoli pubblicati in miscellanee e riviste specialistiche (https://units.academia.edu/diakosmetikos ). Già docente di Storia e Filosofia nei licei, attualmente insegna Religione Cattolica in un Istituto Comprensivo della provincia di Trieste.

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