“Il pasto silenzioso. Un sociologo alla mensa dei monaci” di Lucio Meglio

Prof. Lucio Meglio, Lei è autore del libro Il pasto silenzioso. Un sociologo alla mensa dei monaci edito da Carocci: quali risvolti sociologici assume la pratica del silenzio?
Il pasto silenzioso. Un sociologo alla mensa dei monaci, Lucio MeglioAnche se raramente affrontato, tanto dal versante delle scienze sociali che dalla letteratura, la riflessione sul silenzio è una stimolante opportunità che pone in dialogo diverse discipline e approcci diversi come quelli della storia, della filosofia, della psicologia, dell’antropologia e della stessa sociologia. Potrebbe sembrare un paradosso, una contraddizione in termini, invece il silenzio non va considerato come l’opposto della parola o della relazionalità, ma può essere inteso anche come un esercizio attivo di comunicazione strettamente correlato al contesto sociale di riferimento ed al singolo che ne fa esperienza. All’interno di questa cornice concettuale il silenzio assume diversi significati classificabili in una tripartizione di attributi, già proposta da Giovanni Gasparini, che lo qualificano come categoria sociale: silenzio generalizzato, silenzio qualificato e silenzio interattivo. Il primo corrisponde a situazioni dove il silenzio è richiesto a tutte le persone che condividono uno stesso stile di vita o contesto di riferimento come un monastero di clausura; il secondo si manifesta in ambienti dove il silenzio è rispettato da tutti ad eccezione di alcuni pochi attori, ad esempio la partecipazione a conferenze o rappresentazioni teatrali; infine il terzo esprime le dinamiche tipiche dell’interazione verbale fra due o più soggetti coinvolti in una conversazione dove il silenzio costituisce una delle sezioni del discorso. Nel mio libro ho cercato di esplorare la prima tipologia di silenzio, quello generalizzato, e come esso si rappresenti socialmente all’interno di un universo chiuso quale il mondo monastico.

Quale ruolo svolge il silenzio nelle relazioni tra i membri di una comunità monastica?
Innanzitutto è bene precisare a quale comunità monastica ci riferiamo. Studiare la vita religiosa significa infatti penetrare all’interno di un universo sociale complesso con forme organizzative e stili di vita specifici e in molti casi eterogenei tra di loro. Il mio campo di indagine si è rivolto ad una specifica vita monastica rappresentata dall’ordine certosino il più ferreo, ascetico e contemplativo degli ordini monastici della Chiesa cattolica. All’interno di una certosa il silenzio è la regola da non infrangere, nessuno dev’essere interrotto o distratto dalla propria vita di contemplazione. Ogni monaco vive all’interno della propria cella in solitaria uscendo soltanto tre volte al giorno per recarsi in chiesa, ad eccezione dei giorni festivi dove si consuma il pasto in comune. In questa vita, che potrebbe sembrare quanto di più eversivo possa esserci, il silenzio rappresenta un potente strumento di relazione tra i membri della comunità che ritrova i suoi momenti di unione esclusivamente attorno a due tavole: quella eucaristica e quella del refettorio domenicale.

Quali considerazioni di natura sociologica è possibile fare intorno all’alimentazione monastica?
In tutte le grandi religioni il cibo è considerato come un dono di Dio e da ciò ne consegue che l’atto del mangiare non è inteso come un gesto esclusivamente biologico, ma all’opposto diviene un momento carico di simboli e di riti ad esso legati. Ciò è particolarmente vero per il cristianesimo: Gesù amava la tavola quale luogo di incontro con gli altri e di costruzione di relazioni con gli uomini e Dio. I Vangeli raccontano di quindici pasti ognuno con una sua particolarità, pur rimarcando in più passi l’importanza del digiuno, considerato come mezzo di mortificazione che unitamente alla preghiera consente un legame più stretto con il divino. La ricerca presentata nel libro è partita constatando la crescente importanza del legame storico e sociale che unisce la religione, la spiritualità e l’alimentazione; legame che si crea nell’insieme delle operazioni simboliche connesse al cibo e alle sue capacità relazionali. Questo tipo di relazione ha infatti conquistato nel corso del tempo spazi sempre più ampi, trovando una sua specifica collocazione all’interno delle variegate tipologie di esperienze religiose. Del resto il monachesimo fin dagli albori ha instaurato con il cibo un particolare rapporto fatto da un lato di privazioni e dall’atro regolamentato da norme specifiche. All’interno delle relazioni e dei significati simbolici che circondano il cibo nel suo rapporto con la mensa monastica, dal punto di vista sociologico sono tre i livelli tramite i quali studiare la natura contingente di questo legame: il soggettivo, inteso come controllo sulla dieta soprattutto quando prevede la riduzione progressiva del cibo fino all’essenziale, una pratica questa tipica dell’ascetismo antico, ma ancora in uso in casi eccezionali come l’ultima reclusa camaldolese suor Maria Nazarena, il cibo in questo caso diviene pertanto uno strumento tramite il quale si realizza quello scambio empatico ed emozionale tra il monaco/eremita e il divino; il secondo livello è il divino, ossia il cibo, in special modo pane e vino, intesi come simboli eucaristici tramite i quali costruire un ponte ideale fra relazioni al sociale e relazioni al divino; ed infine il terzo livello è quello relazionale. In questo caso la vita monastica trova nel momento del pasto il punto di incontro dell’intera comunità costruendo quel legame comunitario che costituisce l’elemento cardine della vita cenobitica.

Cosa rivelano a riguardo la ricerca da Lei compiuta nel monastero certosino di Serra San Bruno?
La vita dei monaci certosini rappresenta bene la funzione sociale del pasto che ho appena esposto. La vita solitaria è temperata esclusivamente dal momento liturgico e da quello commensale dove i monaci abbandonano le celle per rinsaldare il legame comunitario. Questa relazionalità è una caratteristica specifica di questo ordine all’interno della quale si crea un ponte comunicazionale perfetto tra le relazioni al sociale e relazioni al divino. In questa mia ricerca, condotta mediante un duplice strumento l’osservazione partecipante, come ospite dei certosini e focus group, ho cercato di dimostrare come anche il cibo può essere un formidabile strumento di comunicazione per comprendere una particolare realtà spirituale. È in questo universo che il silenzio si rappresenta come legame di tipo dialogico, confortato da un patto fiduciario e da un rapporto di intimità con Dio; l’aspetto dialogico risulta dunque fondamentale sia per il riconoscimento del legame con i propri confratelli, sia per l’aspetto spirituale della costruzione dell’identità monacale. Il silenzio non è solo ascesi, ma assume una forte valenza relazionale in quanto permette tramite il pasto la comunione con Dio e con la comunità. Non solo silenzio esteriore, o mera insonorizzazione di uno spazio o controllo di rumori molesti; è prima di tutto un silenzio dialogico con Dio. È un mettersi in contatto con le profondità del proprio essere, un tacere davanti all’immensità del creato, un abbandonarsi a un amore misterioso, che non può essere né spiegato né proferito, ma solamente sperimentato. Si è dunque in presenza di un silenzio che non cerca di azzittire i rumori esterni, bensì vuole far tacere il rumore dell’io col suo corteggio di ambizioni, paure, forme di orgoglio e autocompiacenze, per costruire quel ponte invisibile che unisce il cielo con la terra. La ricerca esposta nel volume mi ha permesso di rilevare che senza tale relazione non può esservi quell’intimità data dalla condivisione di una serie di aspetti propri della vita monastica. Ogni uomo rispecchia in qualche modo una visione di sé e del mondo in cui è calato a vivere; l’esperienza fondamentale per il certosino è quella del silenzio con Dio e con la comunità.

Nella società attuale, questa forma di vita suscita sempre più curiosità: cosa rivela l’analisi del vissuto dei partecipanti alle cene del silenzio?
Nella società elettrica e tecnologica, dove il nostro tempo è continuamente esposto a qualsivoglia tipologia di rumore, sono sempre più numerose le persone che cercano di sperimentare momenti di silenzio all’interno dei monasteri, come dimostra la partecipazione alle cene del silenzio organizzate dal Monastero delle Clarisse eremite di Fara in Sabina. Il successo di partecipanti corrisponde a una forma di sospensione e allontanamento da un mondo caratterizzato dall’imperativo del correre, di conversare ed essere continuamente iperconnessi. Non è un caso che negli ultimi anni il silenzio ha ottenuto una particolare attenzione: non solo vacanze nei monasteri, ma pacchetti tutta quiete offerti dagli alberghi. I luoghi del silenzio si presentano infatti come spazi dove poter migliorare la qualità della propria vita alquanto compromessa nelle città odierna. All’homo faber della postmodernità si affianca l’homo silentiosus della società contemporanea alla ricerca di continui spazi, con relativi percorsi, attraverso i quali ricercare quell’isolamento acustico tanto agognato. Le cene del silenzio hanno dimostrato quanto la ricerca di luoghi isolati, lontani dal rumore delle città, con la riscoperta di tradizioni antiche quali quelle culinarie, sia un esercizio attivo di riscoperta del sé che sicuramente non può passare inosservato sotto la lente interpretativa della sociologia contemporanea, soprattutto oggi dove migliaia di persone a causa del lockdown hanno sperimentato, giocoforza, l’esperienza dell’essere soli nel silenzio di una città.

Lucio Meglio è Ricercatore in Sociologia generale presso il Dipartimento di Scienze Umane, Sociali e della Salute dell’Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale. Da anni svolge ricerche sul rapporto cibo/società pubblicando nel 2012 uno dei primi manuali italiani di sociologia dell’alimentazione giunto alla sua terza edizione. È autore di monografie e pubblicazioni scientifiche tra le quali: Sociologia del cibo e dell’alimentazione (Milano 2017) e La convivialidad monástica en la tradición de la civilización de la mesa, in “La Critica Sociologica”, 2019, n.211.

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