
di Marco Pellegrini
il Mulino
«Quella di rappresentare il vertice della Chiesa di Cristo è una prerogativa che i vescovi di Roma – dal VI secolo in avanti detentori esclusivi dell’appellativo di rispetto «papa», in precedenza rivolto a tutti i vescovi – hanno sempre rivendicato come un diritto inerente alla loro dignità di successori di Pietro. La traduzione in pratica di tale prerogativa, cui si allude con l’espressione primato petrino, ha sempre suscitato molte difficoltà. Gli avversari contestano come un abuso qualsiasi declinazione in senso monarchico del primato, e sostengono che il potere di direzione della Chiesa, quando è esercitato correttamente, non può che essere condiviso collegialmente.
Definire «monarchia» il tipo di autorità detenuto dal papa può essere semanticamente esatto, ma rappresenta la trasposizione in ambito ecclesiologico di un termine desunto dalla politologia profana. Nella formazione storica del concetto di primato petrino, questo vocabolo non compare fino a una data molto tarda. In età tardoantica, la nozione di principalitas diede luogo alla definizione di principatus che venne associata alla preminenza goduta da Pietro all’interno del collegio degli apostoli, una posizione speciale definita «onore di Pietro» (honos Petri). Questa associazione divenne operativa entro il 422, anno in cui papa Bonifacio dichiarò che «la Sede apostolica detiene il principatus per giudicare tutte le cause e tale potere le deriva dall’honos Petri». Un settantennio dopo, papa Gelasio I (492-496) affermò che «la Sede apostolica, per incarico di Nostro Signore, possiede il principatus su tutta la Chiesa». Ricordiamo che a questi tempi l’onorifica menzione del vescovado di Roma come Sedes apostolica era già invalsa da circa un secolo, essendo attestata sotto il pontificato di Damaso (366-384). […]
Al termine di questo sintetico inquadramento, sarà dunque chiaro che l’espressione monarchia papale, con la connessa ibridazione di politico e di ecclesiastico che reca in sé, risulta di problematica applicazione alla realtà della Chiesa romana. Essa viene usata per designare alcune fasi specifiche della storia del papato, mentre per altre fasi – a cominciare da quella odierna – tale espressione non suona appropriata e viene solitamente scartata.
Relativamente al periodo trattato nel presente volume (1417-1527), la definizione di «monarchia papale» appare pienamente motivabile e risulta corroborata dall’uso che di essa si è fatto nella storiografia recente. […] Soprattutto, però, va rilevato che le fonti di età rinascimentale documentano come circolante l’impiego del termine monarchia a proposito del papato romano.
A partire dal momento in cui fu superata la crisi conciliare, non solo il concetto ma anche il termine monarchia conobbero una fase di grande fortuna e vennero impiegati senza risparmio dagli apologisti del papalismo rinascimentale, una corrente fiorita tra XV e XVI secolo. Qualcuno di loro poté definire la Chiesa romana non solo una monarchia ma addirittura un impero (imperium), spaziante tra le due dimensioni terrena e celeste. Per converso, cadde nel limbo delle dottrine anatematizzate quella nozione di «democrazia ecclesiastica» che lungo circa mezzo secolo, complice l’eclissi d’autorità sofferta dal papato durante il Grande Scisma d’Occidente (1378-1417), si era imposta come auspicabile alternativa alla configurazione monarchica della Chiesa latina.»