
Quali erano le condizioni economiche e sociali delle due aree alla data dell’Unità?
Si è spesso ritenuto che il Mezzogiorno, alla data dell’Unità, fosse economicamente molto più arretrato del Centro-Nord. Le ricerche più recenti mostrano, però, come le condizioni economiche e sociali fossero, in tutto il paese, piuttosto simili. Nel 1861, l’Italia era un paese arretrato. L’aspettativa di vita era di circa 30 anni, la mortalità infantile altissima, redditi e salari nettamente inferiori a quelli dei paesi in cui già si era avviata l’industrializzazione moderna: Belgio, Francia, Germania e, ovviamente, Inghilterra. In questo sfondo di complessiva povertà, non c’erano reali differenze economiche tra Mezzogiorno e Centro-Nord: i salari tra le due aree erano simili, ed ancora nel 1891, la differenza nel reddito per abitante era di circa il 10 per cento. Anche gli standard nutrizionali, la mortalità infantile e l’aspettativa di vita non mostravano sostanziali differenze; anzi, in alcune regioni del Sud, le condizioni erano migliori rispetto ad altre del Centro-Nord. Un evidente divario esisteva nei livelli d’istruzione. Nel Sud i tassi di analfabetismo superavano l’80 per cento. Livelli simili a quelli delle regioni dell’ex Stato Pontificio (in particolare Marche e Umbria). La situazione migliorava in Piemonte e Lombardia, dove i tassi di analfabetismo erano, però, pur sempre attorno al 50 per cento.
Quale diverso percorso di sviluppo ha contraddistinto Nord e Sud fino ai nostri giorni?
Se consideriamo il Pil per abitante, è possibile distinguere tre fasi nell’andamento del divario tra Mezzogiorno e Centro-Nord. Fino al 1891, la differenza tra le due aree rimase modesta. Il divario cominciò ad aumentare alla fine dell’Ottocento, quando nel Nord-Ovest si andava sviluppando l’industria moderna. Da allora, per mezzo secolo, il divario di sviluppo aumentò. Nel 1951, l’Italia era un paese economicamente diviso: il Pil per abitante nel Mezzogiorno era circa la metà di quello del Centro-Nord. Successivamente, negli anni del miracolo economico italiano, il Sud recuperò in parte il suo ritardo. Questo processo di convergenza – favorito dall’intervento straordinario e dall’emigrazione meridionale – si interruppe nei primi anni Settanta. Da allora, pur in un contesto di sviluppo complessivo del paese, la differenza nei redditi tra le due aree è rimasta più o meno la stessa.
Quali spiegazioni del ritardo meridionale, da quella antropologica e genetica, a quella socio-culturale e istituzionale, è possibile fornire?
Divari regionali di sviluppo esistono in tutti i paesi. Ma solo in Italia sono state proposte spiegazioni antropologiche, se non razziali, dei divari. Alla fine dell’Ottocento, studiosi come Cesare Lombroso o Alfredo Niceforo, argomentarono che il ritardo sociale del Sud fosse dovuto ai tratti antropologici e caratteriali dei meridionali. Argomentazioni, queste, che riflettevano pregiudizi diffusi e che avevano l’obiettivo di spiegare differenze reali tra Nord e Sud, come quelle nell’incidenza dei crimini violenti. L’idea che il ritardo del Sud avesse la sua origine nell’antropologia dei meridionali rimase a lungo nell’opinione pubblica, ma anche tra gli studiosi. Per esempio, la si ritrova in volume sulla questione meridionale, di Friedrich Vöchting, pubblicato nel 1951. Oggi questa tesi è stata ripresentata con argomentazioni diverse e più radicali. Nel 2010, alcuni studiosi, tra cui lo psicologo Richard Lynn, hanno sostenuto che il divario economico tra Nord e Sud sia dovuto al minor quoziente d’intelligenza dei meridionali rispetto ai settentrionali. Una differenza dovuta, in larga parte, a cause genetiche.
Molto diversa, e certamente fondata, la spiegazione istituzionale, che mette in luce come gli squilibri regionali siano in parte dovute a cause politico-istituzionali, cioè al ruolo delle classi dirigenti e alle politiche economiche.
Quale ruolo hanno avuto le scelte politiche nell’aggravarsi del divario Nord-Sud?
La tesi secondo la quale il Mezzogiorno sia stato danneggiato dalle politiche attuate nel primo quarantennio postunitario è stata sostenuta da importanti meridionalisti, come Francesco Saverio Nitti e Gaetano Salvemini. Una tesi che trova conferme tra gli storici, che riconoscono come le politiche contribuirono ad ampliare il divario inziale tra Nord e Sud. Si pensi, per esempio, alla vendita dei terreni demaniali ed ecclesiastici o al protezionismo che, per proteggere alcuni settori dell’industria del Nord, penalizzò le esportazioni agricole del Sud. Dopo l’Unità, poi, le commesse statali si rivolsero, in larghissima misura, alle imprese settentrionali. Le prime politiche dirette a favorire lo sviluppo industriale del Mezzogiorno vennero attuate, seppur in maniera molto limitata, tra il 1904 e il 1906, con alcune leggi speciali. Solo negli anni Cinquanta, con la Cassa per il Mezzogiorno, lo sviluppo meridionale divenne un esplicito obiettivo di politica economica. Si è spesso argomentato che il ritardo del Sud si debba all’inadeguatezza delle sue classi dirigenti che, per incapacità o per scelta, ne avrebbero rallentato la modernizzazione. Ma non bisogna dimenticare che l’azione politica riflette gli assetti sociali ed economici e che, sotto alcuni aspetti, le distinzioni tra Nord e Sud sono meno nette di quanto si possa ritenere. Per esempio, già nell’Ottocento, clientelismo e corruzione, spesso additati come problemi tipicamente meridionali, erano presenti anche al Nord. Oggi, per formarsi un quadro, basta leggere la cronaca.
In che modo l’azione delle forze di mercato ha inciso nel divario economico tra Nord e Sud?
Nel dibattito sulla questione meridionale si è insistito molto sulle spiegazioni culturali, sociali e istituzionali. Meno spazio occupano quelle che guardano alle cause economiche. Ma lo sviluppo di un’area dipende, principalmente, da fattori economici, cioè dalle forze del mercato. La dimensione dei mercati, la dotazione di infrastrutture, la vicinanza geografica alle aree più avanzate d’Europa hanno avvantaggiato le regioni settentrionali, perché rendevano più profittevole la localizzazione industriale. La crescita economica è un processo che tende ad autoalimentarsi. Quando un’area si industrializza, attrae forza lavoro e investimenti da altre aree e ciò determina disuguaglianze territoriali. Un processo che si è verificato anche in Italia e che solo in parte può essere contrastato dalle politiche di riequilibrio territoriale. Negli anni dell’intervento straordinario, la localizzazione industriale al Sud è stata favorita dallo Stato attraverso incentivi, anche se ciò non è bastato a colmare i divari.
Nell’epoca della globalizzazione, quale futuro per il Mezzogiorno?
Oggi, grazie alla tecnologia, le economie mondiali sono strettamente integrate. I bassi costi del trasporto consentono di produrre in un luogo e servire mercati molto distanti. Persone, informazioni e capitali si spostano con facilità tra le nazioni. Le imprese possono frammentare la produzione in catene globali del valore, localizzandosi in quei paesi che offrono vantaggi significativi nel costo del lavoro o nella tassazione. Si pensi, per esempio alle delocalizzazioni nei paesi dell’est Europa. Nella competizione globale, il Sud rischia una crescente marginalizzazione che andrebbe contrastata con investimenti pubblici che, invece, ormai da diversi anni diminuiscono.
Vittorio Daniele è professore di Politica economica ed Economia dello Sviluppo all’Università Magna Graecia di Catanzaro. È autore di numerosi libri, tra i quali: Ritardo e crescita in Calabria. Un’analisi economica (2005); La crescita delle nazioni. Fatti e teorie (2008); Il divario Nord-Sud in Italia 1861-2011 (2011, con Paolo Malanima).