
A partire dalla fondazione delle prime colonie inglesi nelle regioni nordorientali dei futuri Stati Uniti, i sermoni predicati dai pastori, teologi e personalità religiose e laiche che guidavano la colonizzazione, erano infusi di argomenti biblici, che avevano come obiettivo principale quello di ammantare di un’aura provvidenziale e divina il viaggio che gli europei stavano compiendo per giungere dall’altro lato dell’Atlantico. Riferimenti al Dio cristiano, in formulazioni più o meno esplicite, sono sempre state inserite nei documenti fondativi della nazione, a partire dalla Dichiarazione d’Indipendenza, e la Bibbia è sempre stata usata come inesauribile fonte di ispirazione per il discorso politico e sociale statunitense.
A questo punto è opportuno fare due precisazioni. La prima risale a ciò che il sociologo statunitense Robert N. Bellah ha definito, nella seconda metà del ventesimo secolo, la religione civile americana. Interrogandosi sui motivi che avevano spinto l’allora presidente John F. Kennedy a menzionare più volte Dio nei propri discorsi, Bellah formulò l’ipotesi, da molti ritenuta valida ancora oggi, che la società e il panorama politico statunitensi siano pervasi da una forma di religione civile, riconducibile sicuramente alle forme e alla teologia della religione cristiana, ma allo stesso tempo distinguibile da questa. La religione civile di cui parla Bellah, infatti, consiste in un’aura di sacralità che permea eventi cardine della politica e della storia statunitensi. La religione civile fa sì che i presidenti non menzionino Cristo, ma solamente Dio, e che questa figura, è implicitamente compreso da tutta la popolazione, ha sempre avuto un interesse speciale nei confronti delle sorti delle colonie prima, e degli Stati Uniti poi.
La seconda precisazione necessaria riguarda il fatto che l’oggetto principale del mio libro sia il rapporto tra la religione cristiana e la politica di stampo conservatore. Questo, tuttavia, non è affatto l’unico ambito in cui questo rapporto si è verificato. Come spiego nel secondo capitolo del libro, il rapporto con la religione cristiana è stato fondamentale anche nello sviluppo della coscienza che molti schiavi avevano della propria condizione. Insegnamenti biblici, spesso impartiti da schiavisti interessati a “occidentalizzare” e “civilizzare” gli esseri umani che consideravano una loro proprietà materiale, venivano assorbiti e integrati a elementi spirituali della cultura di provenienza, al fine di creare una vera e propria teologia della liberazione. Altrettanto importante per il sostegno allo sviluppo di una coscienza di classe destinata all’acquisizione di diritti e al miglioramento delle condizioni di vita, fu l’unione tra religione cristiana e attivismo sociale verificatasi nel diciannovesimo secolo, definita Social Gospel (vangelo sociale), mirato alla creazione di una società animata da principi di egualitarismo e giustizia sociale.
In quali eventi è possibile ravvisare maggiormente i segni di questa relazione?
Come anticipato, questa relazione ha percorso la storia degli Stati Uniti da quando il paese era ancora un insieme di colonie sulla costa orientale affacciata sull’Oceano Atlantico. il rapporto tra religione cristiana e cultura politica non è stato però certamente sempre costante, né evidente e lampante a livello nazionale. Simboli religiosi e discorsi politici si sono infatti intrecciati in un percorso che ha avuto vicende alterne, dando vita a espressioni più o meno evidenti di questo rapporto, talvolta pubbliche e manifeste, altre volte più nascoste e sottomesse. Se si volesse pensare all’inizio della storia di quelli che sarebbero diventati gli Stati Uniti d’America, i sermoni coloniali sono uno dei primissimi esempi della relazione che è oggetto di questo libro. Infusi di una narrativa che vedeva nella provvidenza divina sulle spedizioni coloniali il proprio cardine, e costruiti e modellati su simboli e retoriche biblici culturalmente condivisi da chi partecipava alle spedizioni verso il futuro New England, i sermoni puritani coniugano teologia cristiana e avvenimenti politici dipingendo la colonizzazione in un’aura di missione voluta da Dio.
Volendo procedere nei secoli alla ricerca di altre espressioni storiche di questo rapporto, si può certamente fare riferimento alla nascita del movimento abolizionista. Ma, se nel nord del paese i sentimenti di molti che predicavano la fine della schiavitù dei futuri cittadini neri erano animati da valori cristiani, negli stati del Sud, la Bibbia stessa veniva usata per motivare la presunta giustezza di una pratica tanto abominevole. Non era infatti raro che alcuni passaggi della Bibbia, in particolare episodi relativi a Noè e Cam descritti nella Genesi, venissero interpretati e diffusi per fornire un fondamento storico, oltre che biblico e cristiano, alla pratica della schiavitù. Il ventesimo secolo è sicuramente quello in cui il rapporto tra religione cristiana e politica conservatrice negli Stati Uniti ha vissuto i suoi momenti ed eventi più rappresentativi.
Basti osservare, nei primi vent’anni del novecento, la lotta alle teorie scientifiche evoluzioniste diffusesi grazie al lavoro di Charles Darwin. Queste, percepite come in netto contrasto con il creazionismo cristiano, iniziarono a essere giudicate come blasfeme, e, in molti stati del sud, si avviò una vera e propria battaglia legislativa mirata a vietare l’insegnamento dell’evoluzionismo nelle scuole pubbliche. Questa lotta ideologica tra fondamentalisti cristiani e modernisti culminò nel cosiddetto Scopes Monkey Trial (The State of Tennessee vs. John Thomas Scopes), in cui un insegnante di scienze del Tennessee venne condannato per essersi rifiutato di insegnare il creazionismo durante le ore di scienze. L’intero processo, da cui i fondamentalisti uscirono vittoriosi per la legge, ma pubblicamente umiliati e bollati come retrogradi, fu ampiamente pubblicizzato e ottenne enorme risonanza mediatica a livello nazionale.
Bisogna però arrivare agli anni Settanta del novecento per assistere alla manifestazione del rapporto tra religione cristiana e politica nella sua forma più nota ed esistente ancora oggi: la nascita della destra religiosa. Siamo infatti nella seconda metà del secolo e in piena Guerra fredda, quando gli Stati Uniti, sconvolti da ondate di rivoluzione culturale giovanile, proteste, e battaglie per i diritti civili di neri, donne e altre minoranze, si ritrovano dinnanzi alla formazione dell’invincibile alleanza tra il futuro presidente repubblicano, Ronald Reagan, ed esponenti di varie organizzazioni, laiche e soprattutto religiose, che decisero di fare il loro ingresso nell’arena politica per ripristinare, all’interno della società, quei valori cristiani che secondo loro il paese aveva abbandonato nei decenni precedenti. Se le lotte della destra religiosa nascono intorno al divieto, imposto dalla Corte Suprema dopo la Seconda guerra mondiale, di praticare la segregazione razziale nelle scuole private cristiane, queste si ampliano rapidamente per includere la battaglia contro il diritto all’aborto e l’Equal Rights Amendment, e proseguono nei decenni, fino ad arrivare ai giorni nostri, con l’obiettivo di contrastare e cancellare le conquiste dei diritti civili da parte di cittadini discriminati, come i membri della comunità LGBTQIA+.
Come si è espresso l’intreccio tra religione cristiana e ideologie politiche americane?
Lo svilupparsi di un proficuo rapporto tra religione cristiana e politica statunitensi nel corso dei secoli ha fatto sì che alcuni aspetti del discorso politico del paese, e alcune ideologie afferenti soprattutto all’area conservatrice, acquisissero tratti peculiari, che hanno caratterizzato il panorama politico americano fino ai giorni nostri. Naturalmente, la mia principale fonte di studio e di riferimento per la scrittura di questo libro consiste nei membri, nell’apparato ideologico e nell’operato politico del Partito repubblicano. È infatti, come già accennavo, in relazione a questa forza politica che ha potuto prendere vita e svilupparsi il movimento conosciuto ancora oggi come destra religiosa o destra cristiana (Christian o religious right). È però innegabile che il rapporto con la religione cristiana abbia condizionato vari ambiti e varie manifestazioni delle ideologie politiche americane, in vari momenti della storia e producendo risultati che superano la tradizionale divisone bipartitica dell’apparato politico statunitense.
È opportuno, come sempre, cercare di ritornare all’origine di questo rapporto, e in particolar modo ai grandi risvegli (great awakening) che si verificarono nel diciottesimo e nel diciannovesimo secolo. Questi furono ondate di conversioni religiose che rivitalizzarono la spiritualità di molti abitanti delle colonie prima, e dei nuovi stati poi, infiammati dalle prediche delle figure carismatiche dei predicatori itineranti. Furono proprio queste esplosioni di revivalismo religioso a fornire alla fede di molti cittadini statunitensi caratteri peculiari, che indubbiamente influenzarono l’identità della nazione intera. Tra questi, una propensione all’anti-intellettualismo, sicuramente basata sull’insistenza a un approccio più individuale, istintivo e genuino alle sacre scritture, sorpassando quindi l’intermediazione di figure clericali “ufficiali”, come preti, prelati e ministri religiosi. La figura del self-made man, cardine della mitologia nazionale statunitense e base di una pervasiva antipatia nei confronti di un apparato governativo troppo invadente, doveva quindi passare anche per un’esperienza religiosa di riconversione e ri-dedicazione della propria vita a Cristo (da cui l’espressione born-again Christian, usata da alcuni presidenti come Jimmy Carter e George W. Bush, per definirsi in quanto cristiani).
Penso però che sia importante arrivare ai giorni nostri per evidenziare un argomento di cui mi occupo alla fine del libro, ovvero il white Christian nationalism (nazionalismo bianco cristiano), che è una delle espressioni ideologiche più recenti del rapporto tra religione e politica. Una forma di etnonazionalismo autoritario, da alcuni definito anche una sorta di proto-fascismo, questo tipo di nazionalismo è cresciuto dalle radici di quella che possiamo definire un’aberrazione ideologica originata dall’influenza della politica sulla religione cristiana e viceversa. Storicamente, infatti, la religione protestante è stata simbolo e prerogativa della classe dominante negli Stati Uniti, i cosiddetti WASP: white, anglo-saxon Protestants. I bianchi di origine anglosassone hanno costituito per secoli, e per alcuni versi ancora oggi, la popolazione originaria del paese, quella che diede i natali ai padri della nazione. Il protestantesimo americano, quindi, è sempre stato non solo la religione non ufficiale della nazione, ma anche profondamente intrecciato al razzismo strutturale che ha caratterizzato la società statunitense fin dai tempi delle colonie. In questo fenomeno, emerso in maniera dirompente negli ultimi dieci anni, si può trovare una delle più evidenti espressioni dell’intreccio tra religione cristiana e ideologie politiche americane.
In che modo il mito della “città sulla collina” pervade ancora oggi la politica statunitense?
Prima ancora di partire alla volta delle colonie inglesi sul suolo dei futuri Stati Uniti, John Winthrop, governatore della Massachusetts Bay Colony, declamò il sermone A Model of Christian Charity. Ci troviamo nel 1629, e Winthrop annuncia ai suoi compagni di viaggio che il loro obiettivo era quello di formare una nuova Gerusalemme al di là dell’Oceano Atlantico. Winthrop prende spunto dal Sermone della montagna, contenuto nel Vangelo di Matteo, per creare l’immagine della città sulla collina, un faro di luce che avrebbe indicato la retta via all’umanità intera. Nelle parole di Winthrop, infatti, i coloni dovevano ricordarsi che: “For we must consider that we shall be as a city upon a hill. The eyes of all people are on us”. Winthrop non fu l’ultimo a usare questa espressione durante la storia americana.
La convinzione che la missione colonizzatrice facesse parte di un piano divino fa storicamente parte della mitologia che sostiene la fondazione della nazione e il suo sviluppo nel corso dei secoli. Basti pensare all’espressione “destino manifesto” (manifest destiny), con la quale, nel diciannovesimo secolo, viene definita l’importanza della conquista di tutti i territori considerati liberi, perché abitati da nativi americani, fino alla costa ovest, ovvero l’Oceano Pacifico. Ma l’uso di questa espressione si è avuto anche in tempi relativamente recenti, ovvero nella seconda parte del ventesimo secolo, quando Ronald Reagan, accomiatandosi dalla nazione alla fine del suo secondo e ultimo mandato presidenziale, ricordò ai suoi concittadini che gli Stati Uniti erano veramente una “splendente città sulla collina”.
Credo che questo mito, sebbene non espresso così frequentemente in questi termini, sia ancora pervasivo della politica, soprattutto estera, praticata dagli Stati Uniti negli ultimi decenni. Il paese, che si è posto come l’arbitro di molte delle principali contese internazionali sin dalla Prima guerra mondiale, ha spesso praticato quello che viene definito un imperialismo informale, mirato dunque all’estensione della propria sfera di influenza economica, che si è tradotto in un’assenza di colonizzazione ufficiale di altre regioni del mondo, compensata comunque dalla marcata presenza militare statunitense e, appunto, dall’esercizio di una sorta di dominazione di tipo economico e politico. Le denominazioni con cui queste imprese sono state conosciute e rese note, sia al pubblico americano che al resto del mondo, dichiarano l’intenzione degli Stati Uniti di porsi come forza del bene nei confronti del resto del mondo. Prima fra tutte, e tra le più recenti, vi è infatti l’operazione militare Enduring Freedom, con la quale il paese invase l’Afghanistan all’indomani dell’attacco dell’11 settembre 2001, seguita dall’operazione Iraqi Freedom. Entrambe le azioni militari, oltre a costituire un’azione di risposta agli attacchi a Pentagono e World Trade Center, furono infatti presentate in una narrativa infusa della missione statunitense di rappresentare un simbolo di libertà e democrazia per il resto del mondo, nonché del compito del paese stesso di esportare tali valori in qualsiasi altro paese ne avesse avuto bisogno.