
Rispondere a questa domanda non e semplice perché l’impasto di acqua e farina, senza specificare se di grano duro o tenero, mescolato con altri ingredienti come uova, latte, formaggio, è antichissimo, Fin dall’antichità tutte le civiltà del Mediterraneo, del Medio Oriente e in parte quelle indoeuropee, fondavano la loro alimentazione su questo impasto da cui discendevano diverse preparazioni, tra le quali ovviamente primeggiava il pane. Nel mondo romano è nota la presenza della lagana, una sfoglia sottile di acqua e farina, schiacciata, aromatizzata e fritta o cotta al forno. Ancora nell’VII secolo d.C. chiama laganon «un pane largo e sottile, cotto prima nell’acqua, poi fritto nell’olio». Che questo termine sia l’antecedente linguistico della attuale lasagna è del tutto plausibile, ma certamente si riferisce ad un prodotto del tutto diverso da quello che consumiamo oggi: era piuttosto simile a una pizza non lievitata o a uno “gnocco” fritto emiliano.
Dal mondo arabo provengono anche frammenti di impasto di acqua e farina arrotondate dalle mani delle cuoche che ancora oggi sono alla base di preparazioni come il cous-cous o la fregola sarda.
È certo poi che gli arabi avesse impiantato in Sicilia fabbriche di itriyya. vermicelli di grano duro, che esportavano in tutto il Mediterraneo, di cui altre fonti testimoniano la presenza in diverse città italiane nel Medioevo. Quello che è certo e che da questa lunga tradizione emergono due versioni principali dell’impasto di acqua e farina dedicato alla preparazione di paste di diverse fogge e formati: la sfoglia, da cui nel Medioevo sarebbero anche derivati i tortelli, cioè paste fresche ripiene di carni e verdure cotti in diversi modi, e i filamenti filiformi, da cui in età moderna sarebbero nati i maccheroni e i vermicelli e il loro più famoso erede, gli spaghetti.
In ogni caso si tratta di prodotti domestici, che avevano una presenza marginale nell’alimentazione sia popolare che aristocratica, utilizzati nella cucina nobiliare come accompagnamento alle carni o nelle zuppe, oppure come preparazioni dolci arricchite di spezie, miele e zucchero.
La pasta che noi effettivamente consumiamo nasce tra settecento e ottocento a Napoli e a Genova, quando decisive innovazioni tecnologiche consentono di aumentare e stabilizzare la produzione nelle botteghe artigiane, di abbassare i prezzi e di alimentare un commercio su larga scala che raggiunge molte città non solo in Italia ma in tutto il bacino del Mediterraneo.
Qual era la diffusione di quel primitivo impasto di acqua e farina?
Come ho detto, fino al XVIII secolo la pasta di grano duro, allora comunemente chiamata maccheroni o vermicelli, era un prodotto elitario per i suoi alti costi e raggiungeva le mense dei ceti poveri molto raramente, che in occasione delle festività religiose, nell’Italia settentrionale, consumavano lasagne e tagliatelle di grano tenero impastate con le uova, e nel Mezzogiorno ricorrevano a preparazione di grano duro domestiche come cavatelli, trofie, strozzapreti, fusilli e bucatini.
Nel Settecento, nel quadro di un impoverimento delle disponibilità alimentari che generò una trasformazione radicale dell’alimentazione delle classi meno abbienti delle città, la pasta secca assunse il carattere di cibo di conservazione e riempimento che garantì la loro sopravvivenza alimentare: come la polenta di mail in Valle Padana o la patata in Irlanda, la pasta di grano duro divenne uno straordinario antidoto contro la fame, alimentando una nuova domanda di mercato che venne soddisfatta dalla nascente produzione manifatturiera. Si trattava di piccole aziende spesso integrate con l’industria molitoria, nate attorno a corsi d’acqua per utilizzare l’energia idrica, che però disponevano di un nuovo mezzo di produzione, la trafila con il torchio, capace di moltiplicare le capacità produttive di una bottega artigiana.
In queste aziende, situate soprattutto intorno a Napoli e a Genova, nasce la pasta moderna, con i suoi formati, le sue differenti qualità, i suoi circuiti commerciali, che nel corso del XIX secolo si impone come uno dei principali prodotti di esportazione del nostro paese. A questo risultato concorse nella seconda metà dell’Ottocento soprattutto l’emigrazione dei contadini meridionali, che fecero della pasta al pomodoro il loro cibo identitario, nelle piccole o grandi Little Italies che crescevano soprattutto sul suolo nord americano.
Alla vigilia della Grande guerra, questo universo di piccole imprese si era profondamente trasformato, non solo perché all’interno di questo settore produttivo fatto di un migliaio di imprese si erano affermate anche grandi aziende con centinaia di dipendenti, che avevano messo a punto tecniche produttive sempre più moderne, avevano applicato nuove fonti energetiche come il vapore e l’elettricità, avevano ampliato le reti commerciali e cominciato ad utilizzare le moderne pratiche del marketing; ma anche perché era cambiata profondamente la sua geografia: agli spazi originari si erano aggiunti poli produttivi di rilevo negli Abruzzi, nel Lazio, nell’Emilia, in Umbria.
Quando e in che modo essa si è imposta come «primo piatto» e come cibo nazionale?
La nascita della cucina borghese nell’Ottocento porta con se una riorganizzazione dei pasti derivante dalla diversa struttura della famiglia – una famiglia mononucleare fatta solo di genitori e figli assai diversa da quella contadina e da quella nobiliare – che implicava un ruolo centrale della donna/moglie nell’organizzazione della vita familiare e dell’alimentazione in particolare, dalle differenze di reddito disponibile che comportava cibi più semplici e pranzi più sobri e infine dalle trasformazioni dei gusti in direzione di una cucina più naturale e salutare. Tutti questi processi si tradussero in una progressiva centralità della pasta nella cucina domestica delle classi medie urbane che ebbe come conseguenza quella di determinare una organizzazione dei pasti quotidiani unica in Europa, basata su tre portate, invece che due, perché bisognava “fare posto” alla pasta, che costituiva il piatto forte collocato all’inizio del pasto. Nasce così il primo piatto a base di pasta, ma anche di riso, sia asciutta che sotto forma di minestre brodose a base di verdura e legumi. Fu Artusi nel suo famosissimo ricettario del 1891 a codificare questa struttura alimentare che si sarebbe rafforzata man mano che la pasta si veniva affermando in tutte le cucine regionali italiane come la spina dorsale dell’alimentazione degli italiani, trasformandoli in un popolo di “mangiamaccheroni”, in entrambe le sponde dell’Oceano Atlantico.
Ovviamente in questo processo la pasta aveva perso i suoi connotati di cibo della miseria, per assumere invece quelli di un alimento nutriente, che si sposava con una miriade di condimenti, capaci di inglobare tutte le specialità e specificità delle tradizioni gastronomiche locali; carni, pesci, verdure, legumi, formaggi, uova diventavano basi dei sughi capaci di trasformare quell’impasto di acqua-e farina una molteplicità di piatti che non aveva riscontro in nessuna altra cucina. La pasta e paradossalmente sempre uguale e sempre diversa in ragione delle infinite varianti che può assumere il nesso tra il cereale di base e i condimenti. Per questa sua poliedricità in un paese in cui la cucina è tradizionalmente regionale, la pasta ha saputo diventare il piatto di tutti in cui le molteplici identità gastronomiche si sono potute riconoscere in un alimento comune, identico come base ma estremamente differenziato nel suo consumo effettivo.
Quali sono state le dinamiche storiche, economiche e culturali profonde di quella che, oltre che una trasformazione del gusto, è stata anche e soprattutto una trasformazione sociale?
La pasta moderna è un prodotto industriale, che come tutte le merci, trova le sue dinamiche economiche nella capacità di stare sul mercato e di intercettare la domanda dei consumatori.
Fino alla fine del 700 questa domanda è stata estremamente ristretta e ha conosciuto una dimensione di massa solo nell’area metropolitana partenopea che era una delle più estese e popolate del mondo. Con l’Ottocento man mano che la pasta diventa un cibo borghese e segue i circuiti dell’emigrazione la cerchia dei consumatori si estende a dismisura, ma più sui mercati internazionali che su quello interno, dove si scontra ancora con l’indigenza diffusa delle classi rurali e dei lavoratori urbani, con l’arretratezza dei sistemi infrastrutturali, con le strozzature produttive delle aziende e con le debolezze commerciali degli industriali pastai.
Durante il fascismo il pastificio sopravvive schiacciato dalla politica autarchica e dalla chiusura del mercato americano, da un lato, e dall’altro dalla stagnazione economica che non favorisce la crescita dei redditi della piccola borghesia e dei lavoratori. Questo contesto però non impedisce alla pasta di allargare la sua presenza nei consumi degli italiani, proprio perché resta un prodotto a basso prezzo che può sostenere i bisogni primari della popolazione, ma anche perché la fortuna dei ricettari nelle case delle classi medie favoriscono la crescente identificazione tra la pasta e il “mangiare italiano”: nonostante il fascismo abbia condotto una campagna per aumentare i consumi di riso, il nesso tra pasta e nazione diventa sempre più stretto fino a diventare uno stereotipo che definisce in tutto il mondo l’essenza dell’italianità. Ma è il boom economico degli anni 50-70 che inserisce in quel nesso un elemento fino ad allora assente: il benessere, che se ha voluto dire in quegli decenni l’ingresso della carne nella dieta degli italiani, ha anche portato con se uno straordinario e sorprendente incremento dei consumi di pasta alla fine del quel trentennio raggiunsero la cifra cospicua di 30 kg. procapite. Benessere e pasta divennero dunque sinonimi promuovendo l’affermazione della “dieta mediterranea” basata su cereali, verdure e olio, come struttura alimentare capace di unire nutrimento e salute. Irrobustita da altre componenti, la secolare dieta vegetariana dei contadini poveri di tutte le regioni italiane, diventa invece un modello alimentare, ora che i paese industrializzati sono colpiti dal peso crescente delle malattie cardiovascolari, che si diffonde notevolmente portando la pasta nelle mense di popoli e paesi che prima ne erano estranei, ben oltre quelli dove esisteva una presenza di comunità italiane.
Alla fine del XX secolo l’Italia è tornata ad essere il primo produttore, il primo consumatore e il primo esportatore di pasta al mondo.
Quali caratteristiche la rendono un piatto straordinario?
La pasta secca, quella di grano duro, ha innanzitutto un contenuto proteico – il glutine, assente nel grano tenero – che la rendere un cibo altamente nutriente, indipendentemente dai condimenti con cui si abbina, che può garantire il benessere alimentare anche in diete a basso contenuto di proteine animali, come quella italiana. Inoltre la pasta secca ha un altissimo grado di conservabilità che la rende non solo facilmente commerciabile e quindi reperibile per i consumatori, ma anche un perfetto cibo di riserva nelle dispense familiari, senza il supporto di nessuna tecnologia del freddo: la pasta non ha bisogno del frigorifero, né di locali particolari, anche se la lontananza dall’umidità aumenta il tempo di conservazione.
Questo cibo e però anche uno straordinario supporto alimentare, capace di reggere pressoché tutti condimenti. nei quali, come ho detto si poteva condensare quasi per intero la cucina italiana. Sopra la pasta ci sta la cucina ricca, con i suoi ragout, i suoi timballi, le sue carni e suoi pesci prelibati, ma anche la cucina povera con i suoi legumi, le sue verdure, le sue salsicce e suoi grassi animali poveri: dallo zafferano al guanciale, dalle aragoste ai fagioli, magistralmente intrecciate in una miriade di preparazioni sia codificate nella cucina scritta dei ricettari, sia costantemente aperta alla fantasia di ogni cuoco. Nel Codice della pasta il gastronomo Vincenzo Buonassisi propose ben 1001 ricette (l’ultima prevedeva come condimento la carne di cammello!) a dimostrazione del carattere illimitato dei sughi per la pasta, ma soprattutto dei suoi caratteri di cibo moderno, che non viene imprigionato in nessuna tradizione e sa permanentemente innovarsi
Quale successo ha la pasta fuori dai confini del nostro Paese?
Per tutto l’Ottocento la pasta è stata il cibo preferito dai migranti, ma anche delle élites internazionali che la potevano mangiare nei ristoranti à la page di New York o Parigi. Trainata dalle comunità italiane all’estero, soprattutto nelle Americhe, la pasta e il sugo al pomodoro entrano anche nell’alimentazione delle diverse comunità di “americani”, che se ne impossessano e la trasformano alla luce delle loro abitudini alimentari un prodotto autoctono. Negli Stati Uniti determina persino la nascita di un’industria pastaria di tutto rispetto, come d’altronde si verifica in Canada, in Argentina e in Venezuela a dimostrazione che già nella prima metà del XX secolo la pasta era entrata nei consumi quotidiani delle popolazioni di quei paesi. Questo processo ha trovato una ulteriore accelerazione nella nostra epoca di globalizzazione quando è stata rilevata la progressiva presenza della pasta nei consumi quotidiani di circa tre miliardi di persone, dalla Russia, al Nord Africa, alle Americhe, all’Asia e soprattutto all’Europa verificatosi nell’ultimo ventennio e sostenuto da una affermazione senza precedenti della pasta e della “dieta mediterranea”, suggellata nel 2010 dalla sua iscrizione nel patrimonio immateriale dell’umanità su proposta dell’Unesco. Ma la motivazione del riconoscimento che la definisce “un insieme di competenze, conoscenze, riti, simboli e tradizioni, che vanno dal paesaggio alla tavola” consente di cogliere a pieno come il successo mondiale della pasta che costituisce l’elemento fondamentale della sintesi mediterranea affondi le sue radici nella complessità storica, antropologica e culturale di quell’elementare impasto di acqua e farina condito con verdure e olio inventato nella Napoli ottocentesca.
Alberto De Bernardi è professore ordinario di Storia Contemporanea presso il Dipartimento Storia Culture Civiltà dell’Università di Bologna