
A noi è parso che si dovesse fare un altro piccolo passo avanti e cioè proporre un collegamento più stretto tra gli studi sulle due guerre mondiali – che sono stati finora di carattere politico, militare e socio-economico – e quelli appunto sul paesaggio, sull’ambiente e – anche, in particolare – sulla storia degli animali. Possiamo dire che siamo partiti ancora una volta dalla lezione di Emilio Sereni, che nel suo citato libro, però, non dice nulla sugli effetti dei due conflitti mondiali. Abbiamo fatto insomma la classica figura dei nani che salgono sulle spalle dei giganti.
Oggi abbiamo la consapevolezza che i costi delle guerre non vanno calcolati soltanto in termini di vite umane, di orfani e di mutilati, oppure di vittime di stupri di massa o di profughi (Beninteso: questi sono gli aspetti più gravi e importanti). Neppure basta ragionare sulle distruzioni materiali di città e di infrastrutture o compilare statistiche economiche. Le guerre distruggono anche l’ambiente e il paesaggio, lo modificano profondamente: penso al problema degli ordigni inesplosi, alle mine, all’inquinamento, ma anche agli scavi per nuove strade, trincee, sistemi difensivi… Inoltre non dobbiamo dimenticare le conseguenze sulle specie vegetali e su quelle animali: non soltanto gli animali usati per scopi bellici o alimentari, ma anche quelli selvatici, privati del proprio habitat.
Quali conseguenze produssero sul paesaggio colpito i due conflitti mondiali?
Conseguenze di ogni genere. Naturalmente bisognerebbe distinguere tra la Prima e la Seconda, tracciando una miriade di distinzioni tra i singoli paesi e anzi tra le singole regioni e aree. Tutto, è ovvio, dipende da dove e da come si è combattuto. Nel nostro libro riportiamo soltanto alcuni esempi, frutto degli studi di diversi autori: si tratta, però, soltanto di alcuni esempi, tra le migliaia che si potrebbero fare.
Se pensiamo alla Grande Guerra 1914-1918 (1915-1918 per l’Italia), il riferimento più immediato, almeno per chi ama la montagna, va alle cime delle Dolomiti e delle Alpi centro-orientali in genere. Cime fatte saltare per aria (il Lagazuoi, il Col di Lana) o profondamente modificate da gallerie, strade, trincee e lavori di ogni genere (il Pasubio, l’altopiano dei Sette Comuni, per non parlare dei rilievi del Carso). Pensiamo pure alle immense distese di foreste distrutte vuoi per provvedersi di legname vuoi per l’asprezza dei bombardamenti e delle cannonate. Le fotografie del fronte francese o anche di quello italiano sono impressionanti: non esistono più alberi in lande desolate e fangose. È meritorio oggi il lavoro di chi – sfruttando il recente centenario di quegli avvenimenti – si è impegnato a restaurare quanto è restato e a organizzare “musei all’aperto”. Però, noi non vedremo mai più quei paesaggi alpini così come erano all’inizio del Novecento.
Se passiamo alla Seconda guerra mondiale 1939-1945 (1940-1945 per l’Italia), a prima vista le distruzioni hanno riguardato le città massacrate dai bombardamenti aerei. Ma anche il paesaggio fuori delle città ha subito profondi cambiamenti, seppur in modo diverso rispetto al precedente conflitto. Nel nostro libro si parla di località tragicamente celebri: Oradour in Francia, Lidice in Repubblica Ceca, il Monte Sole in Italia (Lo fanno in specifico Salvatore Trapani, Fabien Archambault, Elena Monicelli e Andrea Ventura, oltre a Luciano Casali). Sono gli esempi più conosciuti di comunità sterminate e sradicate. In questi casi si pone il problema di come tramandare la memoria di quanto accaduto e di come conservare le rovine delle case e di come rendere fruibili quei luoghi ai visitatori di oggi: anche questo è un problema tutt’altro che secondario. Il cambiamento radicale può avvenire anche per altre vie: l’area della Val Grande – tra la val d’Ossola, la val Vigezzo e il lago Maggiore – è stata praticamente abbandonata dopo la totale distruzione di baite e rifugi compiuta dai nazi-fascisti nel 1944. Oggi quella zona è diventata la più selvaggi e “naturale” di tutta l’Italia. Nel libro ho cercato io stesso di parlarne.
Il problema di cosa conservare, nel paesaggio, di quel che la guerra aveva lasciato si pose anche dopo il primo conflitto mondiale: Moreno Baccichet, nel nostro libro parla di alcune zone del Carso, mettendo in evidenza come si creasse subito una divaricazione: per gli italiani quelle erano zone “sacre”, per gli sloveni terre che bisognava riprendere a coltivare per poter vivere.
Parlando di memoria, è bene ricordare – come fa nel nostro libro Alessia Morigi – che ogni manufatto del passato rischia di diventare oggetto di contesa, di strumentalizzazione politica e quindi di memoria divisa: ciò vale anche per i lasciti più lontani nel tempo, quelli oggetti di studio non degli storici contemporaneisti, ma degli archeologi.
Quali effetti ebbe la Grande Guerra sull’allevamento del bestiame in Italia?
Anzitutto bisogna ripetere che entrambe le guerre costituirono un autentico calvario anche per milioni e milioni di animali, domestici e selvatici. Soffermiamoci in particolare su quelli domestici, che sono anche i più facili (relativamente) da affrontare e studiare. Gli eserciti – tutti, ovviamente, e non solo quello italiano – ne avevano un dannato bisogno, a cominciare dalle necessità alimentari. In prima fila c’erano naturalmente i bovini, per i quali fu attuato un «metodico prelevamento» (parole del decreto 16 luglio 1915), tramite apposite commissioni attive in tutte le province del Regno. Furono fissate alcune regole da seguire, sotto la sorveglianza di una commissione centrale a Roma e furono coinvolti, a livello locale, i sindaci. Nel nostro libro se ne parla diffusamente, grazie al lavoro di Bruno Ronchi. Per tutta la durata della guerra furono requisiti circa 2,5 milioni di capi bovini su un totale esistente di 6 milioni. A questi dati bisognerebbe aggiungere il numero di animali razziato dagli austro-tedeschi in Veneto e Friuli nell’anno intercorso tra la nostra disfatta di Caporetto e la fine del conflitto.
Bisogna però valutare altre conseguenze. La guerra bloccò l’importazione di riproduttori destinati al miglioramento genetico delle varie razze bovine. Inoltre il concentrarsi dei combattimenti sull’arco alpino mise a rischio le razze di quelle zone, per esempio la bruna alpina, la burlina, la rendena. Dopo il 1919 si dovettero prendere misure per recuperare quanto si era perduto anche su questo specifico terreno.
Aggiungo un dettaglio crudele: durante la rotta di Caporetto furono moltissimi anche gli animali uccisi. Tra di loro parecchi furono letteralmente bruciati vivi nelle stalle, perché non si voleva lasciare questo bene prezioso nelle mani del nemico. La fretta e la concitazione del momento spinsero i nostri militari a prendere anche misure tanto ripugnanti.
Infine: il problema della distruzione del patrimonio zootecnico avvenne anche altrove. Ovviamente, si dirà. Nel nostro libro si richiamano però esempi che riguardano il comportamento dell’Italia: la colonia dell’Eritrea fu chiamata, sempre nella Prima guerra mondiale, a dare un contributo ingente di carne bovina per le necessità dei nostri soldati, così che la popolazione locale fu ulteriormente impoverita, mentre nel Secondo conflitto cercammo di saccheggiare il patrimonio animale e forestale di paesi occupati come il Montenegro. Autori di questi contributi sono Massimo Zaccaria e Federico Goddi.
Quale portata ebbe il reclutamento e l’impiego di animali nelle guerre italiane del Novecento?
Il discorso riguarda – di nuovo – l’intera Europa. Gli animali servivano per molti scopi: i bovini, come detto, soprattutto per quelli alimentari, oltre che per il traino di carriaggi; i cavalli per i reparti di cavalleria e anche loro per trainare carri e pezzi di artiglieria, si pensi con quale sforzo. Fondamentale fu l’apporto dei muli, specialmente in montagna. Ma furono impiegati massicciamente anche i cani, per vari compiti compreso quello di trainare slitte in montagna. I colombi costituirono ancora un valido mezzo per le comunicazioni, laddove le linee telefoniche erano impossibili da realizzare o erano state danneggiate. Nel suo saggio Emanuele Cerutti offre un quadro molto dettagliato, ricco di dati statistici anche per le guerre successive.
Durante le guerre, si può dire, gli animali impiegati subirono lo stesso destino degli uomini: furono feriti o uccisi dalle granate o dalle pallottole, furono colpiti dalle più diverse malattie o dagli “incidenti sul lavoro” dovuti a cadute, usura da fatica, e così via. In tante circostanze divennero pure carne da macello: un cavallo morto poteva diventare un’ottima integrazione alle misere razioni che i soldati ricevevano, per non parlare dei nostri alpini durante la ritirata di Russia del 1943 che cercarono di sopravvivere grazie anche alla carne dei loro muli.
In cosa si tradussero per le popolazioni colpite gli eventi bellici?
Questo argomento è ormai studiatissimo, da decenni. Possediamo una sterminata bibliografia in materia, frutto del lavoro degli storici, ma anche di tanti autori di memorie e diari. Impossibile qui pensare anche solo a un sommario. Mi limito a ricordare gli aspetti che sono presenti in questo libro. Si parla degli effetti dei bombardamenti aerei della Seconda guerra mondiale, in particolare i mitragliamenti e gli spezzonamenti avvenuti nelle campagne italiane da parte di singoli aerei da cacia (i cosiddetti “Pippo”): l’argomento è proposto da Andrea Villa. Ma si parla pure di episodi avvenuti nelle nostre terre nord-orientali in entrambe le guerre: quel che successe dopo Caporetto (vicende studiate da Matteo Ermacora) e quel che avvenne invece in Carnia nel 1944-1945 con l’arrivo delle formazioni cosacche al seguito dei tedeschi (Fabio Virardo). Anche questi argomenti sono stati molto studiati, ma spesso si tratta di studi locali, anche pregevoli, che però non hanno ancora promosso il recupero di una memoria nazionale su quei fatti. Una novità, credo, è lo studio di Roberta Pergher sulla politica di intervento del fascismo in Libia, con la creazione di campi di concentramento e di deportazione della popolazione e quindi anche sulle trasformazioni indotte sul paesaggio locale, “naturale” e antropizzato che fosse.
Giorgio Vecchio è stato professore ordinario di Storia Contemporanea presso l’Università di Parma. È presidente del comitato scientifico dell’Istituto Alcide Cervi e di quello della Fondazione Don Primo Mazzolari, rispettivamente a Gattatico (Reggio Emilia) e Bozzolo (Mantova). Tra i suoi libri segnaliamo: Lombardia, 1940-1945. Vescovi, preti e società alla prova della guerra, Morcelliana, Brescia 2005; L’Italia del Vittorioso, Ave, Roma, 2011; Un «Giusto fra le nazioni»: Odoardo Focherini (1907-1944). Dall’Azione Cattolica ai Lager nazisti, Edizioni Dehoniane, Bologna 2012; Storia dell’Italia repubblicana (1946-2018), Monduzzi Editoriale, Milano, 2019 [Con P. Trionfini]. Ha curato, tra l’altro, la pubblicazione di E. Sereni, Diario (1946-1952), Carocci, Roma, 2015; di P. Mazzolari, Diario. 5. 25 aprile 1945-31 dicembre 1950, EDB, Bologna, 2015; di Emilio Sereni. L’intellettuale e il politico, Carocci, Roma, 2019.